luca cafagna dinamopress
In Ecuador il petrolio sta distruggendo un’intera comunità: fiumi
inquinati, pozze a cielo aperto, malattie. Migliaia i casi di cancro.
Mentre Italia si avvicina il referendum: “Fermate le multinazionali
finché siete in tempo!”
“La prima volta che ho camminato su una piscina di petrolio avevo
dieci anni. Una gallina era scappata e la stavo inseguendo nella selva.
La pozza era profonda almeno tre metri. Se vi fossi affondato ora non
sarei qui”.
Sono le parole di Donald Moncayo, classe ’73, una vita spesa
a lottare contro le compagnie petrolifere a Lago Agrio, nel profondo
dell’Amazzonia ecuadoriana.
Qui Texaco, la multinazionale statunitense, ha causato in poco più di
vent’anni il più grande disastro ambientale della storia. 356 pozzi
perforati e più di 880 piscine di petrolio. Utilizzate dalla compagnia
come discariche a cielo aperto per gli scarti di lavorazione e
successivamente interrate, almeno in parte. Perché alcune non sono state
neanche ricoperte, ma abbandonate così, nel mezzo della selva. “Il
petrolio scende verso il basso e contamina i fiumi, le falde acquifere,
uccide i pesci e avvelena gli animali. Qui dovresti bere solo acqua in
bottiglia, perché anche l’acquedotto è contaminato”. Le piscine sono
state costruite accanto ai fiumi. Da ognuna di esse fuoriesce un tubo, e
ogni volta che il petrolio raggiungeva il livello giusto, scaricava.
Le popolazioni indigene sono le più colpite, perché attingono l’acqua
per bere e cucinare direttamente dai fiumi. È il caso della
nazionalità Cofán, che viveva nell’area dove è stato trivellato il primo
giacimento perforato dalla Texaco, il 16 febbraio del 1967. Quando
l’industria del petrolio arrivò qui i Cofanes erano all’incirca 4800,
ora ne restano poco più di 1200. Hanno dovuto abbandonare la loro terra
cercando riparo nel profondo della selva, ma qui non c’è scampo
dall’inquinamento. L’intera regione è attraversata da oleodotti che
collegano tra loro i pozzi, i punti di stoccaggio e di trattamento.
È seguendo uno di questi tubi chilometrici che si raggiunge quello
che qui chiamano El Dragòn. Una torre di metallo sperduta nella selva,
alta più di venti metri, in cima alla quale si brucia il gas estratto
assieme al greggio. La sua base è ricoperta di insetti e uccelli morti
nel raggio di un centinaio di metri. Formano uno strato alto qualche
centimetro, che contribuisce a creare l’odore acre che aleggia
nell’aria.
Lo chiamano
gas flaring, una tecnica diffusa tra le
compagnie petrolifere. Questo gas potrebbe essere immagazzinato a scopi
commerciali, ma le infrastrutture per trattarlo costano troppo, mentre
bruciarlo è una soluzione rapida ed economica. Perlomeno nel breve
periodo, dato che si calcola che la quantità di gas bruciata ogni anno
in questo modo potrebbe soddisfare un quarto del bisogno degli Stati
Uniti.
Le torri sono comunque un miglioramento. Fino a qualche anno fa, in
Ecuador, il gas veniva bruciato a livello del terreno, i residui si
accumulavano nell’aria e rendevano queste aree particolarmente
pericolose. Non sono rari i racconti di persone che passavano vicino
alle zone di combustione nel momento sbagliato e si addormentavano, per
non svegliarsi più.
Il petrolio qui uccide in molti modi, anche prima della nascita. È la
storia che racconta Carmen quando ci accoglie nella sua casa
poverissima, nel mezzo della foresta, a lato di un impianto di
estrazione. Tiene in braccio due bambini, la femmina, più grande di un
paio d’anni, si prende cura del fratellino mentre lei ci dedica un po’
del suo tempo. “Da quando vivo qui ho avuto cinque aborti, i miei reni
non funzionano bene e mio marito si è ammalato”. Lui è nella stanza
accanto, sdraiato sul letto, non riesce ad alzarsi. “Ha mal di testa,
dolori alle ossa, una stanchezza perenne. I dottori non riescono a
capire di che si tratta.”
Nella casa di fronte vive Angel, con sua moglie Marta, lui sulla
sessantina, lei qualche anno in meno. Una vita passata a spezzarsi la
schiena nelle
fincas, coltivando cacao e caffè a lato dei
bloques
petroliferi. Racconta che la sera, quando il mechero di questa zona
bruciava gas, sulle piantagioni piovevano gocce di petrolio. Solleva il
piede e ci mostra una piaga nera, profonda, sotto l’alluce. “Vedete? Me
lo stavano per tagliare, ho speso seimila dollari per le cure, ma più di
così non guarisce. Tanto comunque non riesco a lavorare, mi fanno male i
reni.” Marta corre in casa, tira fuori una foto e ce la mostra. “Mio
figlio Mario. Un giorno ha cominciato ad avere mal di testa, poi il
dolore è passato alle ossa. È morto dopo sei mesi, aveva 17 anni”. Un
altro figlio è morto, investito da un camion. Ironia della sorte, il
camion trasportava petrolio. Angel e Marta sanno bene cosa gli ha
rovinato la vita: “Dopo tutto quello che abbiamo passato nessuno ci ha
dato niente in cambio. Ci stanno uccidendo, almeno potrebbero far
lavorare i nostri figli”. Perché qui non c’è alternativa: o ti ammali
per il petrolio, o ti ammali lavorando per le compagnie petrolifere.
Humberto Piaguaje, presidente de la UDAPT –
Union de Afectados por Petroleras Texaco
- non si stupisce. “Lago Agrio è stato costruito per estrarre
petrolio. Qui tutto dipende dal greggio. La nostra organizzazione conta
più di 30. 000 membri, alcuni di loro lavorano o hanno lavorato per le
multinazionali”. Humberto lotta da ventidue anni contro la distruzione
della sua terra. Ricorda le prime manifestazioni, gli scioperi, la
solidarietà internazionale quando sono riusciti a portare la Texaco in
tribunale, prima che si fondesse con Chevron.
Un processo che dura da due decenni, e che lui è sicuro, vinceranno.
“Le persone vittima dell’inquinamento nella nostra regione sono almeno
120. 000, abbiamo avuto quasi duemila casi cancro comprovati, senza
contare i morti nella selva che non sono mai stati visitati da un
dottore. Chevron deve pagare il danno della Texaco.” La multinazionale
californiana ha speso finora circa 40 milioni di dollari per le
riparazioni alle nazionalità indigene, mentre ne ha spesi circa 2200
milioni per la difesa legale processuale. “Hanno paura che diventi un
precedente, che altri seguano il nostro esempio.” Gli chiedo che pensa
del futuro della regione. “O smettiamo di essere dipendenti dal petrolio
oppure non abbiamo scampo. Possiamo investire nel turismo,
nell’agricoltura, la nostra terra è meravigliosa e dobbiamo
valorizzarla”. In Italia c’è un referendum sulle concessioni petrolifere
la prossima domenica. “Potete fermarli? Fatelo. Non aspettate di fare
la nostra fine.”
*foto di Corentin Valençot
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