Migliaia di lavoratori in piazza a Dacca, Bangladesh, il Primo maggio, per chiedere una maggior tutela sui luoghi di lavoro e la pena di morte per i proprietari della fabbrica di abbigliamento crollata il 24 aprile, che ha ucciso almeno 400 persone e ferito 2.500 lavoratori (Ap/Wong Maye-E) Le autorità ipotizzano un difetto della costruzione, che alcuni giorni fa era stata evacuata dopo che si erano formate alcune crepe ed erano caduti calcinacci dalla facciata: gli operai accusano i manager delle aziende di abbigliamento low cost, che producono per la moda europea e americana, di aver «ignorato i segnali di un possibile cedimento della struttura».
Il mio pensiero va alle vittime di Dacco che sono morti in condizioni lavorative disumane per farci acquistare una maglietta "firmata". In tempo di crisi, siamo affamati di moda firmata low cost. Ma se il prezzo è questo, qualche priorità va proprio rivista.
Che
l'edificio ,crollato a Dacca, ospitava le fabbriche che rifornivano
alcune imprese tessili Statunitensi ed Europee è stato ammesso dal
"Dipartimento di Stato Americano", che ha dichiarato:
«Alcune
società che lavoravano nello stabile (crollato) sembrano avere legami
con numerose imprese negli Stati Uniti e in Europa e noi continueremo a
discutere con queste imprese del modo in cui possono migliorare le
condizioni di lavoro nel Bangladesh», ha dichiarato il portavoce del
ministero degli esteri Usa, Patrick Ventrell. «Gli Stati Uniti sono
fortemente impegnati con il governo del Bangladesh, con gli esportatori e
gli importatori sulle questioni dei diritti dei lavoratori e le
condizioni di lavoro e di sicurezza», ha aggiunto.(ma chi ci crede?...)
Numerosi i grandi marchi che hanno ammesso di essere partner commerciali del Rana Plaza, dove le mani delle donne bengalesi si prodigavano per le grandi multinazionali
occidentali
per soli 28 euro al mese.
Tra loro anche Benetton, che solo di recente ha ammesso di avere legami commerciali con la Rana Plaza , incastrata da foto e documenti .
L’azienda veneta,
dopo un primo tentativo di negazione di rapporti con i laboratori
venuti giù nel crollo, ha ammesso: “Il Gruppo Benetton intende chiarire
che nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno
qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e
spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima
dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla
nostra lista dei fornitori“.
Eppure gli
attivisti accorsi a Savar, il sobborgo dove è avvenuta la tragedia, fin
dai primi istanti hanno parlato di capi di abbigliamento prodotti per
grandi marchi occidentali rinvenuti tra le macerie ancora fumanti. Tra
questi anche articoli firmati dall’azienda di Ponzano Veneto che
continuava a smentire : “Riguardo alle tragiche notizie che provengono
dal Bangladesh Benetton Group si trova costretta a precisare che i
laboratori coinvolti nel crollo del palazzo di Dacca non collaborano in
alcun modo con i marchi del gruppo”.(pazzesco!!)
Intanto l’agenzia
France Press fa sapere di aver ricevuto dalla Federazione operai tessili
del Bangladesh dei documenti contenenti un ordine di 30 mila pezzi
fatto nel settembre 2012 da Benetton alla New Wave Bottoms Ltd, una
delle manifatture ingoiate dal crollo. La dicitura “Benetton” appariva
anche sul sito internet dell’azienda, all’indirizzo www.newwavebd.com,
ma fin dalle ore successive al crollo la pagina non è più accessibile e
in rete ne resta solo una copia cache. “Main buyers” (Clienti
principali), si legge in alto a sinistra; più in basso, sotto la
dicitura “Camicie uomo-donna”, l’elenco degli acquirenti: tra questi,
numero 16 della lista, figura “Benetton Asia Pacific Ltd, Honk Kong“.
L’elenco delle
aziende che hanno usufruito dei servizi a Savar è davvero lunga. Tra le
altre troviamo tre imprese italiane, la Itd Srl, la Pellegrini Aec Srl e
la De Blasio Spa. Un’altra ditta, Essenza Spa, che produce il marchio
Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza. Vi sono anche
l’inglese Primark, la spagnola Mango e l’americana Cato e la Clean
Clothes Campaign, ong con sede ad Amsterdam, ha fatto sapere che la
britannica Bon Marche, la spagnola El Corte Ingles e la canadese Joe
Fresh hanno tutte confermato di essere clienti delle manifatture
crollate. Un’altra società, l’olandese C&A, ha spiegato a France
Press di non avere più rapporti con il Rana Plaza dall’ottobre 2011.
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