mercoledì 13 aprile 2016

Addio al padre del MoVimento 5 Stelle

 Giuliano Santoro dinamopress
Muore a 61 anni il «cofondatore», come amava definirsi, Gianroberto Casaleggio. La sua visione conquistò subito Grillo. Con un mix di esoterismo, millenarismo apocalittico e tecnoentusiasmo un po’ datato, la fece sotto il naso alle comunità di attivisti digitali del decennio precedente.
«Era un pazzo. Pazzo di una pazzia nuova, in cui ogni cosa cambia in meglio grazie alla rete». Così Beppe Grillo descriveva qualche tempo fa l’inizio del suo sodalizio con Gianroberto Casaleggio. Rievocava una sera di aprile del 2004, quando l’uomo d’azienda si presentò in un camerino del teatro Goldoni di Livorno per esporre all’uomo di spettacolo le sue idee sul futuro.
Casaleggio, quella sera, doveva aver pronunciato a bassa voce e con mestizia le parole che lo hanno reso protagonista della politica italiana recente: un mix di esoterismo, millenarismo apocalittico e tecnoentusiasmo un po’ datato. Il tutto condito con gli strumenti della motivazione d’azienda e con qualche nozione di filosofia della comunicazione.
Per capire la relazione di Casaleggio col Movimento 5 Stelle bisogna cogliere la sua attitudine a maneggiare gli opposti. L’uomo che è scomparso ieri a 61 anni sapeva destreggiarsi tra le contraddizioni, sapeva farle esplodere sul campo avverso invece che dentro casa propria. Spostava il piano dei conflitti e delle incongruenze al di fuori del recinto della propria organizzazione. Si sa, i comici giocano coi paradossi, costruiscono la risata mettendo in evidenza le antinomie. Su questo terreno si muove Grillo e in questo stesso campo, dalla sua prospettiva di dirigente d’azienda, si è sempre mosso Casaleggio. Prima di catechizzare il comico genovese, aveva lavorato in Olivetti ed era stato amministratore delegato di Webegg, joint-venture tra l’azienda di Ivrea e Telecom che si occupava di fornire consulenze alle aziende e alla pubblica amministrazione. Leggenda vuole che convocasse le riunioni attorno a una tavola rotonda nel castello di Belgioioso, in provincia di Pavia, con l’attenzione spasmodica per le cerimonie un po’ esoteriche tipica di chi ha compulsato i manuali di organizzazione del lavoro e le nozioni di scienza dello sfruttamento.
Eccola qui, la prima contraddizione disinnescata e messa a valore da Casaleggio: amava dosare le informazioni e predicare l’apertura massima, voleva essere al tempo stesso un inavvicinabile e «uno di noi». Allo stesso modo ha costruito il Movimento 5 Stelle, non-partito in cui lo streaming delle riunioni e la promessa di apertura permanente convive con l’opacità di certe accelerazioni e con gerarchie inesorabili quanto invisibili che ricordano le monarchie assolute tipiche del capitalismo digitale: campo libero al lavoro creativo ma parola a pochi sulle decisioni strategiche.
La visione di Casaleggio conquistò sin dall’inizio Grillo, la fece sotto il naso alle comunità di attivisti digitali del decennio precedente e raccolse proseliti presso la massa di utenti neofiti che all’inizio degli Anni Zero si approcciava al web. Il sito di Beppe Grillo debuttò nel 2005, l’anno che avrebbe cambiato Internet per sempre, col boom di Facebook e di YouTube, dei social network e dei video virali, della rete allo stesso tempo sempre più «partecipativa» e sempre più in mano ai monopoli. Ancora una volta, verticale e orizzontale. E allora: perché non usare il sito del personaggio famoso come una televisione on demand, nel quale reinvestire il capitale di notorietà acquisito da Beppe Grillo in anni di prime serate televisive, spot pubblicitari e spettacoli teatrali? Nel paese in cui il telegiornale più visto è un programma comico pure un po’ datato, non si aspettava altro: il sito dopo qualche mese di trasmissioni, raggiunse il decimo posto di una classifica planetaria dei blog. Dopo pochi anni era la spina dorsale di un partito che sfida ancora oggi le leggi della politologia e mette a dura prova ogni tentativo di analisi con lenti tradizionali.
La coppia che sapeva maneggiare le contraddizioni si è mossa con sapienza tra apocalissi annunciate e minimalismo ideologico, tra semplificazioni estreme e sparate scenografiche. Casaleggio produceva «Gaia», un video che prevedeva una guerra mondiale, alla quale sarebbe sopravvissuta una minoranza di eletti che avrebbero avuto il compito di edificare un governo mondiale grazie alla rete. Mentre i critici ridacchiavano, le mosse del testimonial Beppe si muovevano in tutt’altra direzione. Casaleggio sapeva che la rete serve a tastare il polso dell’opinione pubblica, a inseguirla più che a formarla. Unendo il fiuto per gli umori delle platee di Grillo e i sondaggi istantanei del web 2.0, sfondò le porte spalancate del malcostume dell’Italia berlusconiana, puntando il dito sugli abusi della classe politica. Sono gli anni della campagna sulla «Casta» lanciata da Rizzo&Stella dalle colonne del Corriere della Sera. Il grande conflitto era quello tra «politici» e «cittadini», tutte le altre contraddizioni – comprese le categorie di destra e sinistra – passavano in secondo piano, minavano l’unità del «popolo» (cioè di tutti gli italiani tranne «la Casta»), rischiavano di imballare il Movimento della Gente.
Che ne sarà adesso dell’infrastruttura messa in piedi da Casaleggio attorno a Grillo, dalla quale si consultano gli iscritti, si proclamano le espulsioni, si detta l’agenda tematica del M5S? Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto, pare destinato a raccogliere la macchina organizzativa dell’azienda di famiglia e quindi del Movimento 5 Stelle. Un paio d’anni fa, nel libro Tu sei rete, illustrava la possibilità di governare le aziende e i sistemi complessi «indicando semplici regole di comportamento». I guru dell’organizzazione del lavoro della new economy sintetizzano questa formula con l’espressione «prosperare nel caos». Nell’universo grillino ciò ha sempre significato: lasciare briglia sciolta ai territori purché questi non discutano le gerarchie nazionali.
Le prime espulsioni nel M5S risalgono al 2012, ai danni di attivisti emiliani (pare che Casaleggio li chiamasse con spregio «i comunisti») accusati di voler «costruire un partito» per il fatto di aver provato a convocare una assemblea nazionale. Dopo l’exploit delle elezioni politiche del 2013, decine di eletti affluirono a Roma. Casaleggio ha voluto in tutti i modi controllarli fin dal primo giorno che li incontrò, quando in un hotel romano sancì ad una platea un po’ impaurita la prima regola del club: «Nessuna alleanza di governo». Va detto che al di là delle rappresentazioni semplicistiche che lo descrivevano come un Grande Fratello un po’ inquietante, non ci è sempre riuscito. Ha dovuto misurarsi con la sacrosanta emersione del dissenso, con una spiazzante ingenuità politica e non di rado con l’emersione di ambizioni personali. Il «cofondatore» (come amava definirsi) ha dovuto prendere atto, non senza attriti, dei primi grumi di potere che dal Parlamento andavano formandosi.
C’è un termine che arriva dal gergo da ufficio di gestione delle risorse umane degli uffici milanesi della Casaleggio Associati e che è stato usato per descrivere le caratteristiche ideali dei candidati alle prossime elezioni comunali: i politici del M5S devono essere dotati di «soft skills». Cioè non di competenze precise, identità consolidate o contenuti forti ma di capacità di adattarsi all’imprevisto e di rapportarsi ad un’organizzazione liquida. Il Movimento 5 Stelle che sopravvive al suo ideatore è oggi attraversato da lotte intestine e veleni praticamente in ogni territorio. A questi dissidi hanno sempre fatto da contrappeso i due fondatori: la forza dell’attore testimonial (oggi in verità un po’ stufo) e la capacità organizzativa del manager, di cui da oggi si dovrà fare a meno. Si tratterà ancora una volta di trovare un audience disponibile a non vedere le contraddizioni in nome di una narrazione onnicomprensiva, quella narrazione che Di Maio e Di Battista (per citare i due più in vista) si esercitano a portare avanti. Solo in questo modo quello strano, imprevedibile animale fatto di ossimori e antinomie chiamato Movimento 5 Stelle troverà nuovi equilibri.

Tratto da Il Manifesto

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