Un richiamo forte, anzi fortissimo in alcuni ambiti, ma disatteso invece nella società, dove sempre meno persone vanno a votare quando non ne vedono l’utilità per cambiare le cose.
Accade che la gente diserti in massa le urne in Sicilia o a Ostia, ma sia andata a votare in massa nel referendum che un anno fa costrinse Renzi alla dimissioni da premier. Insomma sul “voto utile” sembra esserci più saggezza tra la gente comune che nei leader politici.
Accade che nei posti di lavoro, soprattutto nelle fabbriche, i lavoratori che ancora hanno un lavoro contrattualizzato vadano a votare nelle elezioni per le Rsu e scelgano di mandare a quel paese i sindacati complici e di dare consensi ai sindacati conflittuali.
Accade poi che chi è attivo nella società possa verificare come oggi quelli più disponibili al conflitto sociale per i propri diritti, e più attenti agli strumenti di emancipazione (vedi la scuola), siano quelli che hanno “tutto da conquistare” e non coloro che temono di perdere quello che in gran parte hanno già perso o stanno perdendo. Il problema è che non possono votare perché sono cittadini stranieri, inclusi quelli nati nel nostro paese.
Il nostro mondo, il nostro popolo, il nostro blocco sociale, quello cioè composto da lavoratori tradizionali e da lavoratori di nuova generazione, da giovani precari o disoccupati e da pensionati, dalle persone precipitate in basso dal boom della disuguaglianza sociale e dalle misure antipopolari adottate dai governi subordinati ai diktat di Bruxelles, in questi anni è stato scomposto, disaggregato, diviso, privato di identità “di classe”, della coscienza dei propri interessi e un’etica solidale conseguente. Eppure si tratta di milioni di persone che sono sullo stesso lato dei rapporti sociali, in antagonismo ad una oligarchia di ricchi sempre più ristretta e sempre più autoritaria.
Sono milioni, ma sono senza l’organizzazione e la rappresentanza politica dei loro interessi. Prima si è esaurito il ciclo dei partiti di massa, poi quello dei corpi intermedi che in qualche modo “mediavano” tra interessi diversi e contrapposti. Oggi impera la lotta di classe a tutto campo, frontale, brutale e con una consapevole arroganza “dell’alto verso il basso”, che riporta il paese a rapporti sociali ottocenteschi.
In nome degli automatismi dei Trattati europei e atlantici sottoscritti negli anni scorsi dai governi (di destra o di centro-sinistra), oggi nessuno scostamento dai parametri (talvolta casuali, talvolta veri e propri algoritmi) è consentito. E’ in nome di questo orizzonte forzato che vengono messi a mercato – e a profitto – persino la salute o l’istruzione, con risultati sociali e, se volete, etici sempre più devastanti. Le migliori intenzioni lastricano le strade che portano sistematicamente nell’inefficacia o, peggio, alla complicità con il sistema del capitale.
In questo scenario di contrapposizione frontale e di gabbia dei vincoli esterni, la credibilità che tra la nostra gente godono ormai i partiti della sinistra e i sindacati tradizionali è diventata insignificante, anzi spesso vengono vissuti come parte del problema e del sistema, non come una soluzione alternativa al dilagante dispotismo tecnocratico che caratterizza oggi la governance nei paesi europei.
Il fallimento dell’operazione “Teatro Brancaccio” e il ripresentarsi del centro-sinistra come unica soluzione di fronte allo spauracchio delle destre, è un copione già visto sul teatro degli ultimi venticinque anni e con esiti disastrosi. Anzi, è stato un copione rivelatosi decisivo per l’affermazione e l’egemonia dei poteri forti europei attraverso governi come Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema, Monti.
La nostra gente – “i nostri” – non ne può più, non si fida; o non vota o “vota per vendetta”, premiando tutto ciò che in qualche modo evoca inimicizia a queste forze.
I residui della sinistra radicale, con tutto il rispetto, non sono ancora riusciti a far dimenticare la loro subalternità ai governi e alla logica del centro-sinistra. Nel frattempo hanno imbiancato i capelli nel tentativo di tornare ad un piccolo mondo antico che ormai non esiste più. Continuare a vedere la scadenza elettorale e la presenza istituzionale a tutti i costi come un certificato di esistenza in vita, è diventato una maledizione dalla quale occorre contribuire a liberare più militanti possibili. Soprattutto perché negli anni si sono andati via via appannando i contenuti e gli obiettivi di cambiamento radicale del sistema.
Al contrario, come scrivevamo la scorsa settimana, è adesso il momento di rimettere in campo una idea e una prospettiva di rottura e di cambiamento contro il sistema dominante.
Ma la domanda vera che devono porsi tutti coloro che questo e non altro hanno in testa è: chi sono i nostri? Chi sono i settori sociali che oggi, adesso, hanno interesse ad un cambiamento politico e sociale del quadro esistente?
Uno dei problemi, ad esempio, è che quelli più combattivi o che hanno una aspettativa di progresso sociale più forte, non possono votare perché sono stranieri.
Si comprende allora perché la questione della rappresentanza politica sia questione assai più ampia della sola rappresentanza istituzionale.
In secondo luogo, i contenuti sono decisivi e dirimenti. Chi pensa che ancora oggi si possano modificare in meglio le cose restando dentro la gabbia del vincolo esterno – Trattati europei e atlantici – nega una evidenza e riproduce un inganno, anche e soprattutto agli occhi della nostra gente. E su questo va aperta una discussione senza sconti e senza più giri di parole.
Dopo il buco politico apertosi con il fallimento dell’operazione Teatro Brancaccio, un gruppo di giovani attivisti napoletani ha convocato una assemblea pubblica per sabato 18 novembre a Roma (ore 11.00 al Teatro Italia) con un spirito che, almeno, evoca questa necessità di una rottura del quadro esistente.
Se ci eravamo tenuti consapevolmente alla larga dal Brancaccio, parteciperemo invece a questa assemblea e con spirito positivo, dando la dovuta priorità ai contenuti che riteniamo dirimenti.
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