Ai sostenitori senza se e senza ma delle Grandi opere, che nel crollo
del ponte Morandi vedono solo l’occasione per recriminare la mancata
realizzazione della Gronda, passaggio complementare e non alternativo al
ponte crollato, va ricordato che anche quel ponte è (era) una “Grande
opera”: dannosa per l’ambiente e per le comunità tra cui sorge e
pericolosa per la vita e la salute di tutti.
...Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza
passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo;
mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre
decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono,
saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di
vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità
di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire,
che alla Gronda, da non realizzare...
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L’idea
di piantare dei pilastri di 90 metri in mezzo a edifici abitati da
centinaia di persone e di farvi passare sopra milioni di veicoli era e
resta demenziale; come lo era e resta la sopraelevata che ha cancellato e
devastato uno dei fronte-mare più belli e pregiati (forse il più bello e
pregiato) del mondo: non a vantaggio di Genova, ma per fluidificare il
traffico del turismo automobilistico delle Riviera di Levante, così come
il ponte Morandi serviva a quello della Riviera di Ponente: negli anni
“gloriosi” (?) della moltiplicazione delle automobili. Con la
conseguenza che quei nastri di asfalto sono stati presi in ostaggio dal
trasporto merci su gomma, per il quale non erano stati pensati,
lasciando languire la ferrovia, tanto che la linea Genova-Ventimiglia
(principale collegamento tra Italia e Francia e, se vogliamo, con Spagna
e Portogallo; altro che Torino-Lione!) è ancor oggi a binario unico.
Un’invasione di campo, quella dei Tir, moltiplicata dalla successiva
produzione just-in-time che li ha trasformati in magazzini semoventi,
cosa impossibile se le autostrade non fossero state messe a loro
completa disposizione e la ferrovia avesse mantenuto il primato che le
spetta.
Da almeno 30 anni si sa che il cemento armato, specie se sottoposto a
forti sollecitazioni come il passaggio di milioni di Tir ed esposto
alla pioggia, al gelo, ai veleni delle emissioni, al sale antigelo, non
dura più di cinquant’anni o poco più; e forse anche meno; ma nessuno, e
meno che mai i fautori della Gronda, avevano programmato una data certa
per la demolizione di quel ponte che oggi richiede anche la demolizione
delle case sottostanti.
E oggi si scopre che i ponti autostradali nelle
stesse condizioni pre-crollo sono almeno 10mila in Italia; e altrettanti
in Francia, Germania e in qualsiasi altro paese. Perché la grande
“esplosione” automobilistica del miracolo economico, che doveva aprire
le porte al futuro, al futuro proprio non guardava: né in Italia, paese
orograficamente disadatto a quel mezzo, né in paesi ad esso più consoni.
Chiunque abbia anche solo ristrutturato il bagno di casa sa che
costruire è (relativamente) facile; demolire è più complicato, rimuovere
(le macerie) è difficilissimo; anche se forse non sa che smaltirle è
devastante, soprattutto in Italia dove scarseggiano gli impianti di
recupero e mancano le leggi per promuovere l’utilizzo dei materiali di
risulta. Così, del futuro di tutti quei manufatti stradali non ci si è
mai occupati, nonostante che oggi, “cadendo dalle nuvole”, si scopra che
la loro demolizione e sostituzione rientra nell’ordinaria, perché
necessaria, manutenzione.
No. Il futuro del ponte Morandi non era la sua demolizione; era la
Gronda: 70 e più chilometri di gallerie e viadotti (in cemento armato)
lungo le alture di Genova: un’opera devastante in uno dei territori più
fragili della penisola, come dimostrano gli smottamenti e le alluvioni
sempre più gravi che ormai colpiscono la città quasi ogni anno. E cinque
miliardi, ma probabilmente molti di più, regalati ai Benetton con
l’aumento delle tariffe autostradali in tutta Italia invece di destinare
quelle e altre risorse al risanamento di un territorio ormai vicino al
tracollo; il tutto per liberare il ponte, se fosse rimasto in piedi, da
non più del 20 per cento del suo traffico… Non c’è esempio che spieghi
meglio quanto le risorse destinate alle Grandi opere inutili e dannose
siano sottratte al riassetto idrogeologico del territorio e alla
manutenzione di ciò che già c’è, abbandonandolo a un degrado
incontrollato: lo stesso vale per il Tav (Torino Lione, ma anche
Genova-Tortona), il Mose; la Brebemi (che vuol dire
Brescia-Bergamo-Milano, ma che stranamente non passa per Bergamo) le
autostrade in costruzione in Lombardia e Veneto; il ponte sullo stretto
(altro che ponte Morandi!) che ha già divorato più di 500 milioni; un
gasdotto che attraversa territori in preda a eventi sismici quasi
permanenti invece di ricostruire quei paesi crollati per incuria e
puntare all’abbandono dei fossili. E così via. Con altrettante
opportunità di creare lavoro finalmente utile.
E giù a dare del “troglodita”, del nemico del progresso,
dell’oscurantista medioevale a chi, in nome della salvaguardia del
territorio, della convivenza sociale, della necessità di mettere in
sicurezza, e possibilmente di valorizzare, l’esistente, si oppone alle
tante Grandi opere inutili e devastanti promuovendo l’unica vera
modernità possibile, che è la cura e la manutenzione del proprio
territorio, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta:
da restituire alla cura di chi vi abita, vi lavora e lo conosce a fondo.
Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza
passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo;
mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre
decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono,
saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di
vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità
di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire,
che alla Gronda, da non realizzare.
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