dinamopress Antonio Sanguinetti
La crisi di Shengen inizia ben prima dell'arrivo dei rifugiati. E in assenza di un welfare comunitario, è l'unica possibilità dei poveri di cercare migliori condizioni di vita.
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Per tanti anni la libera circolazione delle persone è stato solo un principio sancito dai trattati, pochi erano gli europei che si trasferivano da una parte all'altra del continente usufruendo dell'assenza totale di controlli doganali. Un diritto sfruttato appieno solo quando era tempo di vacanze e si comprava il volo Ryanair più economico. Il numero di migranti interni è sempre stato basso, tanto che la commissione Europea in molti documenti di indirizzo si sforzava di ideare programmi per agevolare i trasferimenti, come direbbero loro "al fine di ottimizzare l'allocazione di capitale umano". In altre parole fare in modo che i laureati e i disoccupati non marcissero negli stati poveri ma potessero colmare le scarsità di manodopera qualificata o meno nelle regioni più ricche.Per tanti anni questi messaggi sono stati lanciati nel vuoto, in pochi facevano le valigie per trasferirsi all'estero. I primi sono stati i ragazzi della cosiddetta "generazione Erasmus", pgli studenti universitari che per un periodo compreso tra sei mesi ed un anno si iscrivevano in un'altra Università Europea. Il programma ha avuto un successo strepitoso, tanto che lo stesso Renzi si è più volte vantato di far parte di questa schiera di pionieri (anche questo purtroppo non è vero, all'età in cui solitamente si compila l'application form lui era già presidente provinciale della Margherita di Firenze).
Tre eventi hanno cambiato il corso della storia. I primi due sono avvenuti nell'arco di pochi anni: l'allargamento ad est e la crisi del debito pubblico dei PIGS. Dal 2008 Schengen non è più la formale declamazione di un trattato qualsiasi, ma è diventato un diritto materiale goduto da milioni di persone. Ragazzi/e, studenti/esse lavoratori/trici, uomini e donne si sono trasferiti a Berlino, Londra e Bruxelles.
Solo la parità di trattamento garantita da alcuni trattati e dalle sentenze della Corte di Giustizia ha permesso a milioni di migranti interni di accedere al welfare e alle differenti prestazioni sociali nei paesi di arrivo. Per la destra e i giornali conservatori l'emigrazione era necessaria ma solo se ben selezionata: solo chi può accrescere il Pil è benvenuto, gli altri tutti poveri scansafatiche da respingere. La retorica del "welfare tourism" si è diffusa ovunque, l'intenzione era duplice, da una parte rigettare gli indesiderati e dall'altra assottigliare i diritti. Tutti gli stati sono corsi ai ripari, chi ha irrigidito i requisiti per accedere ai sussidi (Germania), chi ha letteralmente rimpatriato i cittadini europei (Belgio), chi minaccia costantemente di uscire dall'Ue se non si pongono limiti alla libera circolazione (Gran Bretagna).
E arriviamo al terzo evento. Schengen già scricchiolava quando i rifugiati in fuga dalla guerra si sono riversati in Europa. A quel punto è diventato lampante che il trattato non era solo un lascia passare per la manodopera da impiegare nelle aziende, ma anche solidarietà e libertà personale. Di certo l'invasione non c'è stata, i numeri parlano di solo un milione di rifugiati, spiccioli rispetto a quanti ne ospitano sul proprio territorio i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa.
Ma di sicuro si è prodotta un'eccedenza, un movimento che ha fatto carta straccia di tutti gli accordi precedenti sull'immigrazione (il noto Dublino), ed ha suscitato in gran parte della società civile Europa una solidarietà dal basso a dir poco inaspettata. Anche nel caso dei rifugiati come in quello dei migranti intra-europei il principale indiziato da riformare non viene mai nominato: il welfare state. Gli stati ricchi e più generosi con i rifugiati si rifiutano di impegnare un monte tanto ampio di risorse per il diritto all'accoglienza, così prima sono stati ridotti i servizi erogati e successivamente è stato posto un tetto al numero di aventi diritto.
In questi giorni, tutti gli opinionisti si pongono la stessa domanda: può esistere l'Europa senza Schengen? La risposta è semplice: si! Sarà un'Europa dove i rifugiati vivranno vite poco dignitose, probabilmente bloccati in qualche isola del mar Egeo o nella Turchia del dittatore Erdogan.
All'opinione pubblica verrà data in pasto la storiella dei finti rifugiati, così da giustificare il rafforzamento dell'accordo con il sultano di Istanbul e programmare una parvenza di rimpatrio, davvero la Svezia pensa di rimpatriare 80 mila persone in 10 anni, o sono annunci pubblicitari? Verso dove pensa di organizzare questi charter? Verso la Turchia o verso la Siria, l'Iraq, l'Eritrea, l'Afganistan, la Somalia, la Libia, il Gambia, il Mali?
Ma chi pensa che l'abolizione di Schengen riguarda solo i rifugiati si sbaglia di grosso. Le statistiche mostrano come il numero di persone che attraversa con più frequenza le frontiere interne sono i cittadini dei Paesi Pigs e dell'Est europa. Se passa il principio del ripiegamento nazionalista non solo saranno loro a subire più controlli (magari con il rigetto dei poveri, dei militanti politici, dei non qualificati), ma allo stesso tempo vedranno assottigliarsi i diritti di cui godono.
Schengen è l'unico diritto dei poveri in Europa. In assenza di un modello di welfare comunitario, di una politica di accoglienza standard per tutti i paesi: l'unica possibilità in mano ai poveri negli anni della crisi è stata fuggire. I disoccupati dell'Europa meridionale sono migrati verso zone dove la loro condizione è più sostenibile e i rifugiati si sono mossi anche a piedi pur di sfuggire ai degradanti centri di Buzzi.
Schengen è un nostro diritto e come tale i movimenti europei dovrebbero difenderlo.
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