Sono
ancora tante le idee confuse che circolano riguardo il referendum di
domenica 17 Aprile, e in molti cadiamo nei trabocchetti del premier
Renzi che ha esplicitamente invitato a boicottarlo.
clashcityworkers.org Clash City Workers, 15 April 2016
1. Dato che le persone non coinvolte nei movimenti sociali hanno conosciuto la questione Triv in conseguenza al referendum prossimo venturo, credo sia giusto fare chiarezza in merito al quesito referendario. E dunque, su cosa si vota il 17 aprile?
Ci
esprimeremo su un unico quesito referendario, promosso da 9 regioni,
che chiede questo: vogliamo che siano revocate o mantenute le
concessioni per l’estrazione di petrolio o gas naturale in mare – entro
le 12 miglia dalla costa – che scadranno tra il 2017 e il 2027? Si
tratta di circa 20 concessioni che, in caso di vittoria del “Sì”,
continueranno comunque a essere valide sino alla loro scadenza attuale.
Il quesito non riguarda le concessioni oltre le 12 miglia marine. Come
conseguenza pratica, avremo che in caso di vittoria del SI non vi sarà
lo stop automatico, ma la possibilità di funzionare SOLO in regime di
proroga, regime che necessita del parere delle Regioni (ora non
necessario). Dato che le Regioni non sono di norma enti a guida
“blackblocnotavnotriv” molte proroghe saranno comunque concesse a
seconda di quanto i Presidenti giudicheranno conveniente o meno (per i
loro calcoli politici) dare l’avvallo, ma in ogni caso facendo pesare il
proprio parere ai privati estrattori in termini di “compensazioni” (di
vario tipo: dalla realizzazione di lavori pubblici o ambientali a quelle
economiche…). Non è quindi un caso che il referendum sia proposto dalle
regioni!
2. Cosa è esattamente una concessione e quanto dura? È cambiato qualcosa di recente nel regime di queste concessioni?
Le
risorse del sottosuolo sono proprietà dello Stato, che però non si
dedica direttamente ad attività estrattive ma le affida “in concessione”
ad aziende energetiche specializzate. La procedura è complessa: prima
lo Stato rilascia “permessi di ricerca” che, in caso di ritrovamento di
risorse sfruttabili, possono evolvere in “concessioni di coltivazione”.
Sulla base di queste ultime, le aziende realizzano le infrastrutture
necessarie alla produzione, tra cui le piattaforme e i pozzi.
Fino
allo scorso anno la legge italiana prevedeva che le concessioni di
coltivazione (ovvero di estrazione) di idrocarburi durassero 30 anni,
prorogabili (ricordate quando al punto 1 parlavo degli effetti pratici e
delle proroghe?) per ulteriori 5 o 10 anni. La Legge di Stabilità 2016
stabilisce che tali titoli non abbiano più scadenza e restino in vigore
“fino a vita utile del giacimento”.
3.
Le concessioni che sarebbero progressivamente revocate nel prossimo
decennio, in caso di vittoria del “Sì”, dove sono e a quali aziende
appartengono?
Queste
concessioni riguardano il mare Adriatico (di fronte alle coste di
Emilia-Romagna, Marche e Abruzzo), il mar Ionio (provincia di Crotone) e
il canale di Sicilia (provincia di Ragusa e Caltanissetta). La maggior
parte riguarda esclusivamente estrazione di gas, solo 5 riguardano anche
petrolio (una di queste unicamente petrolio). Le aziende titolari delle
concessioni sono ENI (o sue controllate) e Edison.
4. Quanto petrolio e gas possiamo ancora estrarre in Italia, complessivamente?
I dati sono consultabili presso il sito del Ministero. Le risorse sono stimate in 3 categorie:
certe (probabilità > 90% di essere prodotte)
probabili (> 50%)
possibili (> 10%)
Nella
improbabile e ultraottimistica ipotesi che le risorse certe e probabili
siano interamente estratte e sfruttate, l’Italia coprirebbe meno di 2
anni di domanda di gas e poco più di 3 anni di domanda di petrolio, agli
attuali livelli di consumo.
A
questo proposito è importante rilevare due dati significativi: tra il
2005 e il 2014 i consumi di gas in Italia sono calati del 28% e quelli
di petrolio del 33%, non siamo un Paese disperatamente alla ricerca di
nuovi approvvigionamenti; i costi di estrazione di petrolio in Italia si
aggirano attorno ai 50 $/barile. Con i prezzi attuali, attorno ai 40
dollari, la produzione italiana (assieme a quella in molte altre aree
geografiche) è fuori mercato. L’Arabia Saudita, abbassando di proposito
il prezzo del petrolio, ha raggiunto lo scopo di imporsi, ancora una
volta, come regista del mercato mondiale.
In
questo scenario l’Italia e l’Europa, con le loro misere riserve
residue, non hanno voce in capitolo: è sommo interesse strategico
nazionale pianificare l’abbandono progressivo degli idrocarburi.
Facciamo girare due rotelline che connettano la questione trivelle alla
geopolitica internazionale: se non fosse come abbiamo spiegato, ben
difficilmente si capirebbe perché l’Italia e gli altri paesi occidentali
abbiano così tanto interesse a mantenere fra i propri alleati economici
e politici quell’Arabia Saudita culla del salafismo e
armatrice/finanziatrice di ISIS! Perché quelli (e lo stesso ISIS, che
vende ad essa e al petroliere Erdogan il cui padre è -sorpresa!- alla
guida della nostra alleata Turchia) sono i mercati che determinano
prezzi e commercio del petrolio per uso di massa, non certo le
piattaforme che abbiamo in Italia e che arricchiscono (a costo di danni
irreparabili quotidiani, vedi recenti sversamenti sulle coste siciliane)
al massimo dei privati “amici di”! Ciò invalida COMPLETAMENTE
l’argomento “da bar” (o da primo anno di facoltà di ingegneria, se
preferite) del “e ma allora poi dove lo compriamo il gas e il
petrolio?”. Non stiamo vivendo con quello estratto in Italia!
5. Viste le esigue quantità disponibili, perché è appetibile estrarre idrocarburi in Italia?
In
Italia vige un regime di concessione estremamente “benevolo”, che aveva
ragion d’essere quando ENI era al 100% proprietà dello Stato ed era di
fatto l’unica azienda impegnata nello sfruttamento degli idrocarburi
nazionali. Oggi ENI è una società per azioni quotata in borsa e opera in
competizione con altre aziende private, spesso straniere. Questo
vecchio regime di concessione è oggi vantaggioso solo per le aziende
energetiche, non per la collettività nazionale.
I
canoni per i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione
ammontano a poche decine di euro per km2. Altrettanto basse sono le
percentuali sugli utili che le aziende energetiche pagano allo Stato
(royalties): per il petrolio in mare sono del 7% e per il gas del 10%,
ma sono pagate solo oltre una certa quota produttiva (quindi conviene
produrre poco…). Tra l’altro, il sistema della royalties è ormai
superato in tutti i Paesi più avanzati, tranne appunto l’Italia.
Normalmente le aziende versano allo Stato una percentuale dei profitti
che, in Norvegia, sfiora l’80%! E no, in Norvegia non comandano i “ blackblocanarconotrivautonomi”
ma al massimo dei blandi socialdemocratici, solo con una massa di gente
un po’ meno sprovveduta alle spalle.
6. A quanto ammontano le royalties pagate dalle aziende che estraggono idrocarburi?
Tutti
i dati sono presenti sul sito del Ministero. Nel 2015 lo Stato ha
incassato 55 milioni di euro, una cifra irrisoria nel bilancio
nazionale. Le Regioni hanno incassato 163 milioni, di cui 143 alla sola
Basilicata (16 milioni al Comune di Viggiano, che conta 3200 abitanti).
L’Emilia Romagna – che ha 4,5 milioni di abitanti e un bilancio
regionale di 12 miliardi – ha incassato 7 milioni. 1,5 euro per
abitante: un’elemosina che non compensa neppure i danni ambientali di
questo tipo di attività, in primis la subsidenza.
7.
Nel caso di vittoria del “Sì”, che senso avrebbe lasciare nel
sottosuolo petrolio e gas, dato che le infrastrutture di estrazione sono
già in loco?
Ci sono almeno quattro buoni motivi per lasciarli dove sono:
•
Non è accettabile che alle compagnie petrolifere debba essere concessa
la disponibilità di una risorsa pubblica a tempo indeterminato. Nei
Paesi democratici è regola porre precise scadenze temporali alle
concessioni date a società private che sfruttano beni appartenenti allo
Stato, cioè a tutti. Le regole dello Stato liberale debbono valere
sempre e per tutti.
•
Come recita il movimento britannico “Keep it in the ground”, dobbiamo
essere consapevoli che il margine per ulteriori aggiunte di CO2 in
atmosfera è ormai minimo. Gli idrocarburi vanno lasciati il più
possibile dove sono perché la destabilizzazione del clima è una delle
più imponenti minacce che grava sul futuro della nostra civiltà.
Cominciamo da casa nostra.
•
Per disinnescare altri quesiti referendari, il Governo ha vietato per
legge nuove concessioni entro le 12 miglia marine, anche perché ritenute
potenzialmente dannose per un’attività ben più rilevante per l’economia
italiana: il turismo. È ragionevole liberare definitivamente le acque
territoriali italiane dai rischi connessi a queste attività.
•
Certificato che queste sono le ultime risorse di petrolio e di gas che
abbiamo in Italia, abbiamo il dovere morale di lasciare qualche risorsa
del sottosuolo anche alle generazioni future. Facciamo finta di rimanere
coinvolti in una guerra attiva…o magari che si impongano delle missioni
spaziali necessarie alla sopravvivenza della nostra specie che
potrebbero giovarsi dei combustibili fossili…Non sta scritto da nessuna
parte che dobbiamo consumare tutto noi.
8. Quali tipi di rischi ambientali esistono?
Gli impatti ambientali degli idrocarburi cambiano a seconda che si tratti di ricerca, estrazione o uso.
Nella
fase di ricerca dei giacimenti, può essere utilizzata la tecnica di
indagine geofisica nota come “Air-gun”, che potrebbe avere un impatto
negativo sulla fauna marina (il tema è controverso).
Per
quanto riguarda l’estrazione, uno degli impatti più seri – che colpisce
in particolare l’Adriatico settentrionale – è la subsidenza, un
fenomeno naturale esacerbato dalle attività di estrazione, che ha già
causato molti danni. È poi stato rilevato di recente che nei pressi
delle piattaforme in mare vi è un aumento della concentrazione di
diversi inquinanti. Inoltre, nonostante si tratti di un rischio a
bassissima probabilità, un ingente sversamento accidentale di petrolio
in mare avrebbe conseguenze ambientali ed economiche catastrofiche. In
particolare per l’Adriatico, che è un mare molto chiuso, caratterizzato
da una profondità media inferiore a 100 metri nella parte
centro-settentrionale.
Infine
abbiamo un problema di carattere più generale: la produzione di
idrocarburi ci fa rimanere legati a un sistema energetico che
contribuisce a causare milioni di morti ogni anno per inquinamento
atmosferico e accresce la temperatura del pianeta attraverso gli scarti
dei processi di combustione. Con l’Accordo di Parigi (quello stesso
contro cui era stato vietato dal Governo Holande di manifestare), il
nostro Governo ha dichiarato di voler fare la sua parte per la lotta ai
cambiamenti climatici. È ora che l’Italia adotti, nei fatti e non solo a
parole, una politica energetica coerente sino in fondo con gli accordi
che sottoscrive a livello internazionale.
9.
Qualcuno obietta che estrarre idrocarburi in Italia non aumenta il
rischio e il danno ambientale globale poiché, in alternativa, si
estrarrebbe in Paesi con minori controlli ambientali. Inoltre,
transiterebbero più petroliere nei nostri mari.
Rinunciare
a meno dell’1% di consumo nazionale di petrolio equivale al carico di
tre petroliere di medie dimensioni in un anno. Inoltre, l’ultimo grande
incidente petrolifero (Golfo del Messico, 2010) è avvenuto a una
piattaforma e non a una petroliera.
A
proposito di inquinamento, occorre poi sottolineare che le grandi
multinazionali europee, che vorrebbero trivellare i nostri fondali
marini vantando grandi performance ambientali, non brillano su questo
aspetto nelle aree produttive più povere del mondo, come per esempio il
Delta del Niger in Africa. Noi Italiani brava gente. Sapete quanti
profughi ci sono in conseguenza alle trivellazioni nel delta? Sapete che
i profughi che ne derivano non vengono neanche riconosciuti come
profughi? Le pratiche di sostenibilità ambientale non possono valere
solo laddove i controlli sono più stretti, ma debbono valere sempre.
10. Limitando l’industria estrattiva in Italia, ci saranno impatti negativi sull’occu-pazione?
La
maggior parte degli italiani addetti al settore estrattivo lavorano
all’estero. Considerando il quadro qui descritto, l’eventuale effetto
sull’occupazione in Italia sarebbe ridotto e diluito nel tempo. Occorre
poi sottolineare che il numero di posti di lavoro creati dalla filiera
rinnovabile, che è il futuro, è almeno quatto volte superiore a quello
dell’industria degli idrocarburi, che è il passato. Quest’ultima è per
sua natura a bassa intensità di lavoro.
In
questi ultimi 3-4 anni sono state perse decine di migliaia di posti di
lavoro, a causa delle politiche miopi e vessatorie che hanno tagliato le
gambe all’ascesa delle rinnovabili per favorire, ancora una volta, i
combustibili fossili. Si tratta per lo più di aziende piccole e
piccolissime che spesso non hanno voce, ma è stata una vera e propria
ecatombe.
Anche
in un Paese poco propenso a progettare il futuro come l’Italia
bisognerà farsene una ragione: tutte le transizioni epocali innescano
grandi ristrutturazioni industriali e occupazionali. La transizione
energetica non farà certo eccezione. Non significa perdere lavoro (che è
sempre una merda), ma di organizzarne di nuovo (e più umano), magari
all’infuori della logica di rapina.
Fra
di noi molti sono impegnati in sindacati, anche particolarmente
radicali. Ma, non prendendo mazzette per fare dichiarazioni a favore
delle trivellazioni, possiamo dirvi una cosa di cuore? BASTA allo
scambio lavoro-salute. L’ILVA non insegna proprio niente?! E poi nelle
piattaforme italiane lavorano operai con contratti determinati di pochi
mesi (proprio perché gli stessi beneficiari delle concessioni non sanno
realisticamente quanto possono fare calcoli su quei sitarelli): puntano a
massimizzare il profitto subito, anche a costo di massimizzare i danni
(le avete sentite le intercettazioni della renziana ex-ministro Guidi
no? Chissenefrega delle malattie professionali e del danno alle falde!
Lo dicono esplicitamente, ne ridono!) e ciao-ciao al lavoro, non
staranno certo a piangere quando in ogni modo non rinnoveranno i
contratti.
11. Il Governo ascolta la comunità scientifica?
Tutti
i Governi, di qualsiasi colore, hanno sinora sistematicamente ignorato
la voce della comunità scientifica sui temi dell’energia. Nell’ottobre
2014, alcuni docenti di Università e centri di ricerca di Bologna hanno
inviato una lettera al Governo, nella quale chiedevano di aprire un
confronto sulla Strategia Energetica Nazionale. Nessuno ha avuto il
garbo istituzionale di rivolgere loro un cenno. Nella maggior parte dei
Paesi avanzati esistono strumenti per far dialogare i diversi attori
sociali portatori di conoscenze e interessi diversi (politici,
scienziati, tecnici, cittadini). Da compagni, non ci facciamo certo
illusioni in merito a tali strumenti di dialogo, ma sappiate che in
Italia la lobby pro-Triv è al comando di partiti (PD in primis) che
della scienza e di chi studia per un mondo migliore non sembrano proprio
interessarsi.
12. Cosa perde e cosa guadagna l’Italia, limitando le estrazioni di idrocarburi?
Numeri
alla mano, l’Italia perde davvero poco. D’altro canto, privilegiando lo
sviluppo del settore delle energie rinnovabili – manifatturiero e
conoscenza – ne guadagnerebbe enormemente in termini di innovazione e
posti di lavoro, di qualità della vita delle persone, di rispetto degli
impegni internazionali. Penso poi che la promozione del turismo, del
cibo e dell’agricoltura di qualità siano valori inestimabili che non
dobbiamo mettere a rischio per nessuna ragione. Tanto meno per estrarre
quantità residuali di idrocarburi, sostanzialmente regalate ad alcune
grandi aziende energetiche. Tra i numerosi mendaci argomenti messi in
circolo dai pro-triv, vi è quello per cui l’Italia non sarebbe messa poi
così male dal punto di vista delle rinnovabili: 12esima in Europa. Come
sempre, le statistiche sono figlie del diavolo: questo dato non dice
che l’uso domestico di rinnovabili (sostanzialmente al solare mi
riferisco) in Italia è fermo al 4%, mentre paesi con molto meno sole di
noi (Germania, Svezia) oscillano fra il 56 e il 74%. Ci rendiamo conto?
13. È possibile far funzionare la civiltà moderna solo a energia rinnovabile?
Non
solo è possibile, ma è anche un’opzione senza alternative. I
combustibili fossili inquinano e compromettono il clima. L’unica
possibilità di sopravvivenza per la nostra civiltà è passare nel più
breve tempo possibile all’uso dell’unica fonte energetica illimitata di
cui disponiamo, il Sole. Senza però dimenticare che solo utilizzando in
modo oculato le (limitate) risorse naturali a nostra disposizione
(metalli, acqua dolce, biomasse, ecc.) saremo in grado di fabbricare i
convertitori e gli accumulatori di energia solare che ci servono.
Sarà una sfida molto complessa, ma non impossibile.
14. Veniamo all’ aspetto politico. Qual è la vera posta in palio con questo referendum?
Il
significato di questo referendum va al di là del suo quesito specifico,
che riguarda una questione quantitativamente minimale. Del resto è
sempre stato così, sin dal referendum sul nucleare del 1987, dove non fu
chiesto esplicitamente agli italiani se volessero o meno centrali in
Italia. La vittoria del “Sì”, però, bloccò lo sviluppo del nucleare per
30 anni. Il referendum del 2011, cancellò poi per sempre questa opzione.
Il
referendum del 17 aprile ha assunto un cruciale significato politico:
siamo chiamati a dire se vogliamo continuare una politica energetica
legata al passato o se vogliamo che l’Italia s’incammini senza
incertezze lungo la strada della transizione energetica alle fonti e
tecnologie rinnovabili. È una questione su cui si gioca il futuro
economico, ambientale e occupazionale dell’Italia, perché l’energia è il
motore di tutto.
15. Da tutto questo si dovrebbe desumere che serve andare a votare, e di corsa, per il “sì”…ma?
Ma
non posiamo liquidare con facilità questa questione. Certo, sbugiardare
le ragioni del “no” è doveroso, dato che appunto il referendum ha
assunto una rilevanza politica. Dobbiamo dire sicuramente di votare
“sì”.
Ma
fra compagni sappiamo bene, fin troppo bene, come il referendum e la
favoletta della “democrazia diretta” siano un’arma di svuotamento delle
lotte sociali ed eco-sociali. Il principio è semplice: “vai a votare,
avrai fatto il tuo dovere e dopo non dovrai più preoccuparti della
questione!”. Sappiamo bene che questo è il primo passo per permettere
che tutto prosegua come prima se non peggio senza nemmeno il rischio che
la gente scenda in piazza o ostacoli le trivellazioni. Ciò è
precisamente la cosa da evitare. Questo referendum non incrocia se non
in minima parte la lotta NoTriv. Tutti dovrebbero conoscere e seguire il
movimento NoTriv, partecipare alle sue scadenze, alle sue
manifestazioni, ai suoi -si spera- sabotaggi che inevitabilmente si
renderanno necessari. In Val Susa il Tav porta 25 anni di ritardo non
per qualche referendicchio in valle, ma per la tenace opposizione di una
dimensione popolare che legittima e riconosce le azioni di contrasto e
sabotaggio ai lavori (“si parte si torna insieme Chiomonte come Atene
siam tutti black bloc lo sbirro nel cantiere dovrà tremare se arrivano i
NoTav!” cantano gli anziani…).
In
Basilicata e in Irpinia, le zone che fino ad ora hanno subito di più le
politiche di sfruttamento dei giacimenti fossili in Italia, purtroppo
possiamo già toccare con mano i primi effetti negativi di un eccesso di
fiducia in uno strumento che in realtà può offrire poco.
Quell’attivazione e mobilitazione di massa, che fino ad uno o due anni
fa il movimento No Triv riusciva anche se solo in modo parziale ad
esprimere, si è arrestata; sopita in un’ingenua e fiduciosa attesa degli
esiti del referendum: non si lavora più per la costruzione di una
partecipazione di massa, ma per l’affluenza alle urne.
Il
rischio è che passato il 17 aprile la sbornia dell’ “effetto
referendum” si volatilizzi, lasciandoci in mano soltanto una vittoria di
“principio” senza nessuno in grado di far rispettare quella volontà.
Mettiamola
così: adoperiamoci per la vittoria del “sì”, ma a patto che il giorno
dopo le persone andate ai seggi diano retta a quelle che fanno lotta
politica quotidiana su quel tema. Fa sicuramente bollire il sangue nelle
vene vedere i faccioni dei politicanti sinistrati mettere il cappello e
incassare un po’ di ritorno da una vittoria, per poi magari sparire di
nuovo e anzi condannare quei “pochi violenti” che mettono in campo
pratiche di contrasto reale. Ma è un problema che riguarda gli attivisti
e che non inficia la possibilità di infierire un colpo alle lobby
pro-triv.
Nessun commento:
Posta un commento