Il 2015 ci ha consegnato alla paura. Ci ha consegnato a un nuovo mondo - che toglie il sonno, aumenta l'insicurezza, cambia le carte alla ripresa economica, impatta sul nostro portafoglio, e sul futuro dei nostri figli. Cosa ci dobbiamo aspettare? Come dovremmo reagire, regolarci? Ci aspettano sacrifici, aggiustamenti - ci viene detto - ma quali? Ai nostri governanti forse non possiamo chiedere soluzioni a problemi così grandi, ma hanno almeno una strategia per navigare in queste nuove acque? Se per dibattito pubblico si intende qualcosa di più del fiume di parole, e delle generiche affermazioni ottimistiche, mirate ad avere un effetto lifting sugli umori della nazione, a tutte queste domande abbiamo oggi, al varco del 2016, zero risposte. Per essere più precisi, vorrei fare alcuni esempi delle cose che forse i nostri governanti potrebbero chiarire.
Proprio in questo scorcio di fine anno, si è tenuto il Consiglio d'Europa. Un incontro diventato rappresentazione del pericoloso punto di disfacimento su cui si muove la nostra più importante istituzione.
I socialisti si sono riuniti, come spesso fanno, in un prevertice, che questa volta ha mostrato tutta la debolezza del campo socialista europeo: assente Sigmar Gabriel, per scelta sempre più tedesco che socialista; sostanzialmente assenti anche i francesi, avvitati nella loro tragica vicenda nazionale e risentiti per lo scarso appoggio socialista alle loro decisioni sulla guerra contro l'Isis; presente per prima volta l'inglese Jeremy Corbyn, ma assente una buona parte del suo Labour che sulla guerra ha preferito stare con il premier conservatore David Cameron; gli spagnoli erano alle prese con elezioni che li hanno ridimensionati; i greci, invece, ancora muti dopo le batoste dell'anno.
Sul fronte conservatore, Cameron, anche lui pressato dalle scelte sulla Brexit, si è trovato stretto tra umori popolari (a favore) e umori della City (contrari): per minimizzare, evidentemente, ha parlato all'Europa delle condizioni della Brexit nel corso della cena. Nel frattempo, Angela Merkel, a sua volta tormentata dalla possibilità concretissima di perdere la sua base elettorale a casa e in Europa, ha tenuta la più importante riunione, quella sui profughi, convocando solo i paesi europei del proprio blocco di influenza o di interesse.
Come si vede, questa è la rappresentazione di una separazione di fatto di un percorso comune. Del resto, il riemergere di scopi nazionali ha già indebolito, o svuotato, quelli che finora erano considerati come I pilastri stessi dell'Europa: Schengen è diventato un meccanismo a tempo alternato, e la inflessibilità della austerity si è ammorbidita subito di fronte alle emergenze - per i profughi o per la polizia di frontiera, per pagare la Turchia, o per chiudere un occhio su qualche crisi con rischio default di qualche paese "amico" (cioè spesso del nord Europa).
Nel 2015 è riemerso così il vecchio autoritarismo europeo, la divisione fra chi conta e chi meno, procedendo secondo la legge del più forte. Un opportunismo tattico che sul viale del tramonto pratica proprio quella Merkel che della inflessibilità delle regole è stata la vestale: l'accordo con i russi sul gasdotto North Stream è la soluzione a schiaffi in faccia (al resto dell'Europa) di una questione su cui si sono spesi anni di riunioni, decise molte carriere e i destini di molti paesi, incluso quello dell'Ucraina.
Non è forse un default, ma nel 2015, l'Europa si è già riprogrammata in difesa, riorganizzata intorno a sottogruppi di interessi, una serie di scatole cinesi di scopi nazionali. Non intende e non può più fare politiche di lungo tempo. Per questo è diventata più occhiuta, più cattiva, più determinata. Nel momento più alto della crisi l'Europa sta andando insomma in ordine sparso: che conclusioni dobbiamo trarne, per noi?
Così come in ordine sparso stiamo andando a una delle decisioni più complicate in corso: intervenire in Siria, di nuovo in Iraq, e in Libia. Oggi l'Occidente è in una coalizione a geometrie variabili, marcia unito con Sunniti e Sciiti (i due arcinemici di questo conflitto) a seconda delle occasioni, e a volte persino di singoli pezzi di territorio dentro le varie nazioni. Non ci vuole un grande generale (ma anche chi lo è oggi esprime spesso i suoi dubbi) per capire che se la guerra è un piano, qui non ce ne è uno riconoscibile nè militare e ancor meno politico.
Di questi cambiamenti l'Italia ha preso per ora la parte peggiore. Il governo Europeo ha messo sotto scrutinio la nostra accoglienza, la manovra economica, la mancata spending review.
Renzi ha alla fine alzato i toni, ha attaccato la miopia del modello, la doppiezza delle scelte, senza peli sulla lingua con la stessa Merkel "doppiogiochista". Capiamo la rabbia del premier, e non vogliamo certo dire che sia tardiva (anche se lo è). Ma dove vuole portarci Matteo Renzi con queste polemiche? Certo non vuole la rottura. Dice anzi di voler "migliorare" con queste critiche l'Europa. Ma in quali sedi istituzionali, con quali riforme, e con quali alleati? Vogliamo qui ricordare che l'applicazione delle nuove norme bancarie decise in maniera comune in Europa sono quelle che stanno ora scuotendo il sistema bancario italiano, a partire dalle famose 4 banche: perché il governo italiano non ha almeno spiegato in una campagna nazionale quelle norme a tutti i cittadini prima che si traducessero in un frettoloso decreto nazionale?
Sull'intervento in guerra siamo alla stessa indeterminatezza. In questi ultimi mesi l'Italia ha stretto moltissimo i rapporti con gli Usa, in parte anche per compensare il rifiuto di intervenire in Siria, non apprezzato nelle capitali europee. Ma per stringere questi rapporti siamo finiti in qualche modo - o almeno al momento questa è la mia impressione - dalla padella di un intervento in Siria alla brace di impegni militari in zone ed aree molto più complicate: in Libia, e a Mosul in Iraq. Perchè stiamo "pedalando" l'idea, del tutto irrealistica, che in Libia esista davvero una soluzione diplomatica? Chi sono i nostri alleati veri in quelle terre e per quali interessi ci prepariamo a intervenire? Perchè di intervento si parla - e in certe forme è già in corso. Per quali ragioni abbiamo preso la difesa pericolosissima della diga di Mosul? A quali alleanze o rotture questo ci porta? Quali interessi privati si avvantaggiano di queste mosse? Per una analisi in dettaglio della frettolosita' del nostro intervento in Iraq rimando al nostro blogger Francesco Martone dell'organizzazione "Un ponte per..." che da anni opera in quelle terre. Infine, e soprattutto, perchè tutte queste decisioni non vengono formulate e spiegate pubblicamente? Ci risiamo.
Ecco, se oggi dovessimo individuare il punto esposto della nave italiana lo indicherei in questo muoversi nelle nuove condizioni, scivolandovi dentro, più che affrontandole. Chiaro segno del fatto che nessuno ha una chiara idea di cosa fare. E non parlo qui solo del capo del Governo Renzi, ma di una intera classe dirigente - Ministri, Presidenti di Commissione preposti, Parlamentari, autorità istituzionali dal Quirinale in giù e infine, ma non ultimi, vertici di tutte le forze armate dello Stato. Non ricordo a mia memoria (ed è lunga) una fase così difficile trattata con uguale sciatteria. Lo capiamo. È difficile avere grandi progetti. Ma per governare, in tempi come questi, i progetti sono necessari. E il paese non è stupido: l'incertezza si avverte.
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