1.
Ampiamente diffusa oggi è l’opinione che il marxismo sia morto perché il
sistema sovietico di pianificazione centralizzato è fallito. Ma è vera,
invece, l’opinione contraria.
di Bruno Jossa
«Sono lontani i tempi – scriveva Bensaïd nel 2009 –
in cui una stampa sensazionalistica annunciava trionfalmente al mondo
la morte di Marx. […] Oggi il suo temuto ritorno fa scalpore. L’edizione
tedesca del Capitale ha triplicato le vendite in un anno. In
Giappone la sua versione manga è diventata un bestseller. […] A Wall
Street ci sono state addirittura delle manifestazioni al grido di:
“aveva ragione Marx!” (cfr., per es., Kellner, 1995, Stone, 1998 e
soprattutto Cohen, 1978 e 2000). Quest’ultimo argomenta che «il
fallimento sovietico può essere considerato un trionfo per il marxismo».
Oggi,
infatti, conosciamo un modo per liberarci del capitalismo senza violenza
rivoluzionaria, in base a decisioni parlamentari, perché il lungo
dibattito sulla teoria economica delle cooperative di produzione che si è
avuto, a seguito di un celebre articolo di Ward del 1958, ha mostrato
chiaramente che è possibile creare un sistema d’imprese gestite dai
lavoratori, che è un nuovo modo di produzione nel senso di Marx e che,
pur non essendo il paradiso in terra, può funzionare assai bene.
Sartre
ha scritto che «il marxismo rimane insuperabile perché le circostanze
che l’hanno generato non sono state ancora superate» (1960).
E anche
a me sembra corretto dire che il marxismo è la teoria della rivoluzione
e che esso è ancora appieno attuale appunto perché le circostanze che
l’hanno generato non sono state ancora superate, nonostante che esista
una rivoluzione possibile e auspicabile.
2. Una
nota idea di Locke è che, per procurarsi un bene, o lo si acquista o lo
si produce, ovvero, in una diversa formulazione, l’idea è che il diritto
alla proprietà si acquista mediante il lavoro. E un gran numero di
altri studiosi, da Comte a Walrase a Ellerman hanno sostenuto che la
proprietà, per sua natura, appartiene ai lavoratori che producono la
merce.
L’idea che le imprese debbano essere gestite dai lavoratori è l’idea, espressa da Lassalle nel suoProgramma,
che «la causa del ceto operaio sia in verità la causa dell’intera
umanità, la sua libertà la libertà della stessa umanità, il suo dominio
il dominio di tutti» (cfr. Fraenkel, 1968, pp. 200-201).
La
novità e l’importanza di un sistema di cooperative di produzione
risultano chiare se si considera che vi sono passi di Marx ove egli
considera questo sistema come un possibile nuovo modo di produzione. In
uno scritto del 1864, per es., egli scrisse:
«Ma
l’economia politica della classe operaia stava per riportare una
vittoria ancora più grande sull’economia politica della proprietà.
Parliamo del movimento cooperativo, specialmente delle fabbriche
cooperative create dagli sforzi di pochi lavoratori intrepidi non
aiutati da nessuno. Il valore di questi grandi esperimenti sociali non
può mai essere apprezzato abbastanza. Coi fatti, invece che con
argomenti, queste cooperative hanno dimostrato che la produzione su
grande scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna è
possibile senza l’esistenza di una classe di padroni che impieghi una
classe di lavoratori; che i mezzi di lavoro non hanno bisogno, per dare i
loro frutti, di essere monopolizzati come uno strumento di asservimento
e di sfruttamento del lavoratore; e che il lavoro salariato, come il
lavoro dello schiavo, come il lavoro del servo della gleba, è solo una
forma transitoria e inferiore, destinata a sparire dinanzi al lavoro
associato, che impegna i suoi strumenti con mano volenterosamente alacre
e cuore lieto» (Marx, 1864, pp. 759-60).
Com’è
stato osservato, «il valore illustrativo delle osservazioni dedicate da
Marx alle cooperative è incontestabile», «anche se le opinioni di Marx
sulla cooperazione operaia restano generalmente ignorate» (Lowit, 1962,
p. 79; cfr. anche Jossa, 2005)1 .
Nell’Antidühring Engels
(1878) ha scritto che, con lo sviluppo della società per azioni e dei
trust, «la borghesia dimostra di essere una classe superflua». E
giustamente, pertanto, Leonida Bissolati ha osservato (1891) che le
cooperative di produzione sono «la confutazione viva e parlante del
pregiudizio che i lavoratori non possono lavorare di concerto se non
sotto l’occhio e il pungolo del padrone».
Ha
scritto Raniero Panzieri (1967): «lo sviluppo del capitale ha fatto sì
che il rapporto tra capitale e classe operaia si presenti come un
dilemma: o una classe operaia totalmente integrata nel capitale, o una
classe operaia che globalmente si oppone al capitale e tende a
rovesciare la condizione capitalistica» e altrove ha osservato (1958):
«non
possiamo separare l’operaio come cittadino che lotta nella politica
dall’operaio che è nella fabbrica; come possiamo pretendere che
quest’ultimo, svuotato, oppresso e schiacciato in ogni modo dal padrone
si trasformi una volta uscito dalla fabbrica? La battaglia politica del
movimento operaio non si riduce alla fabbrica, ma si combatte su tutti i
livelli su tutti i terreni della società. Ma il luogo principale è
quello del potere capitalistico, la fabbrica; e lì che l’operaio deve
contrapporre il suo potere».
Ancora
oggi, come ai tempi di Panzieri, dunque, a nostro avviso, «siamo in un
momento in cui il solo modo di contrapporsi è quello di far emergere
dalla realtà della lotta operaia strumenti nuovi di lotta che propongano
un’unità di potere economico e di potere politico» (Panzieri, 1961).
Come è
noto, nel capitalismo il rapporto tra i mezzi di lavoro e il lavoratore
si trova capovolto: al posto dell’adattamento necessario degli strumenti
all’organismo umano, è l’organismo che deve adattarsi allo strumento. È
facile, pertanto, argomentare che, con la gestione democratica delle
imprese, il mondo viene rimesso a testa in su. Si consideri, infatti,
un’impresa gestita dai lavoratori ove tutto il capitale sia preso a
prestito. Nell’autogestione, per opinione generale, a) tutte le
decisioni relative all’attività produttiva, quelle relative al come e
quanto produrre e le scelte d’investimento, sono prese dai lavoratori o
da loro rappresentanti, eletti o sorteggiati e b) i lavoratori
si appropriano di ciò che l’impresa ricava dopo aver pagato i costi di
produzione, di modo che il lavoro può essere considerato «l’input
imprenditoriale»; un’impresa gestita dai lavoratori ove tutto il
capitale è preso a prestito si può, perciò, configurare come un’impresa
ove i lavoratori “assumono” capitale, pagano a esso un compenso
prestabilito e si ripartiscono tra loro i guadagni, un’impresa, cioè,
che capovolge il rapporto esistente tra capitale e lavoro.
3. La
gestione democratica delle imprese ha un gran numero di pregi per la
collettività nel suo complesso, un elenco dei quali è il seguente: la
fine del potere dei capitalisti; il potenziamento della democrazia
politica; la maggior efficienza dell’impresa, dovuta alla partecipazione
agli utili dei lavoratori e al conseguente coinvolgimento di essi nel
processo produttivo; la fine della degradazione del lavoro e dello
sfruttamento e la riduzione dell’alienazione; il miglioramento del
carattere dei lavoratori e il rafforzamento dello spirito comunitario;
la riduzione della concorrenza e la riduzione dei rischi di fallimento;
la scomparsa della disoccupazione classica e di quella keynesiana e la
riduzione probabile della disoccupazione strutturale; la riduzione dei
pericoli d’inflazione, a causa della scomparsa del conflitto di classe e
di ogni possibile tipo di pressione salariale; un miglioramento nella
distribuzione del reddito; una forte riduzione della speculazione,
dovuta alla scomparsa delle azioni; la scomparsa della possibilità di
controllare un’impresa dall’esterno e la scomparsa, quindi, delle
multinazionali; la riduzione della tendenza verso i monopoli; la
riduzione dell’inquinamento e delle produzioni nocive; la riduzione del
rischio di abusi e di imbrogli; una riduzione dell’intervento dello
Stato e la conseguente riduzione delle clientele; la fine della
prevalenza del fattore economico nell’evoluzione della società2 .
Di
questi pregi ci soffermiamo in quel che segue a discutere solo il primo,
perché una discussione completa a riguardo richiederebbe molto spazio.
4. Dire
che il tasso di profitto – una semplice relazione tra aumento di
capitale e capitale totale investito – è il tasso che mostra realmente
l’“auto-espansione del valore” come capitale è hegelismo. Ma, hegeliana o
no che sia, l’idea che il profitto spetti sempre al capitale è un’idea
sbagliata. Il reddito del capitale è l’interesse. Il profitto, come gli
economisti ben sanno, spetta a chi prende le decisioni sull’attività
economica e se ne assume il rischio. E in un sistema d’imprese gestite
dal lavoro le decisioni sono prese dai lavoratori o da loro
rappresentanti ed è, pertanto, ai lavoratori, che sopportano il rischio,
che spetta il profitto.
Un
grande vantaggio delle imprese democratiche è che esse sostituiscono
nell’attività economica il principio «una testa, un voto» al principio
«un’azione, un voto». In una cooperativa il principio «una testa, un
voto» arreca vantaggi innanzitutto ai soci dell’impresa stessa, perché
l’esercizio del potere decisionale (cioè della sovranità) in un gruppo
produce soddisfazione, dato che chi esercita la sovranità si sente
libero, non soggetto alle decisioni altrui.. Ma l’attribuzione ai
lavoratori del potere decisionale nell’impresa arreca vantaggi anche
alla collettività nel suo complesso, come si è visto dall’elenco dei
pregi, soprattutto perché, togliendo ogni potere ai capitalisti in
quanto tali, fornisce un contributo formidabile alla democrazia
politica; e questo a noi sembra uno dei più grandi vantaggi, tra i
tanti, che un sistema d’imprese democratiche arreca.
Scrivono Marx ed Engels (1845-46):
«Le
idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè,
la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari
tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei
mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei
mezzi della produzione intellettuale, cosicché a essa in complesso sono
assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione
intellettuale».
Secondo
Marx, la democrazia politica borghese emancipa l’uomo soltanto nel
cielo dello Stato politico e non anche nella realtà terrena dei rapporti
materiali dell’esistenza ed emancipa l’uomo «guastato qual è da tutta
l’organizzazione della nostra società, perduto, fatto estraneo a se
stesso, posto sotto il dominio di rapporti ed elementi disumani» (Marx,
1844). Ciò significa che, per Marx, se si emancipa l’uomo anche nella
realtà terrena dei rapporti mercantili dell’esistenza, in modo che la
democrazia politica non sia più guastata dall’organizzazione autoritaria
dell’impresa, anche la democrazia politica diventa effettiva.
Quest’idea
è tanto più vera oggi, in epoca di globalizzazione, ove il mondo è
dominato dai grandi monopoli. Ciò perché la nostra coscienza riflessiva è
emersa, nel corso dell’evoluzione, assieme al linguaggio e alla realtà
sociale; il che significa che la coscienza umana non è soltanto un
fenomeno biologico, ma è anche un fenomeno sociale. E la società è
dominata dai grandi monopoli3 .
Bobbio
ha parlato degli «effetti perversi» della democrazia, delle promesse non
mantenute, della delusione per «il suffragio universale, che,
attraverso il sempre più forte condizionamento esercitato sulla volontà
degli elettori da parte delle comunicazioni di massa, non ottiene lo
scopo per cui è stato ovunque introdotto, il controllo dei detentori del
potere» (Bobbio, 1989). E ciò perché, di solito, la massa accetta
valori che sono stati inculcati, spesso casualmente e spesso
deliberatamente, da interessi costituiti.
Oggi
Noam Chomsky, un sostenitore della democrazia industriale, scrive
(2009): «di tutte le crisi che ci affliggono, il deficit democratico in
continuo aumento è forse la più grave». Fin quando l’economia non
passerà «da un ordine feudale a un ordine socialdemocratico» basato sul
controllo esercitato dai lavoratori «possono anche esistere forme di
democrazia, ma la loro sostanza sarà limitata» (cfr. anche Chomsky,
2013).
Per Finelli (2007) nel capitalismo il dominio del capitale nell’attività produttiva ha come conseguenza
«che per la prima volta nella storia delle società umane un fattore astratto costruisce la realtà e chel’astrazione lasci
l’ambito che fin’allora le era più propriamente appartenuto, quello
della logica e dei processi conoscitivi, per farsi costruttrice di un
intero mondo di relazioni economiche e pratiche, e più in generale
comportamentali, sociali e culturali».
Con
l’autogestione quest’astrazione, il capitale, perde questo suo terribile
ruolo. Per questo un pregio di grande importanza di un sistema
d’imprese gestite dal lavoro – bisogna dire – è quello di evitare che la
società sia dominata dalla volontà e dagli interessi del grande
capitale.
Sembra,
pertanto, corretto dire che la democrazia nell’impresa è il concetto a
partire dal quale è possibile un ripensamento e un arricchimento
dell’idea democratica tradizionale, ovvero della democrazia
parlamentare.
Bernstein
giustamente osservava che il socialismo è l’erede del liberalismo non
solo dal punto di vista cronologico ma anche da quello del contenuto
ideale. Rosselli analogamente considerava il socialismo l’erede del
liberalismo in quanto è l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e
di giustizia fra gli uomini e Gobetti considerava il socialismo come uno
dei più grandi fattori di liberazione e di liberalismo del mondo
moderno. Ma, se il socialismo deve essere visto come lo sviluppo e il
compimento del pensiero liberale, la rivoluzione oggi da fare è quella
di dare ai lavoratori (con tutte le libertà che la borghesia ha
conquistato colla rivoluzione francese) e togliere ai capitalisti la
gestione delle imprese.
5. Vi
sono, tuttavia, critiche contro chi sostiene che la gestione
democratica delle imprese realizzi il socialismo e occorre ora
considerarne almeno qualcuna. Come si è detto, nel capitalismo il
rapporto naturale tra i mezzi di lavoro e il lavoratore si trova
capovolto: al posto dell’adattamento necessario degli strumenti
all’organismo umano, è l’organismo che deve adattarsi allo strumento. Si
può, tuttavia, argomentare criticamente che, con la gestione
democratica delle imprese, se è vero che il mondo viene rimesso a testa
in su rispetto a ciò che avviene nel capitalismo, la società sembra
tornare indietro, perché torna a organizzarsi come avveniva in epoca
precapitalistica. Si può, inoltre, argomentare, di nuovo in modo
critico, che per Marx una “natura umana in generale” non esiste, perché
la natura umana varia con la storia; e ciò comporta che il
capovolgimento del rapporto capitale-lavoro che si ha con l’autogestione
non può scientificamente considerarsi un progresso. Scrive Fineschi:
«Se ci fosse, infatti, un’essenza dell’uomo e se fosse legittimo leggere
il processo lavorativo “naturale” in questo senso, il superamento
dell’estraneazione non potrebbe che consistere nel ristabilirlo nel suo
corretto ordine, ossia nel cancellare l’inversione di soggetto e oggetto
occorsa nella produzione in forma capitalistica e tornare in sostanza
al lavoro individuale “naturale”. Marx invece non dice questo»
(Fineschi, 2006).
Entrambe
le obiezioni, tuttavia, possono essere superate osservando, in
contrasto eventualmente col Marx maturo, che una natura umana esiste,
anche se si modifica nel corso delle epoche. Nel 1844 Marx riteneva che
una natura umana vi fosse perché scriveva: «l’industria è il rapporto
storico reale della natura e quindi della scienza naturale con l’uomo;
perciò, se essa viene intesa come la rivelazione essoterica delle forze
essenziali dell’uomo, viene pure compresa l’essenza umana della natura
o l’essenzanaturale dell’ uomo» (Marx, 1844; il corsivo è
nostro); e anche nel Marx più maturo, se non vi è più l’idea di una
natura umana, vi è pur sempre un residuo ineliminabile di naturalismo:
l’uomo non è la scimmia. Ma, qualunque sia l’opinione sul pensiero di
Marx a riguardo, un marxista può oggi certo affermare che la natura
umana, anche se varia al variare dei modi di produzione, esiste. Un uomo
oggi, ripetiamo, è un uomo, diverso dalla scimmia, anche se in passato
era una scimmia.
Inoltre,
anche chi crede che una natura umana non esista può ben credere che
l’estraneazione o alienazione che vi è nel capitalismo sarebbe almeno
ridotta con la gestione democratica delle imprese: e la riduzione
dell’alienazione consente all’uomo e alla donna di realizzarsi meglio.
Marx formulò la sua teoria dell’alienazione nei Manoscritti economico-filosofici del
1844 quando credeva che una natura umana vi fosse, ma in quell’opera
egli non sostenne che il superamento dell’estraneazione dovesse
consistere nel ristabilire nel suo corretto ordine il processo
lavorativo, eliminando il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro
che si è avuto col capitalismo. L’alienazione per Marx è dovuta al
mercato.
Tronti(1978)
definisce l’autogestione come l’ideologia socialista di sinistra,
vetero-comunista, e Fraenkel la liquida come «una forma fenomenica di
romanticismo reazionario» (1972): i marxisti hanno sempre mostrato
scarso interesse per un sistema d’imprese cooperative, tanto che, come
ha osservato Bettelheim, i passi di Marx ove egli assegna un grandissimo
posto alla cooperazione sono caduti nell’oblio e i consigli di fabbrica
sono considerati i figli tragicamente abbandonati della storia della
classe lavoratrice. Ma quali sono gli argomenti che hanno convinto i
marxisti che non si possa contare sulle cooperative per realizzare la
transizione al comunismo? È difficile trovare una risposta a riguardo.
__________________________________________________
Note
1 Prima
della Comune di Parigi Marx ed Engels erano convinti che il socialismo
si dovesse realizzare con una forte concentrazione del potere nelle mani
dello Stato. La Comune fece loro cambiare idea e propendere per un
socialismo con piena democratizzazione del processo produttivo. Ma, poi,
l’Inaugural Address del 1864 segna la fine della «infatuazione
con l’utopismo della Comune di Parigi» (Lichtheim, 1965, p. 228). Il
fatto, comunque, che Marx ed Engels nel Manifestosostenessero
che con la rivoluzione il proletariato si dovesse servire della sua
supremazia politica «per accentrare tutti gli strumenti della produzione
nelle mani dello Stato» (Marx ed Engels, 1848, p. 312) non è molto
significativo, se è vero che Marx solo dal 1857 inizia a elaborare il
suo sistema, sicché le opere precedenti vanno considerate solo come
passi verso la formulazione compiuta delle sue idee.
2 Una
descrizione di una dozzina di vantaggi delle cooperative di produzione
rispetto alle imprese capitalistiche si trova in Vanek, 1969 e Vanek,
1970. Horvat, 1975 (pp. 77-78), elenca e discute otto di questi
vantaggi.
3 L’idea
che noi sosteniamo è che in un sistema d’imprese gestite dal lavoro
solo le imprese di medie e grandi dimensioni, non anche le piccole,
debbano necessariamente essere gestite democraticamente. Ciò perché ci
sembra corretto ritenere pericolose solo le appropriazioni da parte del
capitale delle grandi imprese economiche, un’idea base del socialismo.
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