Dagli anni ’80 del 900 in poi si sono intensificati i
tentativi di mistificazione e di occultamento della realtà economica nei
paesi a capitalismo avanzato al fine di disorientare le classi
lavoratrici e di disarmarle ideologicamente.
Le menate che si sono susseguite, sono diverse: superare il vecchio, rappresentato dal lavoro stabile, doversi fare imprenditori di sé stessi da parte di ciascuno di noi, il post-moderno, il post-fordista, il post operaismi, il miraggio dei guadagni in borsa, l’economia digitale, la fine della storia, la fine dell’industria, la fine del lavoro e della classe operaia, il capitale e il lavoro cognitivo, la moltitudine al posto della classe, la gig economy, e via dando spazio alla creatività senza costrutto per rappresentare in maniera distorta una realtà in cui invece sta progressivamente aumentando lo sfruttamento delle classi lavoratrici.
È uscito proprio in questi giorni un bel libro di Mata Fana, “Non è lavoro, è sfruttamento” per i tipi di Laterza, una sorta di inchiesta sul carattere odierno del lavoro che documenta come si sia passati dal lavoro stabile alla precarietà diffusa, dalla miseria di chi guadagnava meno di 1.000 euro al mese a quella di chi ne guadagna meno di 500, per giungere al traguardo del lavoro gratis (vedi alternanza scuola lavoro). O forse il traguardo è ancora più in avanti, forse i nostri giovani dovranno pagare il datore di lavoro per poter arricchire il loro inutile curriculm lavorativo. Inutile lo ha detto Poletti: meglio giocare a calcetto.
Sull’onda delle belle sorti e progressive delle politiche liberiste è stato privatizzato tutto il privatizzabile e qualcosa di più, si è smantellato il sistema pensionistico tanto che ormai possono sperare di raggiungere la pensione solo i credenti…. nell’Al di Là, si fanno languire scuola e sanità pubbliche.
Per far passare tutto questo è stata di grande aiuto una nuova narrazione che ha messo da parte l’acquisizione scientifica rappresentata dalla critica marxiana dell’economia per approdare a nuove mode culturali, secondo cui le classi e le lotte di classe non esistono più e il lavoro mentale è cosa diversa dal lavoro fisico, e non ne condivide gli interessi di classe. Purtroppo anche gran parte della sinistra si è adeguata a questo andazzo, basti vedere la produzione culturale del Manifesto, che di comunista ha ormai solo il sottotitolo.
I dati che, letti superficialmente, visti superficialmente sembrerebbero attestare il declino dell’industria, sono solo la conseguenza della scomposizione dei processi produttivi e delle esternalizzazioni. Buona parte dei processi che si tenevano all’interno della grande industria ora sono appaltati all’esterno da imprese che spesso sono classificate come terziario. Ma si tratta di servizi per l’industria, che rimane il settore trainante delle economie. Per non parlare delle industrie ri-localizzate nei paesi aventi salari dell’ordine di pochissimi euro al giorno
L’opinione che gli operai e in generale il lavoro dipendente siano diventati una minoranza dipende da una analoga lettura superficiale delle statistiche, per via della crescita delle forme di “lavoro in proprio” che non è altro che una forma di sfruttamento e di cottimo travestito da smart work, partite Iva ecc..
Anglicismi come gig economy, share economy, smart work, new economy, servono solo a travestire da progresso tecnologico il ritorno al vecchio cottimo, che il buon Marx aveva definito come la forma salariale che più corrisponde al modo di produzione capitalistico. Fermarsi alle mutevoli forme giuridiche che oggi regolano i rapporti di lavoro, per perdere di vista la sostanza di questi rapporti è pigrizia intellettuale.
Roberto Fineschi, un eccellente filosofo marxista, ha sottolineato il limite di confondere le “figure” storiche dell’organizzazione del lavoro, che ovviamente non sono oggi più solamente la cooperazione semplice, la manifattura e la grande industria che Marx aveva esaminato nel Capitale, con le “forme” che il processo lavorativo assume nel modo di produzione capitalistico. Nella sua trattazione Marx non sta parlando solo, né principalmente di queste figure storiche, ma le analizza per sviluppare una teoria delle forme del processo lavorativo all’interno del modo di produzione capitalistico, in cui, rimangono alcuni caratteri di fondo: la dimensione cooperativa del lavoro, la parzialità del soggetto che lavora e realizza solo una parte dell’opera, il carattere subordinato di fatto del lavoratore, la sua riduzione al ruolo di semplice supervisore con lo sviluppo dell’automazione. Non cambiano molto questi caratteri se la cooperazione avviene tramite il computer fra individui che magari lavorano in parti diverse del mondo, non si conoscono neppure e magar9 non parlano la stessa lingua. Tali soggetti, allo stesso modo di prima, sono subordinati al processo di valorizzazione del capitale. Il risultato complessivo della loro attività non è da loro posto. Essi sono sussunti da questa. Ricevono un salario, anche se questo può essere in varie forme giuridiche, quale per esempio il voucher o il corrispettivo della partita Iva.
Uno degli obiettivi principali della lotta politica in questa fase è l’unificazione di queste forze che, non comunicanti fra di loro, sono preda o della rassegnazione o dei facili populismi che indirizzano la loro collera verso la casta o, peggio ancora, verso chi sta più in basso di loro nella catena dello sfruttamento, quali i migranti.
La necessità di questa ricomposizione sussiste anche per quanto riguarda la teorizzata contrapposizione fra lavoro manuale e lavoro mentale.
Non c’è nessun motivo per cui il lavoro cognitivo debba essere sottratto all’analisi marxiana in quanto sta in un rapporto di produzione capitalistico. La classe lavoratrice, indipendentemente dal carattere manuale o mentale della propria attività, è subordinata alle logiche del capitale. Il lavoratore mentale può essere, è spesso, precario quanto gli altri lavoratori, fa straordinari ad oltranza, è controllato a distanza, è sfruttato.
Ma per realizzare questa difficile riunificazione non servono nuove teorie à la page, bensì aggiornamento culturale e uno sviluppo teorico che parta dalle premesse marxiane, dimostratesi quanto mai attuali, come nel caso dell’analisi della crisi economica.
Il lavoro di Carchedi è un contributo importante in questa direzione perché, spazzando via un monte di equivoci, introduce nell’analisi del processo di valorizzazione del capitale il lavoro, il lavoratore e il prodotto mentale che, pur avendo caratteristiche specifiche, non invalida in niente la descrizione marxiana dell’estrazione di pluslavoro, e quindi plusvalore, da parte del capitale stesso, come invece vorrebbero farci credere alcuni soloni, convinti che la tendenza a trasformare buona parte del lavoro manuale in lavoro mentale, cambi completamente il quadro e renda superflua o addirittura fuorviante la teoria marxiana del valore.
Del resto tentativi di confutare questa teoria così scomoda, perché un’arma in mano al proletariato, ci sono stati fin dall’uscita del Capitale. Basti pensare alla discussione sui presunti errori del procedimento di trasformazione dei valori in prezzi di produzione, di cui Carchedi potrebbe dirvi molto, perché è fra i migliori affossatori di queste critiche.
Le confutazioni maldestre di del lascito marxiano partono dalla mancata collocazione del lavoro mentale e del prodotto mentale all’interno della metamorfosi del capitale, cioè dell’insieme di processo di produzione e processo di circolazione del capitale. Da qui vengono gli equivoci sul carattere del lavoro mentale e del suo prodotto, ma anche le confusioni fra il ruolo del produttore e quello del consumatore. Non scendo nei dettagli perché Mino ci ha ben raccontato la faccenda. Mi limito solo a dire che se è vero che quando smanettiamo sulla tastiera o sullo smartphone per intervenire sui social o ricercare informazioni in rete inconsapevolmente produciamo informazioni utili al capitale per fare profitti, non è vero che produciamo valore; produciamo solo valori d’uso che mettiamo a disposizione gratuitamente mentre essi diventeranno anche valore solo nella misura in cui dei lavoratori spenderanno lavoro vivo alle dipendenze del capitale per elaborarli e realizzare così merci vendibili ai consumatori o ad altri capitalisti. La nuova classe operaia, o più estensivamente la classe lavoratrice, indipendentemente dalla manualità o meno del proprio lavoro rimane subordinata alle logiche del capitale sempre più totalizzanti. se questa analisi può essere accettata allora parliamo ancora di lotta di classe. Voler separare il lavoro cognitivo da quello manuale è una deriva individualista dei rapporti di forza, quindi fallace. Un giovane impiegato con un contratto precario che fa straordinari ad oltranza, è controllato a distanza, non decide sulla propria organizzazione del lavoro è sfruttato come un facchino, quel che cambia è il livello fisicamente usurante del lavoro.
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