contropiano
“Sì, è stata una sconfitta storica di un’ipotesi complessiva di rivoluzione”
Barbara
Balzerani, storica dirigente della colonna romana delle Brigate rosse, è
stata recentemente ad Euskal Herria invitata dall’editrice Txalaparta.
Ha presentato il suo libro “Compañera Luna”, testo di notevole
musicalità letteraria, non un’autobiografia, non un racconto della
storia della guerriglia comunista italiana, ma la narrazione di un
viaggio, vitale, personale, terribilmente onesto, attraverso i
cosiddetti anni di piombo. Per lei scrivere è “un dovere militante di
restituzione di una memoria partigiana che difendo con amore e cui sono
molto legata”
Barbara Balzerani ha partecipato ad alcune delle più spettacolari azioni
delle Brigate Rosse, come il sequestro del generale statunitense e
comandante della Nato per l’Europa meridionale, James Lee Dozier.
Durante il sequestro del presidente della Democrazia cristiana, Aldo
Moro, occupava insieme a Mario Moretti, la principale base operativa
romana delle Brigate rosse, in via Gradoli 96. Una base scoperta dalla
polizia a causa di una perdita d’acqua.
È
stata una delle ultime figure storiche delle Br ad essere arrestata.
Era il 1985, ed è ritornata in libertà nel 2011. La stampa ufficiale
l’ha definita “irriducibile” – categoria che rifiuta tout court –. Erano
chiamati così i militanti che rifiutavano i “benefici” concessi ai
delatori (i pentiti, coloro che in cambio di trenta monete – passaporto,
soldi e una nuova identità – sono diventati collaboratori) e più tardi
ai dissociati (coloro che hanno usufruito di una riduzione della pena
abiurando la loro identità passata ed arrivando a fare apologia di
Stato). Tuttavia, Barbara Balzerani riconosce con sincerità “quanto è
stato difficile trovare il punto di equilibrio tra il sottrarsi alla
logica di un insensato continuismo e non cedere sull’essenziale”
mantenendo una ferma “indisponibilità a fare mercato della sua identità,
della sua storia, dei suoi compagni”.
Insieme
ad altri due dirigenti storici delle Brigate rosse, Mario Moretti e
Renato Curcio, Barbara Balzerani partecipa, nel 1987, alla famosa
intervista per la Rai in cui si dichiarava conclusa la lotta armata
delle Brigate rosse, chiedendo la fine delle azioni e l’apertura di una
fase di riflessione sociale e politica sugli errori e sulle ragioni di
quell’esperienza.
“Il pidocchio sull’albero sano”
Alla
domanda su quanto abbiano pesato nel percorso delle Brigate rosse il
pentitismo e la dissociazione, Balzerani è franca nell’affermare che si è
trattato dell’“elemento più dirompente di una ben più pervasiva
campagna di dissuasione e di discredito. Quello che ha fatto terra
bruciata di ogni tradizione e memoria e, soprattutto, è stato l’ostacolo
più insidioso a che si potessero creare le condizioni per un gesto di
chiusura unilaterale dell’esperienza armata fuori dalla pregiudiziale
dissoluzione di ogni sua ragione”.
L’espressione
“il pidocchio sull’albero sano” si riferisce a Patrizio Peci, della
colonna torinese, che decide di collaborare con lo Stato permettendo ai
Carabinieri di fare irruzione nella base genovese e di crivellare di
colpi quattro brigatisti. E lo interpreta come “inequivocabile segnale
della profondità della nostra crisi politica. L’infamia dei traditori.
Fratelli di ieri che denunciano gli altri e di questi si fanno giudici e
cacciatori. Niente ha resistito al contraccolpo. Né l’allestimento
logistico, né i criteri di sicurezza, né la linea politica, né la
fiducia in noi stessi”
1982. L’anno della sconfitta
Per
Balzerani, il cumulo di errori e l’indebolimento politico delle Brigate
rosse arriva al punto di coagulo nel 1982. “Le divisioni interne, gli
arresti in massa, le battaglie perdute”. Ma si mostra rivoluzionaria
nella sua autocritica quando aggiunge che, anche prima, in diverse
occasioni, “l’ingrossarsi delle loro fila era avvenuto parallelamente
all’indebolirsi della loro proposta politica. Eravamo fuori gioco, non
riuscivamo a giustificare la presenza di una guerriglia che malcelava la
sua crisi di progetto dietro una capacità militare a tratti
spettacolare”. Che fare? Cos’altro tentare? Non incidevano nell’ambito
delle decisioni politiche generali e non riuscivano neanche a frenare la
deriva resistenziale delle lotte. “Hic rodhus : e sia per l’americano a
tre stelle!” .
In
quella situazione, “praticamente per strada e con la mano sul calcio
della pistola” le Brigate rosse iniziarono a discutere cosa dovesse
essere fatto, “Dovevamo ritirarci come avevano fatto i cinesi, ma come?
Dovevamo raccogliere le forze e resistere fino a capire se esisteva
ancora un nostro futuro politico. Era poi così semplice il bilancio di
un’esperienza armata che non aveva avuto modelli per nascere e non
poteva averne per morire?”
Rosa
Luxemburg aveva detto, dopo la sconfitta della settimana spartachista,
che “la rivoluzione è l’unica forma di guerra –anche questa è una sua
particolare legge di vita – in cui la vittoria finale può essere
preparata solo attraverso una serie di sconfitte!” Abbiamo riproposto
questa riflessione a Barbara Balzerani che annuisce chiedendosi “quante
sconfitte ancora per assicurarsi la vittoria? Come riconoscere quelle
necessarie da quelle irrimediabili? È la domanda più difficile, quando
tutto vacilla”. E aggiunge: “Intanto veniva allestito il mercato dei
vinti e dei vincitori. Ancora una volta la partita si chiudeva a somma
zero: si vinceva o si perdeva tutto. Si avevano tutte le ragioni o
nessuna. Insomma, senza via d’uscita”
“Guai ai vinti!”
Vae Victis!
E così sia, nella polvere e in catene. Balzerani riconosce che questo
scenario poteva starci nel conto. Ma non può starci “la sottrazione di
senso della storia, della ragione dei fatti”. Quando viene arrestata,
sul suo foglio di detenzione si legge un ineffabile “fine pena: mai”. E
chiede a se stessa: “Cos’altro altrimenti? Deve esserci nella mia vita
un segno fatale coniugato con i sempre, i mai, i tutto, i niente. Come
se, fuori dall’eccesso delle passioni assolute non riesca a trovare
motivi per muovermi”.
L’impegno
di Barbara Balzerani oggi è quello di parlare, ci mette la faccia,
racconta ciò che quella generazione di comunisti ha vissuto, e critica
aspramente il fatto che il fenomeno venga analizzato in termini di
psicanalisi criminale, inchieste complottiste, intimismo mediatico,
sempre scollegato dalle relazioni di causalità. Afferma la necessità
della “laicità di una riflessione critica senza pregiudizi” e rivendica
“la grandezza di una storia e dei suoi protagonisti, liberati da
un’iconografia santificante o demonizzante basata su pregiudizi, che li
restituisca all’intelligenza dei fatti”.
Ed
è sicura che “questo può aiutarci a capire i nessi e le discontinuità
delle diverse esperienze politiche che hanno segnato il secolo di
tentativi di assalto al cielo, prima che un dubbio giudizio coscienziale
tra bene e male impedisca l’esercizio della critica storica”.
La
Commissione parlamentare d’inchiesta che ha studiato gli anni di
piombo, ha definito quel fenomeno come guerra civile di bassa intensità.
Si trattò, di fatto, di un fenomeno di massa, con un vasto radicamento
sociale, con una guerriglia comunista che, nelle sue diverse
espressioni, poté contare su oltre duemila militanti all’inizio degli
anni 80, e che si ritrovò con 6500 prigionieri politici. In conflitti di
tale portata ci sono responsabilità collettive, che non possono essere
risolte mediante vendita di indulgenze, confessioni strappate sotto
tortura e senza riflettere sulle origini politiche.
Lo
Stato ha sconfitto militarmente il “terrorismo” ma è stato privo di
volontà e coraggio quando si è trattato di assumere le sue
responsabilità per superare questo fatto storico. L’unica soluzione è
stata la vendetta infinita. E, paradossi della vita, i vincitori della
“guerra di piombo” erano tutti corrotti. Giulio Andreotti, inossidabile
ex presidente del Consiglio aveva rapporti con Cosa nostra. Il Paese
controllato da organizzazioni come Gladio, struttura legata alla Nato in
Europa, e la P2, della quale facevano parte molti generali
dell’esercito e dei servizi segreti, ed anche il cavalier Berlusconi.
“Ripensandoci
adesso – dice Balzerani ricordando i convulsi anni 70 – non è facile
ricordare dove trovavamo tanta incosciente fermezza nel giocarci la
vita. Non eravamo che gruppetti di giovani compagni, insofferenti ai
tentennamenti di una sinistra extraparlamentare messa alle corde, con
niente altro che la determinazione a cercare nuove strade per continuare
quella rivoluzione che aveva consumato in fretta l’innocenza dei primi
entusiasmi di fronte al volto livido di un Potere assassino e stragista e
di una sinistra istituzionale che perfezionava la sua paranoide
sindrome rinunciataria da accerchiamento. Niente ci faceva intravedere
una strada che non fosse quella di uno scontro diretto, sanguinoso,
indifferente al sacrificio dei nostri giovani anni.”
Come
accaduto anche altrove, tra la progressiva radicalizzazione delle lotte
popolari e la lotta armata non ci fu un aumento progressivo e graduale,
come la febbre quando sale. “C’era un salto che modificava tutto, e non
veniva da sé, come un fattore genetico insito nella natura di una
generazione di violenti: Allende e i centomila nello stadio di Santiago
del Cile furono una tragedia che ci toccò tutti, una frustata, la scossa
decisiva al fragile quadro di posizioni. E ciascuno dovette decidere”.
Balzerani
è molto critica verso il Partito comunista italiano, il più forte
partito comunista d’Europa, e verso certi intellettuali “di sinistra”,
come Antonio Tabucchi: “Hanno chiuso qualsiasi possibilità di analizzare
criticamente la nostra esperienza. A loro sono seguiti venti anni di
berlusconismo”. La conseguenza, conclude con amarezza, è che “si nega
l’appartenenza dei militanti delle Brigate rosse alla politica, alle
file comuniste o al genere umano, secondo i casi. Una specie di
cortocircuito che impedisce ogni ragionamento”.
Traduzione della recensione di Mikhel Zubimendi/Donostia
Gara 31/3/2016
Nessun commento:
Posta un commento