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Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in
Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai
ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha
fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo
esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo
Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un
artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul
“Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha
sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in
tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero
commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la
riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni.
Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a
partire dal 1980 ha coinciso con la crisi
della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle
diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli
anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la
nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.
All’indomani della crisi finanziaria del 2008, scrive Metcalf in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”,
il termine neoliberismo è stato un modo per attribuire la
responsabilità della débacle: non a un partito politico di per sé, ma ad
un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i democratici Usa
e i laburisti inglesi, questa cessione è stata descritta come un
grottesco tradimento dei loro principi: Bill Clinton e Tony Blair, è
stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra,
in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite
finanziaria globale e di politiche autoritarie (che li hanno
arricchiti). E nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento
delle diseguaglianze. Ormai l’accusa di neoliberismo è un’arma retorica,
«un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che
stanno anche un centimetro alla loro destra». Ma il neoliberismo,
osserva Metcalf, è anche un filtro attraverso cui guardare il mondo: «I
pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno
contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato
universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta
di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e
perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili)».
Naturalmente, si trattava di «indebolire lo Stato sociale e
l’obiettivo della piena occupazione», nel frattempo abbattendo le tasse e
spianando la strada al business senza regole. E’ anche e soprattutto
«un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status
come individui isolati». Basta vedere «in quale maniera pervasiva siamo
invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e
iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e
adattarci». Lo stesso linguaggio, prima limitato alle semplificazioni
didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza,
trasparenza, comportamenti razionali) ora «è stato applicato a tutta la
società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale», ridotta
a marketing permanente. Neoliberismo non significa solo «politiche a
favore del mercato o compromessi col capitalismo finanziario fatti dai
partiti socialdemocratici falliti». È anche «la denominazione di una
premessa che, silenziosamente,
è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze»,
come se la concorrenza fosse «l’unico legittimo principio di
organizzazione dell’attività umana».
Non appena il neoliberismo – certificato come reale – ha «reso
evidente l’ipocrisia universale del mercato», allora «i populisti e i
fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere». Negli Usa,
Hillary Clinton, cioè «il super-cattivo dei neoliberal», ha perso nei
confronti di Trump, «un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di
odiare il libero scambio». Contro la globalizzazione, scrive Metcalf,
si è riaffermata l’identità nazionale nel modo più duro possibile: da
una parte la Brexit e, oltreoceano, «un folle a ruota libera» alla Casa
Bianca. «Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di
vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di
vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio,
una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e
il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come
dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale
caduta nella post-verità e nell’illiberalismo», afferma l’analista
inglese, secondo cui – per capire bene il fenomeno – è meglio archiviare
i Clinton e tornare alla radice del male: «C’era una volta un gruppo di
persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto
orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero».
Il più importante fra di loro, l’economista austriaco Friedrich von
Hayek, «non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico,
o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della
microeconomia: pensava di risolvere il problema della modernità». Per
Hayek, «il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e
servizi: rivelava la verità». Solo che «la sua ambizione si è rovesciata
nel suo opposto». Ovvero: «Grazie alla nostra venerazione sconsiderata
del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla
vita pubblica», scrive Metcalf. Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe
“l’illuminazione”, pensò di aver incontrato qualcosa di inedito: «Come
può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti
diverse – ha scritto – portare a risultati che, se dovessero essere
perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del
regista che nessuno può possedere?». Non era tecnicismo economistico, né
una polemica reazionaria
contro il collettivismo: «Era un modo di far nascere un mondo nuovo»,
sostiene Metcalf. «Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato
potrebbe essere considerato come una sorta di mente».
La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la
concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e
quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma
Smith era un moralista del XVIII secolo, «pensava che il mercato fosse
giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una
società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo
scambio non fosse affatto una società». Il neoliberismo? «E’ Adam Smith
senza il suo timore», dice Metcalf. «Che Hayek sia considerato il padre
del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia
– è un po’ assurdo, dato che era un economista mediocre. Era solo un
giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla
London School of Economics per competere con la stella nascente di John
Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla». Il piano fallì,
e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La “Teoria Generale
dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes, pubblicata
nel 1936, fu accolta come un capolavoro. «Dominava la discussione
pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione,
per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente,
rappresentava un modello ideale».
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua Metcalf, molti
eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di
pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da
svolgere nella gestione di un’economia
moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua
peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione
economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Più tardi, lo
stesso Hayek ammise addirittura di aver sperato che il suo lavoro di
critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato. Nel 1936 era un
accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. «Adesso
viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di
Keynes». Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore
dell’università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del
sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale, alla pari della
microeconomia del XX secolo», nonché «la cosa più importante da
imparare oggi in un corso di economia». Il pensiero di Keynes, un uomo che non ha vissuto né previsto la
guerra fredda, era comunque «riuscito a penetrare in tutti gli aspetti
del mondo della guerra fredda». Allo stesso modo, osserva Metcalf,
«anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di
Hayek».
L’economista austriaco aveva una visione globale: un modo di
strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia col
dire che le attività umane sono una forma di calcolo economico e possono
così assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio,
costo – e soprattutto: prezzo. «I prezzi sono un mezzo per allocare le
risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base
alla domanda e all’offerta». Perché il sistema dei prezzi funzioni in
modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. «Da
quando Smith aveva immaginato l’economia
come una sfera autonoma – prosegue Metcalf – esisteva la possibilità
che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel
suo complesso». Uomini e donne che «hanno bisogno solo di seguire il
proprio interesse personale e competere per le risorse scarse».
Attraverso la concorrenza diventa possibile, per citare il sociologo
Will Davies, «discernere chi e che cosa ha valore». E così, rileva
Metcalf , nel pensiero di Kayek non ha più alcun posto «tutto ciò che
una persona che conosce la storia
vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento: una
classe media prospera e una sfera civile, istituzioni libere, suffragio
universale, libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e
stampa».
In Hajek viene mancare «il riconoscimento di fondo che l’individuo è
portatore di dignità». L’austriaco, infatti, «ha incorporato nel
neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione
necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per
evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato.
Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica
fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno Stato
minimo, noto come “liberalismo classico”». Nel liberalismo classico,
infatti, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciar
fare” a loro. Il neoliberismo, invece, «riconosce che lo Stato deve
essere attivo nell’organizzazione di un’economia
di mercato». E quindi, «le condizioni che consentono il libero mercato
devono essere conquistate politicamente». Per questo, «lo Stato deve
essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e
continuativo». E non è tutto: «Ogni aspetto della politica
democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici,
deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore
è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non
distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato
fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le
forze di mercato operano spontaneamente».
La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai
“meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi,
che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per
gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita. «Mentre
Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra,
Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge». Era stato mandato lì
durante le evacuazioni di guerra, e si lamentava di essere circondato da
«stranieri» e «orientali di tutti i tipi», nonché da «europei di
praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una
reale intelligenza». Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o
credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo: «Un’idea così
grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a
Keynes e a qualsiasi altro intellettuale». Lasciato libero di
funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente: «E
non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato
calcola ciò che gli individui non possono afferrare».
Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il
giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna
mente umana ha mai colto l’intero schema di una società. Nella migliore
delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema,
qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a
un uomo reale». Affermazione forte: il mercato è un sistema per
conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente
individuale. «Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da
manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da
placare», scrive Metcalf. «L’economia
cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere
fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore
della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso.
Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima
di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri
modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola:
comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse
particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali,
o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in
prezzi, o fatti oggettivi».
Via dall’ateneo, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non
fosse pagato da grandi sponsor aziendali. «Anche i suoi colleghi
conservatori dell’università di Chicago – l’epicentro globale del
dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un
portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno
“sponsor di squadra della destra”, come si suol dire». Ancora nel 1972,
quando un amico andò a trovare Hayek a Salisburgo, «trovò un uomo
anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della
sua vita era stato inutile: nessuno si interessava a quello che aveva
scritto!». C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo
politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di
Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher, che «esaltava Hayek di
fronte a tutti e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del
libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia,
comunità, lavoro duro». Hayek si incontrò privatamente con la “lady di
ferro” nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader
dell’opposizione, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande
Idea per consegnarla alla storia.
L’incontro durò mezz’ora. Al termine, lo staff della Thatcher chiese
ad Hayek cosa ne pensasse. «Per la prima volta in 40 anni, il potere
restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli
aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e
ricostruire il mondo». Rispose: «Lei è veramente bella». La Grande Idea
di Hayek non è granché, come idea, fino a che non la ingigantisci.
Continua Metcalf. «Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un
milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per
creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un
mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del
granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà.
Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie
prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano
quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante;
un keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa
succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo
tutta la società come una sorta di mercato?».
Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si
nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più
permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza
intellettuale più importante dell’Occidente sin dal 17° secolo, continua
Metcalf. «L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il
mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa
essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel
mondo, come qualsiasi altra cosa?». Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia.
Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della
Grande Idea di Hayek. «Prima della guerra, anche l’economista più
conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo
limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi
di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola
di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli
obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera
non-economica». Lo scrive nel 1922 il saggio “Etica e interpretazione
economica” di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di
Hayek: «La critica economica razionale dei valori dà risultati
ripugnanti per il buon senso: l’uomo economico è egoista e spietato,
degno di condanna morale».
Gli economisti, prosegue Metcalf, avevano dibattutto aspramente per
200 anni su come considerare i valori sui quali si organizza una società
mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale.
Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava
davanti a Franklin Delano Roosevelt e agli interventi sul mercato del
New Deal. Quegli economisti «fondarono l’università di Chicago facendone
quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia
del libero mercato che rimane ancora oggi». Tuttavia, Simons, Viner e
Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile
prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di
denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la
scienza “dura”. «Non adoravano le equazioni o i modelli, e si
preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si
preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente
distinto dal prezzo». Non che fossero
meno dogmatici di Hayek o più disposti a “perdonare” lo Stato per e le
tasse e la spesa pubblica. «Semplicemente, riconoscevano come principio
fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il
prezzo non era la stessa cosa del valore».
Questo, continua Metcalf, ha fatto sì che Simons, Viner e Knight venissero completamente dimenticati dalla storia.
«È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza
speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza.
La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura
umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore
che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato –
su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza,
folklore o superstizione». Ma più di chiunque altro, «anche più di Hayek
stesso», è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton
Friedman, che «ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek». Prima, però, ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia
è «in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica
particolare o da giudizi normativi», e che è «una scienza oggettiva,
nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio
ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli
uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da
una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo. «I mercati
possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo
stesso, possono essere senza autori e senza valore».
Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della
nostra vita, sottolinea Metcalf, nega ciò che di noi è più
caratteristico: «Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri
umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai
mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite
di modelli economici». Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere
radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di “onniscienza sociale”
significa «ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra
capacità individuale di ragionare, la nostra capacità di trovare le
giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle». Di
conseguenza, la sfera pubblica, cioè lo spazio in cui offriamo ragioni e
contestiamo le ragioni degli altri, «cessa di essere lo spazio della
deliberazione e diventa un mercato di click, “like” e “retweet”».
Internet? «E’ la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo: uno
spazio pseudo-pubblico che riecheggia la vocedentro
la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo
il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato
di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”».
«Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle
nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità
delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica
aggregativa dei grandi dati», sostiene Metcalf. «Quando accediamo al
mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono
classificati, per come la mette il fondatore di Google,
“ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come
un mercato, in modo continuo e in tempo reale». A parte l’utilità
straordinaria della tecnologia digitale, «una tradizione più antica e
umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i
nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul
mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che
ci consente di stabilire ed esprimere valori». Un sapore è definito come
una preferenza su cui non si discute, dice il il filosofo ed economista
Albert Hirschman: un gusto che si può contestare diventa un valore.
Uomini e donne, dice Hirschman, hanno anche la capacità di rivedere i
loro desideri, volontà e preferenze, per chiedersi se valga la pena di
volere quelle cose. E’ decisivo: «Modelliamo noi stessi e le nostre
identità sulla base di questa capacità di riflessione».
Ragiona Metcalf: «L’uso del potere
di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di
questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione
pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia.
Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci
realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa
siamo». Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, invece, queste
espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono
senza significato – come ha detto Friedman, «non sono altro che
relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra». Quando
l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri
valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta
relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman «è un insulto assurdo,
visto che tutte le attività umane sono “relative”, a differenza delle
scienze». Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente, e
alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non
possiamo aspettarci delle prove scientifiche. E quando i nostri dibattiti non sono più risolte con ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dall’arbitrio del potere. «È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi».
Il grande progetto di Hayek, concepito negli anni ’30 e ’40 per
impedire di ricadere nel caos politico e nel fascismo, «ha sempre
coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse»,
rivela Metcalf. Era un’idea «fin dall’inizio intrisa della cosa stessa
da cui sosteneva di proteggereci», anche perché «la società riconcepita
come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta a uno scontro
tra mere opinioni, finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine,
ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi,
altrimenti ingestibili». Nel 1989, un giornalista americano bussò alla
porta di un ormai novantenne Hayek. «Non era più l’uomo di una volta,
sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes». La Thatcher gli aveva
appena scritto, con un tono di trionfo epocale, che niente di ciò che
lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e
le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta
direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul
futuro del capitalismo. Vedeva «un maggiore apprezzamento per il mercato
tra le giovani generazioni». Diceva: «Oggi i giovani disoccupati
di Algeri e Rangoon non protestano per uno Stato sociale pianificato a
livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e
vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il
mercato possa sostenere».
Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di
Hayek non ha rivali, conclude Metcalf: viviamo in un “paradiso”
costruito dalla sua Grande Idea. E’ vero, purtroppo: ogni giorno «ci
sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori,
isolati, discreti, anonimi, e ogni giorno consideriamo il desiderio
residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione
di nostalgia, o di elitismo». Tutto era iniziato come una visione
intellettuale «onestamente apolitica», ma quel pensiero si è trasformato
«in una politica
ultra-reazionaria». Aggiunge Metcalf, amaramente: «Quando abbiamo
abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione
come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del
reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata
ben felice di riempire». L’autorità del professore, del riformatore, del
legislatore o del giurista «non deriva dal mercato, ma da valori
umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di
giustizia». Ma queste figure erano state private di rilevanza molto
tempo prima che Trump cominciasse a squalificarle. E’ una storia
ormai lunga quasi un secolo: e non c’è ancora in circolazione un
vaccino efficace contro il virus mortale, il veleno psico-economico del
neoliberismo.
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giovedì 16 novembre 2017
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