Ilfatoquotidiano.it di Lorenzo Galeazzi e Lucio Musolino
Dalla rivolta dei braccianti immigrati del gennaio 2010, che ha acceso la luce sulle terribili condizioni di vita e lavoro degli stagionali africani, a Rosarno niente è cambiato. Le campagne della piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, ogni inverno si riempiono di almeno duemila invisibili che all’alba di ogni mattina aspettano i caporali per guadagnarsi una giornata di lavoro a raccogliere gli agrumi. “Ci pagano 25 euro, ma tre li dobbiamo versare per il passaggio fino agli agrumeti”, racconta Ibrahim, senegalese sulla quarantina, mentre attende il suo furgone a uno svincolo alle porte della cittadina. Se le condizioni di lavoro sono pessime, quelle abitative sono addirittura terribili: i migranti vivono principalmente nella baraccopoli di San Ferdinando e in una vicina fabbrica occupata senza luce, acqua calda e riscaldamento. Due gironi infernali dove le più basilari condizioni per un’esistenza dignitosa sono vietate e dove ai migranti non resta altro da fare che provare a organizzarsi da soli alla male e peggio. “Non possiamo separare la situazione abitativa da quella lavorativa”, spiega Celeste Logiacco, giovane segretaria generale della Flai-Cgil nella Piana: “Se avessero dei compensi dignitosi potrebbero vivere in case vere e proprie e non in queste baracche”. Ma la filiera è basata sul ricatto e, come sempre accade, sono gli ultimi a pagare il prezzo più alto. Ne è consapevole la Coldiretti che dà la colpa alle multinazionali delle aranciate: quelle aziende che comprano a prezzi stracciati il succo prodotto dalle “bionde” di Rosarno. “Impongono il prezzo di sette, massimo otto, centesimi per chilo – spiega Pietro Molinaro, presidente dell’associazione agricola calabrese – La metà di quanto costerebbe raccoglierle. E’ chiaro che un agricoltore o abbandona la raccolta oppure si deve rendere complice di questa catena di sfruttamento”. La terza strada individuata da Coldiretti è la riconversione delle coltivazione in prodotti freschi da portare sulle tavole degli italiani chiudendo per sempre il distretto della produzione di succo di agrumi. Ma nel frattempo le campagne si spopolano: se solo nel 2009 c’erano 9mila ettari coltivati, oggi si è già scesi a tre. E gli agricoltori che rifiutano di sfruttare i migranti sono costretti a lasciare le arance sugli alberi. Come Alberto Varrà: “Questi due ettari e mezzo li ha comprati mio nonno dopo anni passati in America a fare l’immigrato, come faccio ad approfittarmi degli africani? Preferisco non raccogliere”
Nessun commento:
Posta un commento