sabato 2 aprile 2016

A proposito di “Compañera Luna”

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Sì, è stata una sconfitta storica di un’ipotesi complessiva di rivoluzione”
Barbara Balzerani, storica dirigente della colonna romana delle Brigate rosse, è stata recentemente ad Euskal Herria invitata dall’editrice Txalaparta. Ha presentato il suo libro “Compañera Luna”, testo di notevole musicalità letteraria, non un’autobiografia, non un racconto della storia della guerriglia comunista italiana, ma la narrazione di un viaggio, vitale, personale, terribilmente onesto, attraverso i cosiddetti anni di piombo. Per lei scrivere è “un dovere militante di restituzione di una memoria partigiana che difendo con amore e cui sono molto legata”

Barbara Balzerani ha partecipato ad alcune delle più spettacolari azioni delle Brigate Rosse, come il sequestro del generale statunitense e comandante della Nato per l’Europa meridionale, James Lee Dozier. Durante il sequestro del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, occupava insieme a Mario Moretti, la principale base operativa romana delle Brigate rosse, in via Gradoli 96. Una base scoperta dalla polizia a causa di una perdita d’acqua.

È stata una delle ultime figure storiche delle Br ad essere arrestata. Era il 1985, ed è ritornata in libertà nel 2011. La stampa ufficiale l’ha definita “irriducibile” – categoria che rifiuta tout court –. Erano chiamati così i militanti che rifiutavano i “benefici” concessi ai delatori (i pentiti, coloro che in cambio di trenta monete – passaporto, soldi e una nuova identità – sono diventati collaboratori) e più tardi ai dissociati (coloro che hanno usufruito di una riduzione della pena abiurando la loro identità passata ed arrivando a fare apologia di Stato). Tuttavia, Barbara Balzerani riconosce con sincerità “quanto è stato difficile trovare il punto di equilibrio tra il sottrarsi alla logica di un insensato continuismo e non cedere sull’essenziale” mantenendo una ferma “indisponibilità a fare mercato della sua identità, della sua storia, dei suoi compagni”.
Insieme ad altri due dirigenti storici delle Brigate rosse, Mario Moretti e Renato Curcio, Barbara Balzerani partecipa, nel 1987, alla famosa intervista per la Rai in cui si dichiarava conclusa la lotta armata delle Brigate rosse, chiedendo la fine delle azioni e l’apertura di una fase di riflessione sociale e politica sugli errori e sulle ragioni di quell’esperienza.

Il pidocchio sull’albero sano”
Alla domanda su quanto abbiano pesato nel percorso delle Brigate rosse il pentitismo e la dissociazione, Balzerani è franca nell’affermare che si è trattato dell’“elemento più dirompente di una ben più pervasiva campagna di dissuasione e di discredito. Quello che ha fatto terra bruciata di ogni tradizione e memoria e, soprattutto, è stato l’ostacolo più insidioso a che si potessero creare le condizioni per un gesto di chiusura unilaterale dell’esperienza armata fuori dalla pregiudiziale dissoluzione di ogni sua ragione”.
L’espressione “il pidocchio sull’albero sano” si riferisce a Patrizio Peci, della colonna torinese, che decide di collaborare con lo Stato permettendo ai Carabinieri di fare irruzione nella base genovese e di crivellare di colpi quattro brigatisti. E lo interpreta come “inequivocabile segnale della profondità della nostra crisi politica. L’infamia dei traditori. Fratelli di ieri che denunciano gli altri e di questi si fanno giudici e cacciatori. Niente ha resistito al contraccolpo. Né l’allestimento logistico, né i criteri di sicurezza, né la linea politica, né la fiducia in noi stessi”

1982. L’anno della sconfitta
Per Balzerani, il cumulo di errori e l’indebolimento politico delle Brigate rosse arriva al punto di coagulo nel 1982. “Le divisioni interne, gli arresti in massa, le battaglie perdute”. Ma si mostra rivoluzionaria nella sua autocritica quando aggiunge che, anche prima, in diverse occasioni, “l’ingrossarsi delle loro fila era avvenuto parallelamente all’indebolirsi della loro proposta politica. Eravamo fuori gioco, non riuscivamo a giustificare la presenza di una guerriglia che malcelava la sua crisi di progetto dietro una capacità militare a tratti spettacolare”. Che fare? Cos’altro tentare? Non incidevano nell’ambito delle decisioni politiche generali e non riuscivano neanche a frenare la deriva resistenziale delle lotte. “Hic rodhus : e sia per l’americano a tre stelle!” .
In quella situazione, “praticamente per strada e con la mano sul calcio della pistola” le Brigate rosse iniziarono a discutere cosa dovesse essere fatto, “Dovevamo ritirarci come avevano fatto i cinesi, ma come? Dovevamo raccogliere le forze e resistere fino a capire se esisteva ancora un nostro futuro politico. Era poi così semplice il bilancio di un’esperienza armata che non aveva avuto modelli per nascere e non poteva averne per morire?”
Rosa Luxemburg aveva detto, dopo la sconfitta della settimana spartachista, che “la rivoluzione è l’unica forma di guerra –anche questa è una sua particolare legge di vita – in cui la vittoria finale può essere preparata solo attraverso una serie di sconfitte!” Abbiamo riproposto questa riflessione a Barbara Balzerani che annuisce chiedendosi “quante sconfitte ancora per assicurarsi la vittoria? Come riconoscere quelle necessarie da quelle irrimediabili? È la domanda più difficile, quando tutto vacilla”. E aggiunge: “Intanto veniva allestito il mercato dei vinti e dei vincitori. Ancora una volta la partita si chiudeva a somma zero: si vinceva o si perdeva tutto. Si avevano tutte le ragioni o nessuna. Insomma, senza via d’uscita”

Guai ai vinti!”
Vae Victis! E così sia, nella polvere e in catene. Balzerani riconosce che questo scenario poteva starci nel conto. Ma non può starci “la sottrazione di senso della storia, della ragione dei fatti”. Quando viene arrestata, sul suo foglio di detenzione si legge un ineffabile “fine pena: mai”. E chiede a se stessa: “Cos’altro altrimenti? Deve esserci nella mia vita un segno fatale coniugato con i sempre, i mai, i tutto, i niente. Come se, fuori dall’eccesso delle passioni assolute non riesca a trovare motivi per muovermi”.
L’impegno di Barbara Balzerani oggi è quello di parlare, ci mette la faccia, racconta ciò che quella generazione di comunisti ha vissuto, e critica aspramente il fatto che il fenomeno venga analizzato in termini di psicanalisi criminale, inchieste complottiste, intimismo mediatico, sempre scollegato dalle relazioni di causalità. Afferma la necessità della “laicità di una riflessione critica senza pregiudizi” e rivendica “la grandezza di una storia e dei suoi protagonisti, liberati da un’iconografia santificante o demonizzante basata su pregiudizi, che li restituisca all’intelligenza dei fatti”.
Ed è sicura che “questo può aiutarci a capire i nessi e le discontinuità delle diverse esperienze politiche che hanno segnato il secolo di tentativi di assalto al cielo, prima che un dubbio giudizio coscienziale tra bene e male impedisca l’esercizio della critica storica”.
La Commissione parlamentare d’inchiesta che ha studiato gli anni di piombo, ha definito quel fenomeno come guerra civile di bassa intensità. Si trattò, di fatto, di un fenomeno di massa, con un vasto radicamento sociale, con una guerriglia comunista che, nelle sue diverse espressioni, poté contare su oltre duemila militanti all’inizio degli anni 80, e che si ritrovò con 6500 prigionieri politici. In conflitti di tale portata ci sono responsabilità collettive, che non possono essere risolte mediante vendita di indulgenze, confessioni strappate sotto tortura e senza riflettere sulle origini politiche.
Lo Stato ha sconfitto militarmente il “terrorismo” ma è stato privo di volontà e coraggio quando si è trattato di assumere le sue responsabilità per superare questo fatto storico. L’unica soluzione è stata la vendetta infinita. E, paradossi della vita, i vincitori della “guerra di piombo” erano tutti corrotti. Giulio Andreotti, inossidabile ex presidente del Consiglio aveva rapporti con Cosa nostra. Il Paese controllato da organizzazioni come Gladio, struttura legata alla Nato in Europa, e la P2, della quale facevano parte molti generali dell’esercito e dei servizi segreti, ed anche il cavalier Berlusconi.
“Ripensandoci adesso – dice Balzerani ricordando i convulsi anni 70 – non è facile ricordare dove trovavamo tanta incosciente fermezza nel giocarci la vita. Non eravamo che gruppetti di giovani compagni, insofferenti ai tentennamenti di una sinistra extraparlamentare messa alle corde, con niente altro che la determinazione a cercare nuove strade per continuare quella rivoluzione che aveva consumato in fretta l’innocenza dei primi entusiasmi di fronte al volto livido di un Potere assassino e stragista e di una sinistra istituzionale che perfezionava la sua paranoide sindrome rinunciataria da accerchiamento. Niente ci faceva intravedere una strada che non fosse quella di uno scontro diretto, sanguinoso, indifferente al sacrificio dei nostri giovani anni.”
Come accaduto anche altrove, tra la progressiva radicalizzazione delle lotte popolari e la lotta armata non ci fu un aumento progressivo e graduale, come la febbre quando sale. “C’era un salto che modificava tutto, e non veniva da sé, come un fattore genetico insito nella natura di una generazione di violenti: Allende e i centomila nello stadio di Santiago del Cile furono una tragedia che ci toccò tutti, una frustata, la scossa decisiva al fragile quadro di posizioni. E ciascuno dovette decidere”.
Balzerani è molto critica verso il Partito comunista italiano, il più forte partito comunista d’Europa, e verso certi intellettuali “di sinistra”, come Antonio Tabucchi: “Hanno chiuso qualsiasi possibilità di analizzare criticamente la nostra esperienza. A loro sono seguiti venti anni di berlusconismo”. La conseguenza, conclude con amarezza, è che “si nega l’appartenenza dei militanti delle Brigate rosse alla politica, alle file comuniste o al genere umano, secondo i casi. Una specie di cortocircuito che impedisce ogni ragionamento”.

Traduzione della recensione di Mikhel Zubimendi/Donostia
Gara 31/3/2016

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