domenica 19 novembre 2017

Libro. Globalizzazione e disuguaglianza di reddito

branko-milanovic-ingiustizia-globale-luiss-499Pubblichiamo il capitolo “Dieci brevi riflessioni sul futuro della globalizzazione e della disuguaglianza di reddito” dal libro “Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media” del grande studioso di diseguaglianza sociale Branko Milanovic, appena uscito per Luiss University Press, che ringraziamo per la gentile concessione.

micromega BRANKO MILANOVIC

1. Quali forze modelleranno la disuguaglianza globale in questo secolo?
Le due forze che modelleranno la disuguaglianza globale sono la convergenza economica e le onde di Kuznets. Le prospettive verso la convergenza, o il fenomeno che vedrà l’Asia raggiungere il passo economico dell’Occidente, sembrano solide. Se anche la crescita della Cina dovesse avere un andamento con alti e bassi, gli elevati tassi di crescita economica di almeno alcuni dei paesi popolosi dell’Asia come l’India, l’Indonesia, il Bangladesh, la Thailandia e il Vietnam proseguiranno il loro corso. È improbabile che rallenteranno tutti insieme. Fino a cavallo del Ventunesimo secolo, la crescita cinese è stata la maggiore responsabile della riduzione della povertà e della disuguaglianza globale, ma in futuro, altri paesi asiatici potrebbero svolgere quel ruolo, e aumenteranno di conseguenza le possibilità che il processo continui – le uova non saranno tutte in un solo paniere.
Il potere economico mondiale si sposterà molto di più verso l’Asia. In una brillante ricerca condotta per diversi anni Danny Quah ha registrato questo spostamento graduale. Negli anni Ottanta, il centro di gravità della produzione mondiale si trovava in mezzo all’Atlantico, tra l’Europa e il Nord America. Nei suoi calcoli più recenti, Quah situa il centro in mezzo all’Iran, e osserva che negli ultimi trentacinque anni ha continuato a spostarsi verso Est (Danny Quah, commento personale). Nel 2050, Quah si aspetta che possa trovarsi tra l’India e la Cina, che avranno così preso i ruoli precedentemente svolti dall’Europa e dal Nord America (Quah 2011).

Il processo che vede i redditi in molti paesi asiatici riprendere quelli delle nazioni dell’Europa occidentale e dell’America del Nord ridurrà anche la disuguaglianza globale. Tuttavia, in questo caso, il ruolo della Cina diviene ambiguo. Sebbene il paese abbia esercitato una grande forza verso una riduzione della disuguaglianza globale nei passati quattro decenni, di fatto la sola forza circa fino al 2000, perché è stato il solo paese a influenzare l’ascesa e il calo della disuguaglianza globale, nel futuro prossimo la sua rapida crescita comincerà ad accrescere la disuguaglianza globale. All’inizio tale effetto sarà contenuto, ma potrebbe poi diventare più ampio, a seconda di che cosa succede in Africa e se aumenti il divario tra la Cina e i paesi poveri popolosi. Quindi, affinché la disuguaglianza globale cali, il mondo ha bisogno di crescita rapida in altri luoghi a parte la Cina. Sembra un fenomeno più probabile in Asia; è dubbio che possa avvenire in Africa.
Anche il ruolo delle onde di Kuznets non è semplice. Se anche dovessero “comportarsi bene”, vale a dire, se la disuguaglianza di reddito cominciasse a muoversi lungo i segmenti di flessione delle curve di Kuznets, prima in Cina e in seguito negli Stati Uniti e nel resto del mondo ricco, potrebbe comunque volerci un decennio per ridurre le disuguaglianze nazionali fino a stabilizzarsi e avere un impatto a livello globale. Per giunta, non possiamo sapere con certezza se la Cina e gli Stati Uniti si trovino davvero al vertice rispettivamente della prima e della seconda onda di Kuznets. In Cina, le principali forze di compensazione – ossia quelle che possono mantenere elevata la disuguaglianza – sono l’aumentata quota di reddito proveniente da capitali privati, la corruzione, e i divari di reddito da regione a regione. Negli Stati Uniti tali forze sono rappresentate dalla pesante concentrazione dei capitali nelle mani dei ricchi, dall’unificazione di elevati redditi da capitale e da lavoro negli stessi individui (il “nuovo capitalismo”) e dal potere politico dei ricchi.
La disuguaglianza di reddito e i problemi politici rimarranno strettamente collegati. Non possiamo aspettarci che una disuguaglianza elevata o persino crescente alteri in modo fondamentale il sistema politico americano, se non spingendolo anche in misura maggiore verso la plutocrazia, ma una disuguaglianza elevata può finire per minare il sistema politico cinese e trasformare il dominio del Partito comunista in un regime più nazionalistico o autocratico o spingerlo verso la democrazia. Entrambi i cambiamenti politici sarebbero probabilmente accompagnati da un’enorme disordine economico e da un calo del tasso di crescita.
2. Che cosa accadrà alle classi medie dei paesi ricchi?
I lavoratori dei paesi ricchi sono schiacciati tra gli individui che guadagnano di più nei loro paesi, che continueranno a ricavare denaro dalla globalizzazione, e i lavoratori dei paesi emergenti, più appetibili perché più economici. Il grande schiacciamento della classe media (di cui ho parlato nei capitoli 1 e 2), trainato dalle forze dell’automazione e della globalizzazione, non è terminato. Questo schiacciamento a sua volta scinderà ulteriormente le società occidentali in due gruppi: una classe molto di successo e molto ricca in cima, e un gruppo molto più ampio di individui i cui lavori prevedano servizi alla classe ricca in occupazioni nelle quali il lavoro umano non può essere sostituito da robot. L’istruzione potrebbe non avere molta influenza, perché molte società ricche sono già vicine al limite più elevato di scolarizzazione (misurata in numero di anni) e forse anche in termini della qualità della stessa; per giunta, molti individui impiegati in lavori di servizio sono già troppo qualificati per le mansioni che svolgono.
Potremmo dover adattare il nostro pensiero a una situazione nella quale la differenza di competenze e capacità tra la classe ricca e i lavoratori nel settore dei servizi è contenuta. Il caso e il contesto familiare svolgeranno un ruolo molto maggiore di prima. Un individuo potrebbe diventare banchiere di Wall Street invece che istruttore di yoga semplicemente perché una sera imbocca la strada giusta (e incontra la persona giusta). Già tra il 10 per cento più ricco per salario non possiamo individuare differenze nelle caratteristiche osservabili (istruzione, esperienza) che spieghino perché i salari tra il più ricco 1 per cento e il restante 9 per cento differiscano di un fattore di dieci o anche di più (Piketty 2014, cap. 9). La ridotta importanza dell’istruzione come explanans dei salari potrebbe investire la scala salariale con il progressivo livellamento dei risultati scolastici. Ironicamente, potrebbe aver avuto ragione Tinbergen nel sostenere che il premio d’istruzione smetterebbe quasi di esistere in una società nella quale tutti sono colti, ma questo non porrebbe fine a grandi differenze di salario. Oltre al puro caso, le dotazioni di ricchezza delle famiglie e, forse anche più importante, le amicizie giuste, conteranno di più. Negli Stati Uniti l’effetto della ricchezza di famiglia e delle reti giuste è molto evidente nelle occupazioni in cui vengono accumulati molto potere e denaro. Le dinastie di politici sono più comuni oggi di quanto non fossero cinquant’anni fa; a individui i cui genitori sono stati attori cinematografici o registi è quasi assicurata una carriera nella stessa industria. Lo stesso vale per il settore finanziario. I figli di politici, di attori o di operatori di borsa sono i più qualificati per svolgere questi lavori nella prossima generazione? Di sicuro no. Ma il successo precedente in queste occupazioni produce altro successo, compreso quello per i propri rampolli. Conoscere chi prende decisioni sulle assunzioni lavorative è cruciale, e tali conoscenze sono agevolate dal contesto familiare e dalle amicizie.
Il nuovo capitalismo, nel quale la contraddizione tra lavoro e capitale sarà risolta all’apice (in un modo peculiare, dal momento che gli individui ricchi saranno sia quelli che guadagnano salari più elevati sia i capitalisti più ricchi), sarà più disuguale. Il successo dipenderà dal caso di nascere bene e di avere fortuna nella vita, più di quanto non fosse nel secolo scorso (secolo di grandi sconvolgimenti politici e sociali). Il nuovo capitalismo assomiglierà a un grande casinò, con una importante eccezione: a chi ha vinto qualche mano (spesso perché nato nella famiglia giusta) saranno date molte più probabilità di continuare a vincere. Chi qualche mano l’ha persa vedrà assottigliarsi sempre di più le probabilità successive di vincere.
Un bambino che ha la fortuna di essere nato dai genitori giusti (ricchi e colti) beneficerà di un notevole coinvolgimento della famiglia e di investimenti per la sua istruzione. A partire dall’obiettivo ultimo che i genitori stabiliscono per proprio figlio: ottenere un buon lavoro ben pagato. Perché ciò avvenga, dovrà frequentare l’università migliore; per frequentare l’università migliore, dovrà frequentare il liceo migliore; per accedere al liceo migliore, dovrà frequentare la scuola elementare migliore; per accedere alla scuola elementare migliore, dovrà frequentare la scuola materna migliore. Pertanto il percorso di un bambino è già determinato dall’età di cinque anni, purché i genitori abbiano abbastanza conoscenze, lungimiranza e soprattutto denaro. Pochissimi genitori poveri o meno istruiti hanno le risorse o le conoscenze per fare queste scelte così presto. Se il bambino si rende conto più avanti nel corso della vita di che cosa ha bisogno per avere successo, il percorso gli o le sarà molto più arduo. D’altro canto, un figlio di genitori ricchi è lanciato in un percorso verso il successo sin dall’inizio e può deviare da esso soltanto se non sia interessato o se mostri seri problemi di apprendimento o comportamentali.
È arduo immaginare che un sistema con un’elevata disuguaglianza possa essere politicamente stabile. Ma forse la disuguaglianza calerà, e il problema dell’instabilità andrà a scomparire. Quello che accadrà in futuro dipende da (1) la natura del progresso tecnologico, che potrebbe evolversi a favore dei poveri, come nella sostituzione di persone in alcune occupazioni che adesso sono pagate molto bene, ad esempio i professori, con lavoratori pagati meno, e (2) la capacità dei “perdenti” in questo sistema di organizzarsi politicamente. Se i perdenti rimangono disorganizzati e soggetti a falsa coscienza, non cambierà molto. Se si organizzano e individuano difensori politici in grado di far breccia nel loro risentimento e ottenere i loro voti, allora potrebbe succedere che i paesi ricchi mettano in atto politiche che li faranno avviare nel segmento di flessione della seconda onda di Kuznets. Come?
3. Come si può ridurre la disuguaglianza in ricchi welfare state?
Il secolo breve secolo è l’unico periodo prolungato nella storia nel quale i redditi medi in ascesa sono stati accompagnati da una decrescita della disuguaglianza di reddito. Questo è avvenuto non solo nei paesi ricchi ma anche in molti Stati in via di sviluppo e in tutti i paesi comunisti. La seconda curva di Kuznets dovrà ripetere il comportamento della prima se la disuguaglianza torna a calare. Ma è incerto se questo secondo calo si realizzerà per gli stessi meccanismi che hanno ridotto la disuguaglianza nel Ventesimo secolo: tassazione e trasferimenti sociali più elevati, iperinflazione, nazionalizzazione delle proprietà, e guerre. Perché no? La globalizzazione rende molto difficile la tassazione più elevata del fattore che contribuisce maggiormente alla disuguaglianza – vale a dire il reddito da capitale – e molto improbabile, senza un’azione del tutto concertata da parte di quasi tutti i paesi, che oggi non sembra neanche lontanamente possibile. Per semplificare, è difficile tassare i capitali perché sono così mobili, e i paesi che beneficiano di questa mobilità non hanno alcuno stimolo ad aiutare quelli che ci rimettono. I paradisi fiscali non esistono solo in microstati, ma in grandi paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito. Si pensi, ad esempio, alla recente riluttanza degli Stati Uniti a indagare ed estradare cittadini cinesi accusati di appropriazione indebita dal proprio governo (si crede che negli Stati Uniti e in Canada si nascondano 66 su 100 degli individui “più ricercati” accusati di reati di natura economica dal governo cinese), o al grande entusiasmo dei broker londinesi nell’accettare il denaro russo a prescindere dalla sua origine. Persino il lavoro a reddito elevato sta diventando più difficile da tassare, perché può facilmente spostarsi da un paese all’altro: non vi sono ragioni ovvie per le quali un dirigente possa non essere in grado di lavorare a Singapore o a Hong Kong invece che a Londra o New York. L’iperinflazione e la statalizzazione non godono più del favore come mezzi per depredare i creditori e i grandi proprietari. Non verranno più statalizzate proprietà fondiarie. L’equilibrio di potere si è spostato dalla parte dei capitalisti, con i proprietari di beni e i creditori a detenere il potere politico. Infine, si spera che si eviteranno grandi guerre, anche se nessuna persona ragionevole può, purtroppo, escludere questa possibilità.
Un approccio molto più promettente per il Ventunesimo secolo è quello costituito da interventi operati prima delle tasse e dei trasferimenti. Tra questi vi sono una riduzione della disuguaglianza delle dotazioni, in particolar modo la disuguaglianza della proprietà dei beni patrimoniali e dell’istruzione. Se le dotazioni (ricchezza e competenze private) divengono meno disuguali, e presumendo che i tassi di rendimento sulla ricchezza non siano marcatamente diversi tra grandi e piccole fortune, i redditi di mercato (ossia, redditi prima delle imposte e dei trasferimenti sociali) sarebbero distribuiti in modo molto più uguale di come non siano oggi. Se la disuguaglianza di reddito di mercato potesse essere tenuta sotto controllo, e nel corso del tempo contenuta, la ridistribuzione pubblica attraverso trasferimenti e imposte potrebbe divenire molto meno importante. Una minor enfasi sulla ridistribuzione soddisferebbe chi crede che tasse elevate abbiano effetti negativi sulla crescita e chi è a favore di uno Stato piccolo, oltre a chi crede che una minore disuguaglianza di reddito disponibile sia molto utile di per sé o chi la sostiene perché promuove l’uguaglianza di opportunità e perché è positiva per la crescita economica. Eliminerà anche uno degli aspetti più perniciosi delle eredità trasmesse dalla famiglia di cui ho discusso nella sezione precedente.
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Come si può ottenere tale riequilibrio delle dotazioni? Anche qui, come in passato, il ruolo dei governi è cruciale, sebbene in questo caso non operino sui redditi attuali (tassandoli e ridistribuendoli) quanto piuttosto, più sul lungo periodo, verso un riequilibrio delle proprietà di capitali e dell’istruzione.
Le politiche che opererebbero in favore di questo riequilibrio comprendono (1) imposte di successione più elevate (come chiede Piketty) che non permetterebbero ai genitori di trasferire nutriti beni patrimoniali ai propri figli, (2) politiche per imposte sul reddito delle società che stimolerebbero le aziende a distribuire quote ai lavoratori (spostandosi verso un sistema di capitalismo a responsabilità dei lavoratori) e (3) politiche fiscali e amministrative che permetterebbero ai poveri e alle classi medie di possedere e mantenere beni finanziari. A questa proposta si adatta anche la richiesta di de Soto (1989) di una maggiore proprietà dei beni, insieme alla legalizzazione di quelli che i poveri già possiedono, come le proprietà che in molti paesi si possiedono senza un titolo legale e che quindi non possono essere utilizzate come garanzie per i prestiti.
Ma queste politiche non basterebbero. L’elevata instabilità dei rendimenti da capitale e il bisogno di moltissime informazioni per prendere decisioni d’investimento sagge, in aggiunta al problema del rischio di lavorare per un’azienda unito al rischio di possedere azioni della stessa, rende molto difficile attuare un “capitalismo degli individui”. Per ridurre la disuguaglianza delle dotazioni devono unirsi una proprietà più diffusa del capitale e una distribuzione più uguale dell’istruzione. E per questo intendo non solo la garanzia che tutti abbiano lo stesso numero di anni di scolarizzazione, ma lo stesso accesso significativo all’istruzione. Per andare in questa direzione è necessaria una nuova enfasi sull’istruzione finanziata dallo Stato. Vado a spiegare perché. Se l’obiettivo è semplicemente quello di rendere il numero di anni di istruzione uguale per tutti, potremmo concludere che quattro anni ad Harvard e quattro anni in una piccola università statale abbiano lo stesso valore, e l’obiettivo si raggiungerebbe con facilità. Ma se l’accesso ad Harvard rimane, per tutte le ragioni pratiche, limitato ai figli dei ricchi e i rendimenti di quattro anni di istruzione ad Harvard superano varie volte quelli di quattro anni di istruzione in una università statale, non cambierà nulla di sostanziale. Ci sarebbe un’uguaglianza apparente, ma non sostanziale, delle dotazioni dell’istruzione. Per raggiungere un’uguaglianza sostanziale dobbiamo riequilibrare l’accesso alle scuole che producono i migliori rendimenti dall’istruzione e/o riequilibrare i rendimenti tra le diverse scuole. In un’economia di mercato è impossibile farlo per decreto, dal momento che nessuno può ordinare alle aziende di offrire salari uguali a individui che hanno studiato in scuole diverse, a prescindere dalla qualità delle scuole stesse. L’unico modo sensato che rimane per riequilibrare le dotazioni dell’istruzione è quello di rendere l’accesso alle scuole migliori più o meno uguale a prescindere dal reddito dei genitori e, aspetto anche più importante, di riequilibrare la qualità dell’istruzione tra le varie scuole. Questo può essere conseguito soltanto con investimenti statali e sostegni finanziari.
In un sistema incentrato sul riequilibrio delle dotazioni, lo Stato svolge un ruolo estremamente importante – ma tale ruolo è piuttosto diverso da quello svolto durante il Great Leveling, nel quale ha lavorato per espandere l’accesso all’istruzione e su meccanismi di ridistribuzione di reddito consistenti in assicurazioni (ad esempio la previdenza sociale negli Stati Uniti) e assistenza (ad esempio i buoni acquisto per generi alimentari negli Stati Uniti). Nel corso della seconda onda di Kuznets, dovrebbe agire maggiormente sulle dotazioni e meno sulle imposte e sui trasferimenti.
Pur essendo possibili da un punto di vista teorico, e pur avendo esempi di paesi che le hanno adottate, questo non significa che tali politiche verranno messe in atto. I welfare state europei, e in misura minore quello degli Stati Uniti, sono stati gestiti per quasi un secolo su premesse del tutto differenti, e cambiarli adesso non sarà semplice. Il vento contrario anti-uguaglianza della globalizzazione renderà tutto ciò ancora più arduo, come la discontinuità nei rendimenti da lavoro che spesso si accompagna alla globalizzazione. Su questo torneremo fra poco.
4. Quella del chi vince piglia tutto rimarrà la regola?
Si dice spesso che una delle caratteristiche della globalizzazione attuale è chi vince piglia tutto. Perché è soltanto così che si spiegano le enormi differenze di reddito tra individui con approssimativamente le stesse capacità. Come nel tennis, una minuscola differenza nel livello di abilità è sufficiente a rendere un giocatore il numero uno nel mondo e guadagnare milioni, e un altro il numero 150 e quindi dover coprire di tasca propria (o più probabilmente a spese dei genitori) la partecipazione ai tornei. Un modo utile per raffigurarsi la regola del chi-vince-piglia-tutto è quella di pensare alla scalabilità di lavori diversi. Come scrive Nassim Taleb nel Cigno nero, i lavori scalabili sono quelli nei quali la stessa unità di lavoro di un individuo può essere venduta molte volte. Un esempio tipico è quello di una pianista bravissima che in passato poteva vendere le sue abilità soltanto a chi fosse andato ad ascoltarla. In seguito, con l’invenzione del registratore, è stata in grado di venderle a chi comprava le registrazioni; oggi, attraverso internet, YouTube, e la condivisione in rete, può venderle praticamente al globo intero. Un pianista solo leggermente meno bravo, o che forse non ha avuto altrettanta fortuna, difficilmente sarà ascoltato da qualcuno. I lavori scalabili, quindi, creano differenze di reddito molto sostanziose all’interno della stessa occupazione. Per giunta, queste differenze di reddito sono sproporzionatamente grandi rispetto a qualsiasi valutazione oggettiva delle differenze nelle abilità.
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Il cambiamento forse più importante continuerà a essere il crescente numero di attività scalabili. Nel Cigno nero, Taleb propone gli esempi di una prostituta e di un cuoco come persone le cui attività non sono scalabili. Ma non necessariamente è più così. Su internet sono sorte intere industrie di individui che pubblicizzano la loro nudità o che insegnano a cucinare, e che lo fanno simultaneamente per migliaia di utenti che pagano una quota. Il punto è: la tecnologia ha espanso tremendamente la capacità di prostitute, cuochi, personal trainer, insegnanti e molti altri di vendere i loro servizi. Una merce rivale è divenuta non rivale. Prendiamo l’esempio di persone diventate famose sui social media e che ora sono pagate da aziende per menzionare (vale a dire pubblicizzare) i loro prodotti. In una recente intervista, Josh Ostrovsky, famoso con il nome Instagram di Fat Jew, spiega il vantaggio della scalabilità: “Voglio che più persone possibili sappiano che sono davvero tremendamente divertente, ma perché dovrei volare in giro per il mondo per esibirmi davanti a centinaia, forse migliaia di persone quando posso raggiungerne molte di più attraverso il mio profilo Instagram?”. Vi sono attività che, almeno attualmente, non possiamo immaginare che diventino scalabili: un taglio di capelli, ad esempio; lo stesso piatto di spaghetti non può essere mangiato due volte. Ma molte cose, e soprattutto servizi, diventeranno sempre più scalabili.
È importante, d’altro canto, non confondere la scalabilità dei servizi con la capacità di vendere maggiormente il proprio servizio. Le operazioni di chirurgia possono adesso essere eseguite in remoto, con un chirurgo a Houston a controllare robot che maneggiano bisturi e operano un paziente a Chennai. Questo aumenta il reddito del chirurgo, ma prevede ancora la vendita di una discreta unità di lavoro soltanto una volta. Non è il caso della capacità dei professori di vendere i loro insegnamenti: li possono vendere in tutto il mondo, molte volte. Io devo lavorare solo una volta per preparare la mia lezione, ma posso (se c’è chi accetta) venderla migliaia o milioni di volte su Internet a chiunque voglia pagare per ascoltarla. Sono questi tipi di occupazione (professori, chef) che continueranno a espandersi nella seconda rivoluzione tecnologica, e quante più professioni combineranno la scalabilità con una maggiore portata, tanto più tenderà a crescere la disuguaglianza di salario.
5. Perché è sbagliato concentrarsi esclusivamente sulla disuguaglianza orizzontale?
Nel libro The Killing Fields of Inequality, Göran Therborn pone un quesito sconcertante: Perché le società ricche sono riuscite maggiormente a ridurre le disuguaglianze legali tra i vari gruppi (bianchi e neri, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali) che quelle generali di reddito e di ricchezza? L’enfasi sulla disuguaglianza “esistenziale” o “di categoria” viene considerata nel Diciannovesimo secolo una posizione radicale, associata agli sviluppi post 1789. Una volta abolite tutte le distinzioni formali di classe tra clero, aristocrazia e popolo, non ci sarebbe stato, si sosteneva, alcun bisogno di concentrarsi sulle differenze di reddito. Come Piketty ricorda nel Capitale nel XXI secolo, questo punto di vista raggiunge il suo apice sotto la Terza repubblica francese, quando la disuguaglianza di reddito cresceva a passi da gigante, ma l’esistenza di un’uguaglianza formale veniva usata come argomento contro i tentativi di agire nei confronti della effettiva disuguaglianza di reddito.
Therborn si domanda se esista uno scambio tra disuguaglianza esistenziale e di reddito. La conquista, o quasi conquista, della prima verrà considerata un tale successo che ci dimenticheremo di perseguire la riduzione delle disuguaglianze di reddito o di ricchezza? O crediamo che la conquista dell’uguaglianza esistenziale si tradurrà in definitiva, come se fosse automatica, in una minor disuguaglianza di reddito? Il riequilibrio tra redditi medi femminili e maschili, per esempio, condurrà a uno scarto minore tra i salari in generale?
Negli ultimi trent’anni si sono ottenuti sostanziali progressi nel raggiungere il trattamento legale uguale dei diversi gruppi. Per esempio, ufficialmente non esiste più apartheid in nessun luogo al mondo e i diritti dei gay vengono accolti da sempre più paesi. Ma fino a trent’anni fa, l’apartheid esisteva in Sudafrica, e fino a quarant’anni fa l’Organizzazione mondiale della Sanità elencava l’omosessualità tra i disordini mentali. Vi è stata anche una forte spinta verso l’uguaglianza “orizzontale”, termine utilizzato in economia per indicare che in media non dovrebbero esserci differenze di salario tra, per esempio, uomini e donne, bianchi e neri, eterosessuali e omosessuali. O più precisamente, se vi sono differenze, dovrebbero essere spiegate da fattori misurabili come migliori competenze o maggiore esperienza. Progressi significativi sono stati compiuti anche in quell’area, pur non consistenti quanto nella disuguaglianza legale. Per esempio, nei paesi dell’OCSE, il divario salariale di genere si è ristretto da una media del 20 per cento nel 2000 al 16 per cento nel 2010 (OCSE 2012, p. 166).
Ma il concentrarsi quasi solo sulla disuguaglianza esistenziale non sempre è d’aiuto, e in alcuni casi può essere del tutto controproducente per il raggiungimento di una riduzione delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Si noti che riuscire a ridurre la disuguaglianza di reddito farebbe calare anche le differenze di reddito dovute alle discriminazioni razziali o di genere. In altre parole, spingere per la riduzione della generale disuguaglianza di reddito può essere preferibile anche se il nostro obiettivo primario è quello di ridurre specifiche disuguaglianze di reddito dovute al genere o alla razza. Ma questo non è l’approccio che viene adottato. Al contrario, l’attenzione è focalizzata sulle disuguaglianze orizzontali, mentre quella complessiva, generale viene lasciata ai suoi capricci.
Il concentrarsi in modo esclusivo sulla disuguaglianza esistenziale è sbagliato per almeno tre ragioni.
La prima: un’enfasi sulle differenze di gruppo si riversa rapidamente in politica identitaria, scindendo i gruppi che hanno un interesse nel battersi per il cambiamento. Il fronte congiunto si sgretola in diversi gruppi concentrati solo sulle loro situazioni particolari; quando le loro lamentele vengono affrontate, sono indifferenti alle condizioni in cui versano altri gruppi.
La seconda: una concentrazione sulla disuguaglianza esistenziale lascia irrisolto il problema fondamentale perché è sbagliato il modo in cui pone la questione. Prendiamo ad esempio le discussioni riguardanti la legalizzazione della prostituzione. Per molte femministe e altri, la prostituzione è un’attività biasimevole che vorrebbero bandire, scoraggiare attraverso l’istruzione, o contenerne la domanda punendo i clienti, in predominanza maschi. Il problema è inquadrato in termini di genere. Ma questo approccio insabbia il problema senza risolverlo. È anche inutile, perché la causa all’origine della prostituzione non viene affrontata. La causa all’origine oggi (e forse nel corso della storia) è la disuguaglianza di reddito e di ricchezza. Ci sono molti (perlopiù) uomini con redditi elevati e molte (perlopiù giovani) donne con poche prospettive di lavoro e senza denaro. È questo il motore della prostituzione a livello nazionale e globale, come nell’esempio del turismo sessuale, dove risulta più ovvio. Il punto non è quello di affrontare la disuguaglianza di genere in sé, quanto piuttosto la sua causa economica. Si consideri quello che accadrebbe se si raggiungesse l’uguaglianza di reddito orizzontale tra uomini e donne, come potrebbe accadere presto, visti i tassi di conseguimento della laurea più elevati tra le donne che tra gli uomini e il crescente numero di donne ricche. La prostituzione potrebbe essere trasformata e invece che il 90 per cento di clienti uomini e il 90 per cento di lavoratrici del sesso donne, ci sarebbe una distribuzione “giusta” e “neutrale in termini di genere” di clienti e lavoratori, con il 50 per cento uomini e il 50 per cento donne. Gli attivisti anti-prostituzione sarebbero contenti di questo risultato? Ovviamente no: la prostituzione sarebbe semplicemente divenuta equilibrata rispetto al genere. Questo scenario ipotetico rivela che la causa reale del problema risiede altrove, nella disuguaglianza di reddito e di ricchezza, non soltanto nel divario di reddito tra uomini e donne.
La terza: un’enfasi sull’uguaglianza esistenziale è relativamente semplice da un punto di vista politico (e il suo esito limitato) perché non va al cuore del problema. Non deve affrontare una reale opposizione da parte dei politici di destra e dei conservatori perché non incide sulla struttura alla base del potere economico e politico. Invece di battersi per un cambiamento significativo, l’interesse dei sostenitori dell’uguaglianza esistenziale arriva soltanto al punto nel quale viene stabilita un’uguaglianza legale. Non tengono in conto problemi per i quali negli ultimi trent’anni i progressi sono stati spesso minimi, soprattutto negli Stati Uniti, ma che sposterebbero il rapporto salario-profitti in favore del lavoro, trovandosi così davanti a una forte opposizione del mondo del commercio (ad esempio, più giorni di ferie per tutti, una settimana lavorativa più breve per tutti, un congedo di maternità e di paternità più lungo e migliori condizioni di lavoro per tutti i genitori, e un salario minimo più alto per tutti). A rigor di termini, anche i capitalisti sanno che l’uguaglianza esistenziale è nel loro interesse; la discriminazione è inefficiente per i datori di lavoro che la praticano. D’altro canto, misure generali che migliorino la posizione di tutti i lavoratori non sono gradite a chi detiene il potere economico. Così, i sostenitori dell’uguaglianza esistenziale si fermano a metà strada. L’uguaglianza formale è di certo una condizione necessaria per il miglioramento generale. Ma non è sufficiente. Un movimento verso un riequilibrio più generalizzato della condizione umana richiede non solo l’uguaglianza legale tra i diversi gruppi nei quali gli umani sono divisi, ma anche concretamente una maggiore uguaglianza di reddito e di ricchezza.
L’uguaglianza esistenziale è equivalente a quella che John Rawls definisce uguaglianza meritocratica – quella che lo studioso considera il livello più basso di uguaglianza, nella quale tutti i partecipanti sono legalmente liberi di perseguire qualsiasi carriera scelgano, ma nella quale le loro posizioni di partenza sono spesso molto diverse. Chi si preoccupa in modo esclusivo delle “identità” punta a piazzare tutti sulla stessa linea di partenza, senza preoccuparsi che qualcuno vi arrivi con la Ferrari e altri in bicicletta. Il loro lavoro si conclude quando tutti sono sulla stessa linea di partenza. Caso chiuso: proprio quando cominciano i veri problemi.
6. Il lavoro rimarrà diverso da altri fattori di produzione?
Quando si parla di lavoro e migrazioni, manca una governance globale di qualsiasi tipo. Per converso, esistono istituzioni globali che si occupano di sviluppo economico (la Banca Mondiale), di bilancia dei pagamenti e debiti internazionali (il Fondo monetario internazionale), di sanità (l’Organizzazione mondiale della Sanità), di commercio, compresi i diritti di proprietà intellettuale (Organizzazione mondiale del commercio), di banche centrali (la Banca dei regolamenti internazionali), e adesso di commercio regionale (gli accordi commerciali dell’Atlantico e del Pacifico). Quando parliamo di lavoro, l’Organizzazione internazionale del lavoro, che è la più vecchia tra le istituzioni qui menzionate, ha poco potere e si occupa principalmente di norme sul lavoro nazionali. L’organizzazione internazionale per le migrazioni è un organo che sorveglia conti e statistiche e che segue puntualmente tutte le catastrofi, invece di farsi promotore di politiche. La ragione di questa mancanza di istituzioni multilaterali concernenti il lavoro e le migrazioni è ovvia: i paesi ricchi e potenti non hanno alcun interesse nel sollevare il problema. Ma ignorarlo attraverso la politica dello struzzo sta diventando più difficile, dal momento che la globalizzazione aumenta la consapevolezza che gli individui acquisiscono delle evidenti differenze nei tenori di vita nazionali, e la distanza fisica è un ostacolo molto minore che mai. L’Europa, fronteggiata da un esodo dall’Africa, e più di recente dal Medioriente e dal subcontinente indiano, sarà forse la prima a cominciare a definire una linea politica multilaterale sul movimento di individui. Tuttavia, diversamente da quello che si immagina adesso (multilateralismo solo tra membri dell’UE), tale linea politica deve coinvolgere anche i paesi di origine. Lo scopo dovrebbe essere un mondo di migrazioni più ordinate e di quote sia al livello dei paesi di origine sia di arrivo.
Affinché tale cambiamento divenga praticabile, dobbiamo cambiare il carattere binario delle regole attuali di cittadinanza nazionale (come sostenuto nel capitolo 3). Con qualche eccezione, la cittadinanza oggi assegna a chi la ottiene gli stessi diritti e doveri che godono tutti gli altri cittadini. È questa natura binaria della cittadinanza che rende i cittadini attuali riluttanti a condividere la loro “rendita di cittadinanza” con i migranti; in termini monetari, la cittadinanza di paesi ricchi è molto preziosa. Muri reali tra giurisdizioni vengono innalzati, in parte, perché vi è un enorme muro finanziario tra l’essere e non essere cittadini di un paese ricco. Ma i cittadini di paesi ricchi potrebbero essere più aperti alle migrazioni di stranieri se questo muro finanziario potesse essere abbassato attraverso l’introduzione di livelli intermedi di cittadinanza meno preziosi (perché, per esempio, potrebbe coinvolgere una tassazione più elevata, un minor accesso ai servizi sociali, o un obbligo a tornare a lavorare nel proprio paese di origine a intervalli periodici). Una simile linea politica aprirebbe la globalizzazione al dimenticato fattore di produzione, il lavoro, e attraverso le migrazioni si abbasserebbe la disuguaglianza e la povertà globale. Perché questo accada, sono essenziali due cambiamenti:(1) la ridefinizione della cittadinanza, e (2) un multilateralismo che coinvolga paesi di origine e di arrivo dei migranti.
Ma anche se le migrazioni divenissero più agevoli di quanto non siano oggi, è comunque estremamente improbabile che il cambiamento sarebbe così forte da condurre ad aprire del tutto le frontiere e a una situazione per la quale i tassi di crescita del PIL dei paesi poveri diventerebbero irrilevanti perché gli individui potrebbero semplicemente andarsene ogni volta che vogliano. Così, rimarrà di cruciale importanza la crescita delle nazioni povere. Andiamo subito ad affrontare questa questione.
7. La crescita economica conterà ancora?
La crescita economica conterà ancora molto nel prossimo secolo: è lo strumento più potente per ridurre la povertà e la disuguaglianza globale (come, anche, per ridurre le povertà nazionali). Difficilmente si può sopravvalutare la sua importanza come mezzo per migliorare le vite delle persone comuni in paesi più poveri. La denigrazione della crescita che di tanto in tanto affiora proviene perlopiù da individui ricchi in paesi ricchi che credono di poter fare a meno di ulteriore crescita economica. Ma questi individui o ingannano sé stessi o sono ipocriti: il loro comportamento – per esempio quando contrattano salari e onorari – mostra che sono interessati a incentivi materiali. Per giunta, se la crescita non fosse necessaria, perché non festeggiamo la recessione invece di cercare di superarla? Se la crescita non contasse, perché i referendum sull’indipendenza della Scozia o sulla secessione della Catalogna dalla Spagna sono imperniati su problemi di natura economica e spesso vengono decisi da essi? Se ai ricchi interessa la crescita del reddito e dell’economia, perché ai poveri non dovrebbe interessare anche di più?
Chi propone un rallentamento della crescita per questioni ambientali è spesso chi contribuisce maggiormente al degrado ambientale e al riscaldamento globale. Si pensi soltanto all’ipocrisia di conferenze sulla neutralità del carbonio in cui gli organizzatori cercano di convincere i partecipanti danarosi di non sentirsi in colpa per aver fatto un volo di quindici ore per arrivare alla conferenza facendo loro pagare la cosiddetta compensazione delle emissioni di carbonio – pratica simile a quella adottata in passato dalla compravendita delle indulgenze per l’espiazione dei peccati nella Chiesa cattolica. Basta osservare la quantità di aria condizionata, automobili e carne consumata dal più ricco 1 o 10 per cento a livello globale per rendersi conto che i ricchi sono coloro che contribuiscono maggiormente al cambiamento climatico. Ma spesso sono anche coloro che richiedono una riduzione della crescita (implicitamente, nei paesi poveri come in quelli ricchi) sulla base della eventuale insostenibilità ecologica di un mondo nel quale i poveri di oggi godrebbero del tenore di vita dei ricchi di oggi.
Vi è una mancanza di equilibrio nelle emissioni di carbonio che solo di rado viene riconosciuta e a proposito della quale mancano ricerche empiriche, nonostante la disponibilità di dati. Si potrebbe facilmente stimare la distribuzione delle emissioni di CO2 nella popolazione mondiale per gruppi di reddito e non, come avviene oggi, per paese. Se l’elasticità di reddito delle emissioni di carbonio è unitaria (vale a dire, un 10 per cento di aumento nel reddito reale comporta un aumento del 10 per cento nelle emissioni di carbonio), allora il coefficiente di Gini delle emissioni di carbonio globali si aggira intorno a 70 punti, che significherebbe che più della metà delle emissioni totali sono responsabilità del 10 per cento globale. Quasi tutti gli individui appartenenti al decile più ricco del mondo, come sappiamo, provengono dai paesi ricchi. Non dall’Africa.
Tassi elevati di crescita economica rimarranno cruciali, in particolar modo per i paesi poveri dell’Africa, e di alcuni dell’Asia e dell’America centrale. Di conseguenza la nostra preoccupazione principale non dovrebbe essere come gestire il rallentamento della crescita, ma come alzare i tassi di crescita dei paesi molto poveri. Vi è inoltre un legame diretto tra i tassi di crescita dei paesi poveri e le pressioni alle migrazioni di cui si è parlato poc’anzi. Se la crescita dei paesi poveri riprende, dovremmo anche risolvere più facilmente il problema della domanda sostenuta di migrazioni, oltre ai problemi politici legati alle migrazioni nei paesi destinatari. Questo significherebbe meno politiche populiste e spesso xenofobe in Europa, e meno strumentalizzazione politica delle migrazioni negli Stati Uniti.
È importante rendersi conto che una efficace azione di equilibrio deve essere compiuta tra tre variabili: i tassi di crescita dei paesi poveri (e popolosi), le migrazioni, e la sostenibilità ambientale. Le migrazioni e lo sviluppo dei paesi poveri sono, dal punto di vista della povertà globale e della riduzione della disuguaglianza, equivalenti: individui poveri diventerebbero più ricchi, o nel loro paese o altrove. Dal punto di vista politico, naturalmente, non sono equivalenti. Ma questo meritevole obiettivo di aumentare i redditi degli individui deve essere equilibrato assicurandosi che sia ecologicamente sostenibile. In linea di principio, questo richiederebbe sacrifici altissimi da parte dei ricchi. In altre parole, se, a causa di miglioramenti nel tenore di vita dei poveri di oggi (che sia attraverso fenomeni migratori o una crescita più rapida in Africa e Asia), l’equilibrio ecologico viene sconvolto, si dovrebbero imporre freni alla crescita dei ricchi. So che questa è una dichiarazione particolarmente impopolare in questo momento in cui la Grande Recessione è ancora in atto o è terminata da poco, ma il ragionamento che la sostiene mi sembra incontrovertibile.
8. La preoccupazione per la disuguaglianza sparirà dall’economia?
Fino a un paio di anni fa poteva sembrare che la preoccupazione per la disuguaglianza fosse soltanto una “moda del mese”, o nella migliore delle ipotesi, dell’anno, e che con il passare dei mesi e degli anni, gli economisti sarebbero passati a occuparsi di altro. Non penso che questa posizione sia più ragionevole.
Prima di tutto, l’economia ha attraversato progressi metodologici, grazie alla reintroduzione della disuguaglianza nel pensiero economico, che saranno difficili da dimenticare o da ignorare. L’economia si sta spostando da un interesse quasi esclusivo per gli agenti rappresentativi e le medie a un interesse per la eterogeneità. E nel momento in cui si entra nel territorio dell’eterogeneità, si ha a che fare con la disuguaglianza. Non deve per forza trattarsi di disuguaglianza di ricchezza e di reddito; potrebbe essere disuguaglianza di istruzione, condizioni di salute, QI o punteggio SAT, fiducia, corruzione o qualsiasi altra cosa. Ma quando si comincia a non pensare più in termini di medie, la nostra prospettiva sul mondo cambia in modo marcato. Possiamo paragonarla al passaggio da un mondo bidimensionale a uno tridimensionale. Queste preoccupazioni sono ormai radicate abbastanza profondamente tra le nuove generazioni di economisti e studiosi di scienze sociali. Gli economisti le includono nelle loro tesi, in progetti di ricerca e studi empirici, e quando questi progetti a lungo termine vengono completati, e quando le nuove generazioni cominciano a occupare ruoli accademici e di ricerca, il paradigma cambierà in modo graduale. Ci vuole molto tempo per sostituire un vecchio paradigma; a volte è richiesto un importante evento economico per rivelare la discrepanza tra quello che un paradigma insegna e come il mondo funziona davvero. (Questo è precisamente quello che la Grande Recessione ha fatto per il paradigma dell’agente rappresentativo di massimizzazione del reddito con orizzonte infinito a informazione perfetta.) Il nuovo paradigma che si sta creando in questo periodo fondato sulla eterogeneità e sulla disuguaglianza impiegherà del tempo per imporsi, ma poi sarà a sua volta difficile da sostituire.
Un crescente interesse per la disuguaglianza ha anche spronato un importante cambiamento ideologico con cui non osserviamo soltanto le somiglianze tra individui ma anche le loro differenze. Non cerchiamo più di nascondere le differenze tra agenti economici o aziende o individui attraverso il processo della media, vale a dire osservando gruppi medi; anzi, operiamo esattamente il contrario: cerchiamo di disvelare le dissomiglianze. Quando cominciamo a vedere il mondo attraverso questa nuova lente non possiamo tornare ai vecchi modi di guardare.
9. Perché il nazionalismo metodologico sta diventando meno rilevante?
Il concetto di nazionalismo metodologico viene utilizzato per trasmettere l’idea che nella ricerca delle scienze sociali prendiamo spesso lo Stato-nazione come naturale unità di analisi. In tal modo, la disuguaglianza di reddito, come abbiamo visto in questo libro, è quasi sempre misurata a livello di un paese, gli effetti delle politiche economiche sono messi a confronto tra paesi diversi, la spesa pubblica o le esportazioni e le importazioni sono calcolate per paese, e così via. In effetti, per molte variabili economiche è sensato utilizzare il paese come unità di osservazione, non soltanto perché i conti si fanno in quel modo, ma perché sono i governi nazionali a condurre gran parte delle politiche – non corpi sovranazionali né governi locali o provinciali.
Tuttavia, in molti altri casi, il nazionalismo metodologico sta diventando meno rilevante o può dimostrarsi direttamente controproducente per comprendere nuovi fenomeni. Prendiamo in esame diversi esempi nei quali il nazionalismo metodologico non è utile o non può essere applicato. Forse quello migliore è l’introduzione dell’euro. Da un giorno all’altro, le statistiche monetarie di singoli paesi (la cosiddetta base monetaria, M0, o aggregato monetario, M2) che per decenni erano stati indicatori di politiche nazionali chiave, sono scomparse. Non c’erano più autorità monetarie nazionali separate o serie monetarie per la Francia, l’Italia o la Spagna. Nessuno sa per certo quanti euro in contanti vi siano oggi in Spagna rispetto alla Germania. Un altro modo nel quale i governi possono perdere tutte o parte delle politiche monetarie nazionali è l’adozione della moneta di un altro paese (come avvenuto a Panama o in Perù dall’adozione del dollaro statunitense). Il Sistema della Riserva Federale (Fed) statunitense stima che circa 1,3 trilioni di dollari statunitensi circolino fuori dagli Stati Uniti. Chiunque sia andato in Russia deve aver notato che nonostante i venticinque anni di capitalismo e il libero scambio di rubli, molte transazioni vengono effettuate, o i prezzi sono indicati, in dollari statunitensi. Dal momento che questi dollari rappresentano potere d’acquisto reale e non è probabile che rientrino presto negli Stati Uniti, le politiche monetarie russe devono prendere in considerazione la loro esistenza. In altre parole, limitano la capacità delle autorità nazionali di condurre politiche monetarie.
Prendiamo altrimenti l’esempio delle leggi europee che rimpiazzano quelle nazionali o che richiedono armonizzazione tra le leggi di nazioni diverse. In questa situazione il nazionalismo metodologico è chiaramente inappropriato. È anche poco chiaro quale rilevanza abbiano le esportazioni e le importazioni nazionali in un’economia integrata e globalizzata nella quale grandi aziende, attraverso la determinazione dei prezzi di trasferimento, o “importazioni” ed “esportazioni” interne con l’intento di minimizzare le tasse, possono influenzare fortemente le statistiche commerciali nazionali, mostrando che le esportazioni di un paese sono più alte o più basse senza che nulla sia effettivamente cambiato. Allo stesso modo, per esempio, se una parte consistente delle esportazioni di un paese proviene da aziende che appartengono a stranieri (come nel caso dell’Irlanda) i dati statistici relativi alle esportazioni possono sembrare alti e il PIL aumentare, ma il PNL (che include solo i guadagni dei cittadini) può essere molto più contenuto o avere un andamento diverso dal PIL. In effetti, in Irlanda il divario tra il PIL e il PNL è circa pari al 20 per cento. Con il crescere del fenomeno della globalizzazione, la discrepanza tra PIL e PNL diventerà più comune. La situazione diviene anche più oscura quando chiediamo chi siano questi cittadini stranieri. Molti hanno doppia nazionalità, e molti vivono in più paesi. Di conseguenza, può sembrare che il reddito netto dei fattori (il rendimento dagli investimenti) che esce dall’Irlanda vada ai cittadini degli Stati Uniti se un’azienda è registrata lì, ma potrebbe scoprirsi che questi cittadini statunitensi siano anche cittadini russi che hanno residenza fiscale alle Bahamas. Il nostro reddito uscito dall’Irlanda sarà quindi andato agli Stati Uniti, alla Russia o alle Bahamas? Quando il prodotto più rilevante è costituito da servizi finanziari, e il deflusso netto dei fattori va nelle mani di individui che nascondono aziende alle isole Cayman (o in Lussemburgo, dove il PNL è soltanto un terzo del PIL), il problema diviene anche più intrattabile. Come osserva Gabriel Zucman (2017), è reso intrattabile intenzionalmente, per rendere non tracciabili i redditi ed evadere le tasse.
Il divario tra la cittadinanza originale di un individuo, stabilita in genere dal luogo di nascita, e la sua attuale cittadinanza o residenza, per quanto interessi soltanto il 3 per cento circa della popolazione mondiale, mette in dubbio persino i nostri indicatori statistici più venerandi come il PIL e il PNL. Clemens e Pritchett (2008) hanno sostenuto che il prodotto “nazionale” dovrebbe essere calcolato tra persone nate in un dato paese e non, com’è adesso, tra persone che attualmente vivono nel dato paese. Per esempio, potrebbe esserci un divario significativo tra il reddito pro capite di individui nati nelle Filippine e quello degli attuali residenti nelle Filippine.
Movimenti transnazionali di individui, redditi e capitali comportano problemi statistici del tutto sconosciuti persino venti o trenta anni fa. Le famiglie messicane riportano, tra i loro trasferimenti sociali, pensioni ricevute da membri del nucleo familiare che hanno lavorato negli Stati Uniti e in pensione sono tornati in Messico. Dovremmo considerare queste pensioni alla stregua di “normali” pensioni messicane, dando così l’impressione sbagliata sulla portata e la distribuzione dei trasferimenti sociali messicani? O dovremmo forse invece considerarle rimesse, anche se le rimesse sono trasferimenti unilaterali tra diversi individui e non (come una pensione) pagamenti allo stesso individuo per servizi passati? Il Messico e gli Stati Uniti sono soltanto una coppia rappresentativa: gli stessi problemi appaiono in altre parti del mondo nelle quali una percentuale significativa della popolazione nazionale lavora o ha lavorato all’estero.
Gli studi sulla disuguaglianza globale trascendono i limiti del nazionalismo metodologico. Ma come abbiamo già visto nel corso di questo libro, il livello globale è nella migliore delle ipotesi considerato uno strato nuovo e aggiuntivo rispetto a quello nazionale. Il livello globale può in molti casi essere più utile da studiare, ma l’analisi non può ancora prescindere dallo Stato-nazione. Per esempio, abbiamo visto nei capitoli 2 e 3 come le disuguaglianze interne alle nazioni e tra nazioni, rispettivamente, entrino nel calcolo della disuguaglianza globale, e come entrambe contino ancora. Ma una volta che siamo disposti a osservare il mondo nella sua interezza piuttosto che come un agglomerato di Stati-nazione, diversi problemi compaiono sotto una nuova luce più rivelatrice. Abbiamo preso in esame due esempi simili nel capitolo 3: lo Stato di diritto e la parità di opportunità. Credere che i ricchi abbiano sempre un interesse nel battersi per lo Stato di diritto o per i diritti di proprietà nei loro paesi poteva avere un senso quando i movimenti transnazionali dei capitali erano difficili o impossibili. Ora non ha senso. La parità di opportunità non può essere un obiettivo limitato al livello dello Stato-nazione. Dobbiamo perseguirlo a livello globale.
Con la progressiva integrazione del mondo, molte revisioni simili incideranno sugli strumenti economici fondamentali di cui ci avvaliamo. Ho già menzionato che i conti nazionali diventeranno meno rilevanti e che le linee politiche monetarie potrebbero non essere più condotte dagli Stati. (Si pensi anche al ruolo che potrebbero svolgere monete private come il Bitcoin). Ma persino concetti economici essenziali come i vantaggi comparati, una teoria fondata sulla presunzione implicita del nazionalismo metodologico, vale a dire, di conti nazionali e dell’immobilità di alcuni fattori di produzione, potrebbero dover essere rivisti. In un mercato singolo il vino e il panno sarebbero, come nel famoso esempio di David Ricardo, prodotti in Portogallo perché i lavoratori e le macchine si trasferirebbero tutti lì (e nulla rimarrebbe in Inghilterra). Con il progressivo mutare del mondo che diviene più integrato, i nostri modi di pensare e gli strumenti di cui ci avvaliamo per comprendere il mondo diventano obsoleti. Nell’epoca della globalizzazione si rendono necessari nuovi modi di osservare la realtà. Questo libro è un modesto passo in quella direzione.
10. Con il proseguire del processo di globalizzazione scomparirà la disuguaglianza?
No. I guadagni dalla globalizzazione non saranno distribuiti equamente.
(18 novembre 2017)

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