Il traffico di stupefacenti è sempre più gestito da broker in cravatta che lavorano per diversi clan nel mondo. E si limitano a gestire i diversi commerci e mettere in contatto le persone senza toccare neppure il "prodotto".
Il narcotraffico passa per le mani dei “broker”. Gli investigatori li chiamano così. Intermediari che riescono a fare incontrare domanda e offerta. Non c‘è indagine in cui non si trovi almeno uno di loro. Personaggi chiave del mercato della cocaina che stanno cambiando il mondo del traffico di droga. Un tempo “uomini di clan”, oggi somigliano più a liberi professionisti che si muovono sul mercato e mettono a disposizione la loro rete di contatti e rapporti, il loro “know-how” manageriale. I colletti bianchi della polvere bianca.Indagini e processi raccontano sempre più spesso le storie di questi broker che lavorano per le mafie: Cosa nostra, camorra, criminalità organizzata pugliese e soprattutto ‘ndrangheta (ormai da quasi vent’anni sono i calabresi ad avere il monopolio nel nostro Paese del narcotraffico con particolare attenzione alle piazze di Roma e Milano). Personaggi che spesso vivono in Sudamerica dove acquistano personalmente la coca. Uomini che, nascosti da qualche attività di copertura nel terziario, hanno trascorso anni nei paesi latini, coordinando tutto.
Trattando con i cartelli, gestendo i traffici per la loro organizzazione di riferimento ma, spesso, anche per altre: i clan che vogliono entrare nel business, chiedono aiuto ai “colleghi” e quell’aiuto sono i servizi dei broker. Che ovviamente, acquistando quantitativi maggiori, possono trattare sul prezzo. La cronaca racconta anche storie di intermediari che hanno come “clienti” clan antagonisti, uniti solo dagli interessi nel mercato degli stupefacenti. Tregue armate in nome del bene principale: il denaro. Perché anche per la droga valgono le regole del commercio: più acquisti e meno paghi. E allora tanto valeva unirsi e servirsi degli stessi broker.
«Sono figure professionali non surrogabili perché non ce ne sono tantissimi, mentre di soldi ce ne sono in abbondanza. Per la criminalità organizzata di stampo mafioso perdere un carico non è un problema insormontabile: il denaro per poter fare un’altra importazione c’è sempre. Perdere l’intermediario, invece, mette in crisi l’intera filiera perché si perdono conoscenze che non sono replicabili, almeno non immediatamente», spiega il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino.
Gran parte dei broker sono celebri nell’ambiente del narcotraffico. Personaggi spesso inseriti nelle liste dei latitanti più pericolosi, esattamente come i mafiosi che li finanziano. Il broker italiano più celebre è Roberto Pannunzi, detto Bebè. Nato a Roma ma presto entrato in affari con la ‘ndrangheta, Pannunzi era capace di trattare con i cartelli colombiani, in particolare quello di Medellin, da pari a pari.
Furono proprio le autorità di Bogotà a definirlo “il Pablo Escobar italiano”. E visti gli affari che per anni ha fatto con le mafie, soprattutto con la ‘ndrangheta, alla fine è stato considerato affiliato ai clan, uno di loro. Pannunzi aveva fatto così tanti soldi in Colombia da comprarsi una nave per poter gestire meglio il trasporto. È stato arrestato dai carabinieri del Ros e dai finanzieri del Gico a settembre 2013 a Bogotà. Stessa sorte, pochi mesi prima, era toccata a Massimiliano Avesani, altro storico broker, noto con il nome di “Principe”, bloccato dalla squadra mobile di Roma a luglio 2013. A completare la triade dei grandi broker, Marco Torello Rollero, in arte “Lupo”, arrestato dal Gico di Roma ad agosto 2016: si nascondeva in Marocco. Da lì continuava a gestire il traffico, a studiare nuove rotte, a organizzare i carichi.
Tre grandi (e non i soli), il cui arresto ha di fatto creato un vuoto che ora sarà probabilmente colmato. Possibile che, nei paesi produttori della cocaina, ci sia già qualche “delfino” all’opera che ancora sfugge alle forze dell’ordine. Sta di fatto che l’arresto degli intermediari storici ha modificato il mercato. E creato figure emergenti. Personaggi che si stanno dando da fare per prendere quel posto.
I tempi sono cambiati. E i trafficanti si attrezzano: cambiano le rotte e le vie di ingresso, i controlli serrati sui loro scali di elezione, uno su tutti il porto di Gioia Tauro, li hanno costretti a costanti modifiche delle loro strategie. Cambiano i protagonisti (la globalizzazione ha immesso sul mercato anche tante organizzazioni criminali straniere che, però, lavorano sulla piazza italiana senza bisogno dell’intercessione delle nostre mafie) e le modalità. I carichi non sempre sono enormi: alcuni broker preferiscono quantità più piccole ma viaggi molto più frequenti. E cambiano anche le alleanze e gli equilibri su scala internazionale.
Non è un caso che ad aprile la polizia abbia intercettato a Firenze un narcotrafficante messicano ricercato che aveva trovato rifugio nel nostro Paese, in Calabria, dove a proteggerlo nella sua fuga era la ‘ndrangheta. Lo hanno preso mentre era in gita in Toscana con alcuni amici. Il fatto che un narcotrafficante ricercato dagli americani decida di rifugiarsi in Calabria dà la misura della forza delle ’ ndrine.
Tomas Jesus Yarrington Ruvalcaba, 60 anni, era latitante dal 2012, condannato a due ergastoli e ricercato in campo internazionale dagli Usa per associazione per delinquere, traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio, frode bancaria, evasione fiscale e false attestazioni in atti destinati alla pubblica autorità. Un colletto bianco che gestiva il narcotraffico. Esponente del Partito rivoluzionario istituzionale in Messico e dal 1999 al 2005 governatore dello Stato del Tamaulipas, per mesi ha vissuto in una villetta a Paola, nel cosentino. A partire dal 1998, avrebbe percepito cospicue tangenti dai narcotrafficanti messicani, riconducibili prevalentemente al noto “Cartello del Golfo”, agevolandoli, in cambio, nell’esportazione di ingenti quantitativi di cocaina e marijuana negli Stati Uniti d’America.
Un professionista della droga. Come lo sono i broker, “agenti di commercio” che hanno come clienti le mafie interessate a investire nella droga. Esperti del traffico di stupefacenti che spesso la coca non l’hanno mai toccata (tra le maestranze hanno anche chi fa il “lavoro sporco” al posto loro), ma che hanno i contatti giusti per gestire la filiera. E che spesso, rispetto ai loro celebri e potentissimi predecessori, offrono anche servizi diversi.
C’è chi si limita a fornire la coca, chi fa anche le spedizioni e chi, invece, si occupa dell’intero servizio. Lasciando che le mafie ci mettano solo il denaro per poi aspettare i profitti. I broker vengono pagati in “punti”, così li chiamano gli inquirenti, cioè in percentuale sul prezzo della droga. Anche se le ultime indagini svelano che, sempre più spesso, le retribuzioni vengono fatte in quantità di stupefacente che poi loro piazzano sul mercato.
L’ultima operazione antidroga, coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Roma, ha messo in luce questo nuovo aspetto della professionalità dei broker.
«Quando si parla di questi fenomeni non si possono mai fare valutazioni definitive. Certo è che, dalle nostre ultime operazioni, emerge un dato nuovo rispetto alla figura dei broker, quella di un professionista esterno che vende servizi», spiega Prestipino. Il lavoro di guardia di Finanza e Polizia, con sequestro complessivo da 1.000 chili di cocaina, ha permesso di svelare il ruolo che aveva messo a disposizione del clan Alvaro di Sinopoli, in provincia di Reggio Calabria, tutto il suo know-how. Ovvero una rete di conoscenze che gli permetteva di acquistare la droga in Sudamerica, farla passare da Santo Domingo dove poteva contare su un alto ufficiale di polizia corrotto, e farla arrivare in Italia, che fosse per nave (“la lenta”) o per aereo (“la veloce”). Il tutto grazie a una serie di operatori corrotti anche in porti e aeroporti. Gli investigatori hanno fermato anche Michele Andolfo, detto il Gufo, in gioventù vicino ai Nar di Valerio Fioravanti e di Massimo Carminati. Ideali e amicizie abbandonate per farsi assumere a Malpensa come aeroportuale e abbracciare la ben più redditizia causa del narcotraffico.
A coordinare tutto questo sistema che partiva dal Sudamerica e arrivava nella capitale, per gli inquirenti, è Mauro De Bernardis. Un professionista, un “outsourcer” che forniva un servizio a chi glielo pagava. Nessuna affiliazione, nessun rapporto fiduciario. Solo business.
Cambia il mercato della coca, insomma. E «Roma non è una piazza qualunque, ma un privilegiato luogo di incontro in cui le mafie e la criminalità locale, anche straniera, trovano momenti di sintesi e reciproca soddisfazione. Le indagini sui broker, forse più complicate perché impongono la comprensione di diversi ambiti criminali, probabilmente più delle altre contribuiscono a contrastare le organizzazioni criminali, recidendo il vero punto nodale, l’anello in cui domanda e offerta di stupefacente si incontrano», chiarisce il colonnello Gerardo Mastrodomenico, comandante del Gico della guardia di Finanza di Roma. I broker, anelli di congiunzione tra domanda e offerta. Centri nevralgici di un mercato che vale quanto una manovra finanziaria
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