Nel riportare al centro del dibattito cinematografico il 70mm, proiettato in Ultra Panavision con lenti anamorfiche, in modo tale da ottenere un rapporto fra la larghezza e l’altezza dello schermo corrispondente alla ratio di 2.76:1, Quentin Tarantino compie un vero e proprio atto di titanismo estetico (anche se non tutto il pubblico potrà vivere il suo film nelle condizioni da lui immaginate).
O se preferite di purissima hybris, caratteristica solo di chi è convinto d’avere il mondo a sua completa disposizione e di potere fare e richiedere ciò che desidera senza timore che qualcosa gli sia rifiutato. Nel suo sovente geniale assolutismo filmico, Tarantino con The Hateful Eight decide di abbandonare il cono d’ombra del modernismo feticista che caratterizza da sempre la sua opera per porre al centro della discussione critica il problema stesso dell’aura dello spettacolo cinematografico. Aura che, ovviamente, secondo lui è andata definitivamente perduta e che spetta a lui richiamare in causa. Walter Benjamin, ovviamente, un tantino c’entra e tanto vale scomodarlo anche solo per sommissimi capi.
È noto che con la riproduzione tecnica dell’opera d’arte si passa dalla fruizione al consumo. Non più opera irripetibile, ma oggetto destinato a trasformarsi attraverso il moltiplicarsi esponenziale delle riproduzioni (il consumo, appunto). Segno e sintomo di questa metamorfosi legata alla società di massa è il cinema. Lo spettatore diventa pubblico e l’opera d’arte perde la sua “aura”. L’opera d’arte, prima di possedere un valore espositivo, contemplativo, ne possiede uno in quanto oggetto devozionale (o di culto). Inevitabilmente, l’aura espositiva conserva tratti di quella devozionale, caratteristica questa che però si perde nel processo della riproduzione e del consumo. Nel consumo non c’è più “devozione”, solo la ripetizione (che è una forma di riproduzione) del consumo stesso.
Così Benjamin, brutalizzato per brevità d’esposizione. Tarantino, nel suo feticismo assolutista, intende quindi, attraverso l’esorcismo del formato che costringe le sale ormai convertite al Dcp a tornare non solo alla pellicola ma a una pellicola che anche al tempo della pellicola era desueta (le ripetizioni sono volute), letteralmente recuperare l’aura devozionale del cinema dando a intendere che di quella banalmente espositiva tutto sommato gli importa poco. Ciò che conta è il culto del cinema. E non è un caso che, perversamente, utilizzi il formato non per realizzare un film epico in stile David Lean (cosa che sarebbe stata logica ma prevedibile) ma in controtendenza rispetto alle sue potenzialità spettacolari seguendo, si direbbe, le indicazioni documentarie del 3D utilizzato da Alfred Hitchcock per Il delitto perfetto, dove la stereoscopia è sostanzialmente esplorazione di un interno alto borghese prima del colpo di teatro telefonico.
Il 70 mm di Tarantino riporta quindi, anche qui: perversamente, non tanto al cinema ma agli albori del televisione americana e, volendo, addirittura alle origini del cinematografo, quando la macchina da presa fissa filmava gli attori davanti a essa che parlavano o che si inseguivano e capitombolavano nelle comiche.
La tv americana delle origini, infatti, è stata il regno nascosto della nuova Hollywood degli anni Settanta. Nomi come Robert Altman, Sidney Lumet, John Frankenheimer, Robert Mulligan, Sam Peckinpah hanno tutti iniziato a lavorare in televisione in un momento storico in cui gli studio tradizionali scricchiolavano e il primato di Hollywood era insediato dallo spettacolo domestico del salotto di casa.
Ossessionato dalla scrittura (come forse solo un Paddy Chayefsky prima di lui), Tarantino non fa nessuno sforzo per celare il suo piacere nel mettere in scena, come a teatro, gli attori che interpretano i suoi testi (la tv dei live drama era questa ed è sperimentando con queste possibilità che Peckinpah da teatrante si è avvicinato alle immagini). E lo fa utilizzando il più grande palcoscenico di massa possibile: il cinema riportato alla sua aura devozionale del 70mm.
C’è sempre stato un elemento teatrale fortissimo nel cinema tarantiniano ma mai così deflagrante come in The Hateful Eight, film che sulla carta dovrebbe essere l’esaltazione dell’esperienza cinematografica (e lo è in ogni senso; sia detto a mo’ di anticipazione di una delle conclusioni).
E se dunque i Cahiers du cinema impallinano la hybris tarantiniana, pur intuendo alcune dissonanze di fondo che ci dicono che qualcosa sta mutando nel sistema del regista, dall’altro perdono completamente di vista il valore politico di tutta l’operazione concentrandosi esclusivamente sul dito del presunto culto della personalità (che pure da qualche parte c’è e lavora). Tarantino vuole far rinascere il cinema (né più né meno), anche solo per un’ultima volta (e come spettacolo merceologico, come se il suo film fosse una sorta di esposizione universale delle merci del cinema), contro le stesse determinazioni economiche, produttive e sociali che ancora lo tengono in vita e che ne hanno modificato le forme del consumo. Modificandone però ragione sociale e modalità d’uso. Evocare, dunque, attraverso (il feticcio di) un formato desueto, un consumo che diventa immediatamente culto (“consumo devozionale”, ammesso che esiste una cosa simile…) per provare a immaginare un pubblico che si ritrovi, come per un incanto paramnestico (io mi ricordo, sì mi ricordo… e dunque ritorno), nella condizione di fruizione di un assolutismo cinematografico edenico (come se nel frattempo la storia non fosse mai accaduta). Perversamente, ingenuamente, Tarantino sogna un cinema, un’esperienza del cinema, unica, irripetibile, davvero “sacra”. Vivere finalmente ciò che in realtà si è solo sognato.
Ma questa è la premessa.
Evocata la scena, Quentin Tarantino, da feticista modernista massimalista, dispone le pedine del suo discorso politico.
Se la scena primaria del cinema tarantiniano è quella del cinema “assoluto”, affermazione quasi solipsistica di un principio di piacere che è sempre un principio d’individuazione, l’altra scena, sulla quale la prima è innestata, è essenzialmente politica.
Infatti, una volta installata la scena, Tarantino l’avvelena. Come lo scorpione di Orson Welles, non può farne a meno. È la sua natura. Perché il piacere non può essere “astratto” ma sempre calato in un contesto “storico” anche se determinato da una motivazione estetica che sembrerebbe contraddirlo.
E se ovviamente il gioco dei rimandi cinefili è delizioso – Agatha Christie che riscrive La cosa di John Carpenter in una situazione che evoca Cabin Fever, con un protagonista che si chiama come il produttore che diede il primo lavoro a Sam Peckinpah in televisione (Charles Marquis Warren), un “villain” dall’aria warholiana il cui nome evoca un regista porno gay, una protagonista che omaggia Faith Domergue e un neosceriffo sudista che strizza l’occhio a un eroe della tv degli Settanta (Mannix) – non si può non notare che si tratta solo della glassa superficiale di un discorso più articolato.
Passo indietro.
Quentin Tarantino scende in piazza con le vittime della brutalità della polizia.
Le critiche, violentissime, non si fanno attendere. Poco dopo il suo film è disponibile on line. In qualità video eccellente. Esponenti della polizia avevano promesso infatti che avrebbero colpito il regista dove gli avrebbe fatto “più male”.
Insomma: pur prendendo delle cantonate storiche su John Ford, prontamente rintuzzategli da vari studiosi con dati, numeri ed esempi alla mano, è evidente che il trasporto di Tarantino sulla questione razziale negli Stati Uniti è genuino. E che non risponda al sentire liberal dominante è altrettanto risaputo (visto in originale, il diluvio di n****r è intossicante: meglio/peggio di un disco gangsta rap doc).
In un paesaggio completamente innevato, bianco, che richiama sia Neve rossa di Nicholas Ray che Il grande silenzio di Sergio Corbucci (anche se il regista cita pure La notte senza legge di André de Toth e I compari di Robert Altman, tutti caposaldi dei western con la neve), Tarantino organizza la messa in scena del suo film più “teorico” di sempre.
Un afroamericano reduce della guerra civile (Samuel L. Jackson), che viaggia con una presunta lettera autografa di Lincoln, compie prima un viaggio in una carrozza con un cacciatore di taglie e la sua preda che non può richiamare Ombre rosse (ma per richiamare quel film lì basterebbe anche solo uno Stetson) e infine si ritrova chiuso in una baita dove l’odio razziale e la violenza montano immediatamente.
Assedio. Kammerspiel. Una sola donna. Morricone. Chissà che anche John Carpenter veda in The Hateful Eight il suo La cosa, musicato proprio dal maestro italiano.
Come un’immersiva musica delle parole, Tarantino, esponente purissimo del cinema “impuro”, filma esplorando gli spazi della baita come se fossero le articolazioni di tutto quanto non funziona più (o non ha mai funzionato) negli Stati Uniti.
A fronte delle polemiche sul monocolore bianco delle nomination Oscar di quest’anno, con la sortita infelicissima di Charlotte Rampling, e la parodia geniale del SNL, Tarantino e il suo film è come se prendessero in diretta la temperatura politica al grande paese con una precisione che solo Obama nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione ha saputo cogliere con altrettanta efficacia.
E poi, certo, c’è la questione della violenza. Quella reale della polizia che ammazza senza conseguenze afroamericani per strada (e quanto del risentimento anti Obama cova in questi morti?) e quella cinematografica. Odio che Tarantino restituisce al mittente con il flashback sulla neve di Warren nel quale il regista conferisce corpo al grande incubo bianco: le dimensioni del pene dei “negri” (notare, soprattutto in originale, il compiacimento di Samuel L. Jackson con il quale descrive il suo membro e i numerosi nomi che gli attribuisce…). Solo Walter Hill e Eddie Murphy sono andati altrettanto in profondità a incidere sulla pelle del razzismo USA (ricordarsi del “negro” con il distintivo). Per crudeltà e promiscuità erotica, il flashback del sesso orale potrebbe essere una outtake di I quattro dell’apocalisse di Lucio Fulci.
The Hateful Eight interviene con estrema precisione sulla questione delle armi negli USA.
Da un lato i razzisti si armano perché devono tenere a bada i “negri” (parafrasando la celebre Rednecks di Randy Newman), dall’altro l’unico modo per un “negro” di essere tranquillo al fianco di bianchi armati è di avere anche lui una pistola. Possibilmente più grande (il riferimento al pene è voluto). E in questo modo, genialmente, la spiegazione/giustificazione storica della NRA sui morti per arma da fuoco (sono le persone che fanno male non le armi) risuona di motivazioni che avrebbe potuto addirittura essere di Bobby Seale o di Huey P. Newton. Le armi dipende chi ce le ha (e su questo sarebbe d’accordo un accordo costituzionale che da John Milius giunge a William S. Burroughs).
Nel mettere in scena il lavoro delle armi, Tarantino non si abbandona solo al compiacimento gore del sangue che scorre. Le pistole, godardianamente, fanno dei buchi nei corpi (e nelle teste) delle persone. Materialisticamente, il film fa vedere cosa accade quando un pezzo di piombo incontra un corpo. E poi, anche se la crudelissima Domergue del film è estremamente scaltra, come non vedere nel personaggio di Jennifer Jason Leigh uno sberleffo alla impresentabile Palin? Non a caso la Domergue finisce impiccata con ultimo sforzo da Warren e Mannix sanguinanti. Come dire che nello stato dell’unione secondo Tarantino certa gente proprio non ci sta. Altro che misoginia gratuita.
Solo Sylvester Stallone con Creed ha formulato un discorso sullo stato dell’Unione altrettanto preciso e motivato. Cedendo la sua mitologia al figlio di Apollo Creed, e parallelamente rinunciando a dirigere e scrivere il film, Stallone permette al suo eroe proletario ed etnico di diventare, di fatto, un afroamericano. Stallone cede se stesso e la sua mitologia come un atto di palingenesi, lo stesso che Tarantino celebra sardonicamente nel finale del suo film. Stallone, dal canto, più umilmente, offre se stesso a mo’ di parziale compensazione.
Ci si ritrova, come direbbe Obama, democratici e repubblicani, divisi ma uniti almeno sui valori fondamentali. L’antirazzismo è uno di questi. Invece l’America, nonostante Obama, e dopo otto anni, si ritrova più segregata che mai.
Tarantino, celebrando il cinema che ha sempre amato, restituisce al mittente ciò che ha sempre odiato, sfruttando proprio l’irripetibilità auratica di un evento merceologico pensato come unico. Creando un agguato feticistico, Tarantino affonda le sue mani nelle piaghe dello stato dell’unione. E non fa prigionieri.
The Hateful Eight, inoltre, nella sua enorme complessità di oggetto composito, come è composito lo sguardo di Tarantino, rivela una volta per tutte l’adesione ideale del cineasta alla grande stagione del cinema della Nuova Hollywood degli anni Settanta.
Tarantino vuole appartenere alla classe dei Penn, dei Peckinpah, degli Altman e così via. Il cinema italiano di genere, è il suo giardino dei giochi d’infanzia al quale tornare sempre e comunque. Ma è la tradizione del grande cinema statunitense alla quale lui vuole appartenere.
E con The Hateful Eight mette piede in Arcadia a titolo pienissimo.
Il cinema statunitense raramente è stato più politico.
(30 gennaio 2016)
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