Nel 2009, il Ministro Tremonti aveva cominciato a raccontarci che l’Università italiana era popolata da professori baroni, nullafacenti e nepotisti e che “con la cultura non si mangia”.
In nome dell’ obiettivo di tenere i conti pubblici in ordine, procedette coerentemente a un taglio del fondo di finanziamento ordinario alle Università statali che dai 702 milioni di euro nel 2010 raggiunse nel 2011 gli 835 milioni, in netta controtendenza con quanto si faceva in altri Paesi europei (Germania, in primo luogo). In fondo, si disse, più o meno esplicitamente, i trasferimenti di risorse pubbliche agli Atenei sono uno spreco. Con i loro più o meno puntuali resoconti sui concorsi truccati, giornalisti ed economisti di area “riformista” avevano fornito le “basi teoriche” della “riforma”, che verrà poi ricordata con il nome di Maria Stella Gelmini. Se anche l’obiettivo da perseguire era quello, non era chiaro perché il settore maggiormente colpito dai tagli dovesse essere quello della formazione: in fondo, si è sempre ritenuto (e si ritiene in altri Paesi) che il sottofinanziamento della ricerca è la strada più efficace per prolungare e intensificare la recessione. E’ difficile negare, infatti, che il finanziamento pubblico della ricerca scientifica sia strategico per l’attuazione di flussi di innovazioni nel settore privato e dunque per generare crescita economica[1].
Come è noto, negli anni successivi non vi è stata alcuna inversione di tendenza. Tutt’altro: il sottofinanziamento delle Università ha raggiunto livelli tali da far prefigurare a SVIMEZ la chiusura totale delle sedi meridionali (non di singoli corsi di studio) nei prossimi venti anni e un drastico ridimensionamento dell’intero sistema universitario pubblico nazionale[2]. Uno scenario simile è contemplato nel rapporto della Fondazione RES 2015[3]. L’imposizione di limiti alle assunzioni, combinato con l’abolizione del ruolo del ricercatore a tempo indeterminato e la sua sostituzione con il ruolo di ricercatore a tempo determinato, comporta un consistente aumento dell’età media del corpo docente e picchi di pensionamento.
Le proteste di quegli anni, lette a posteriori, non colsero la reale motivazione di queste scelte. Si disse che la controriforma dell’Università era voluta per dar spazio al privato; cosa solo parzialmente verificatasi. La motivazione era da ricercarsi altrove. Partendo dal dato per il quale le politiche formative in Italia sono da anni nelle mani di Confindustria. E le nostre imprese non hanno bisogno, salvo le dovute eccezioni, di lavoro altamente qualificato. Avevamo effettivamente troppi laureati, non già nel confronto internazionale (ne avevamo e ne abbiamo notevolmente meno), ma troppi rispetto alle esigenze di un tessuto produttivo che, anche per la caduta della domanda interna conseguente allo scoppio della crisi e dell’avvio delle politiche di austerità, accentuava le sue criticità: piccole dimensioni aziendali e scarsa propensione all’innovazione.
Lo stato di crisi estrema dell’Università italiana di inizi 2016 probabilmente dipende dall’estrema difficoltà tecnica e politica di realizzare un disegno ancora occulto nel 2009, del tutto palese oggi: differenziare le sedi in research e teaching. Nelle prime si fa ricerca, nelle seconde solo didattica, un po’ più dei Licei.
Le difficoltà tecniche riguardano essenzialmente il fatto che questo modello può realizzarsi solo facendo uscire l’Università dal “dal perimetro della pubblica amministrazione”, per usare un’efficace espressione del Presidente del Consiglio. Il che comporta almeno due passaggi.
1) Consentire la piena mobilità dei docenti fra Atenei, dando agli Atenei stessi la facoltà di reclutare senza concorso. Diversamente, poiché – come è stato fatto notare – l’attuale configurazione del sistema universitario nazionale è un modello a “eccellenze diffuse”, non si capirebbe in che modo gli Atenei “eccellenti” possano essere tali (ovvero, mantenere la propria condizione di “eccellenza” e accrescere la loro produttività) senza poter occupare i migliori docenti italiani ed esteri. Ma, a normativa vigente, i trasferimenti di sede sono di fatto bloccati, dal momento che l’avanzamento di carriera di un docente esterno costa notevolmente più dell’avanzamento di carriera di un docente interno.
2) Permettere la differenziazione del trattamento retributivo fra sedi universitarie diverse. In assenza di questo dispositivo, non si capirebbe per quale ragione un docente possa mai accettare di trasferirsi, assumendo peraltro un carico di lavoro che dovrebbe risultare più gravoso rispetto alla sede di provenienza. Se, infatti, la sede di provenienza è esclusivamente teaching, nella sede di arrivo ci si trova a erogare didattica non solo nelle lauree triennali, ma anche nelle lauree magistrali e nei Dottorati, con in più l’impegno della ricerca.
La realizzazione di questi passaggi richiede modifiche normative radicali, di difficile praticabilità, e anche difficilmente spendibili politicamente e per fini elettorali (occorrerebbe provvedere alla chiusura ope legis di sedi universitarie). Queste difficoltà creano una condizione per la quale, data la normativa vigente, ciò che può essere fatto è solo portare a lenta agonia le sedi che si intende chiudere – e che verranno chiuse con la nobile motivazione che sono poco produttive. Nel frattempo, si introducono “granelli di sabbia” nel sistema con interventi normativi apparentemente di poca rilevanza, ma che ben delineano il percorso. Fra i tanti, la possibilità data alle commissioni di concorso di valutare i candidati sulla base del “prestigio” della sede nella quale si sono laureati (si osservi, incidentalmente, che l’Università pubblica italiana non è strutturata in sedi più o meno prestigiose).
Si tratta inoltre di modifiche che sono ostacolate spesso dai sindacati e dalla Magistratura[4]. Sporadicamente anche da qualche docente. Più recentemente da un numero crescente di docenti, quelli che non parteciperanno all’esercizio di Valutazione della qualità della ricerca (VQR), legittimamente insoddisfatti di avere lo stipendio bloccato da cinque anni, non avere fondi per la ricerca, impiegare gran parte del loro tempo per far fronte a oneri burocratici la cui ratio sfugge ai più e che dovrebbero essere gestiti da un personale amministrativo anch’esso quantitativamente ridotto a meno dell’essenziale. È un’insoddisfazione pienamente comprensibile, soprattutto se si considera che un ricercatore universitario guadagna circa 2000 euro netti al mese, un professore associato circa 2500 e un professore ordinario poco più di 3000 (con anzianità di servizio di dieci anni).
È importante chiarire che, quantomeno nelle scienze umane e sociali (ma non solo), la valutazione della ricerca non è affatto neutra. Sul piano tecnico, essa viene realizzata attraverso l’uso di indicatori che segnalano il grado di diffusione di riviste scientifiche sulle quali hanno pubblicato i singoli docenti valutati. È del tutto evidente che, poiché le riviste più lette sono quelle che fanno riferimento al pensiero dominante, vengono premiati i ricercatori che si conformano a questo, ovvero che svolgono attività di ricerca lungo le linee di ricerca che prevalgono[5]. L’incentivazione del conformismo è il più efficace dispositivo di annientamento della creatività individuale e, dunque, della possibilità di generare innovazioni radicali nella conoscenza scientifica: non innovazioni ‘incrementali’ rispetto al paradigma dominante. Con una metafora,. sarebbe come se una ragazza con i capelli biondi si sottoponesse a un concorso di bellezza nel quale si è già deciso che possono vincere solo ragazze con i capelli neri.
NOTE
[1] Sul tema si rinvia a Mazzucato, M. (2014). Lo stato innovatore. Laterza: Roma.
[2] Per una sintesi, si veda: http://www.universita.it/universita-sud-rischiano-sparire/
[3] Viesti, G. a cura di (2015). Nuovi scenari. Una indagine sulle Università del Nord e del Sud. Fondazione RES.
[4] Si può considerare, a riguardo, un recente contenzioso in materia di valutazione della ricerca: http://www.roars.it/online/prosegue-il-contenzioso-sulla-collocazione-in-fascia-a-delle-riviste/. Altri ricorsi, anche su altri aspetti, sono riportati su www.roars.it.
[5] V. Forges Davanzati, G. (2015). Di cosa si occupano gli economisti, Micromega on-line, dicembre.
(29 gennaio 2016)
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