Ieri, dipinta in modo irripetibile dai maestri del neorealismo; oggi, messa a nudo da opere come La Grande Bellezza o graffiata da denunce quali Gomorra. Ma se si vuole portare il confronto Roma-Berlino sul piano economico, evitando anche la solita retorica di Italia-Germania 4-3, bastano poche cifre a indicare come la scelta di credere ancora nell'Unione europea sia obbligata e dettata dai confortanti (talvolta ottimi) risultati economici.
Basta analizzare gli effetti del Quantitative Easing della Bce, enorme iniezione di liquidità da oltre 1.500 miliardi di euro che ha come obiettivo quello di far rialzare prezzi ed economia. Ebbene, confrontando le variabili fotografate nel primo mese del 2015 (anno del varo del bazooka di Mario Draghi) con le ultime disponibili, sempre dello stesso anno, si scopre che è proprio la Germania tra i principali benefattori. I dati parlano chiaro. Il Pil tedesco è aumentato dal +1,4% di inizio anno al +1,7% (dato di fine settembre), il debito pubblico è diminuito dal 74,3% del Pil al 71,9% (fine 2014 su fine 2015), la disoccupazione è a livelli americani (è scesa in un anno di QE dal 6,5% al 6,3%) e le esportazioni hanno registrato un boom: da un saldo attivo di 90 miliardi di euro, ora la cancelliera Angela Merkel può gioire per un più 106 miliardi di euro. Il premier Renzi farebbe bene a ricordarlo ogni volta che incontra la cancelliera o quando Berlino e i suoi alleati alzano il sopracciglio sui conti italiani o sulla necessità di arrivare ad una vera unione bancaria ma senza la garanzia centrale dei depositi.
Anche il nostro paese ha beneficiato delle politiche espansive dell'Eurotower. Nell'anno del QE, il Pil è passato da un meno 0,4% del 2014 a un +0,8% (o +0,7%, si vedrà a consuntivo), la disoccupazione è calata dal 12,4% all'11,5%, le esportazioni hanno un saldo attivo in aumento (da 33,5 miliardi a 33,8 di fine ottobre 2015), lo spread Btp-Bund viaggia intorno quota 100 dopo aver cominciato il 2015 a 120 punti base. Se si passa poi ai due nodi dolenti degli eterni antagonisti, si scopre che sia per l'Italia che per la Germania, la presenza in Europa è fondamentale. Non passa giorno che Bruxelles non ricordi a Roma di fare qualcosa per il proprio debito pubblico: è ancora troppo alto, sopra il 133% del Pil, infinitamente lontano dall'ormai dimenticato livello del 60% fissato dal Trattato di Maastricht. Il maggior stimolo per arrivare ad operazioni significative di Tagliadebito è proprio il tanto criticato Fiscal Compact, che pur nella sua irragionevole concezione recessiva, impone a qualsiasi governo della penisola di impegnarsi a ridurre l'indebitamento per arrivare ad un "equilibrio" di bilancio (termine volutamente machiavellico al posto di "pareggio" inserito nella Costituzione).
Dobbiamo francamente chiederci come andrebbero le aste del Tesoro da 300 miliardi di euro l'anno senza questo pungolo continuo a rispettare gli accordi comunitari e senza la possibilità di avere tassi d'interesse molto bassi, grazie proprio all'ingresso nell'euro. Ma anche i lander hanno mostrato di utilizzare al meglio la partecipazione all'Unione monetaria. È noto come il livello di cambio marco-euro abbia permesso a Berlino di ripagarsi gli immensi costi della riunificazione, è scritto nei conti dell'Ue il costo esorbitante, in deroga agli aiuti di Stato, della messa in sicurezza del sistema bancario tedesco (oltre 245 miliardi di euro), come è ormai evidente che il primo salvataggio della Grecia targato Ue sia servito a far pagare a tutti i paesi membri (Italia compresa, con oltre 50 miliardi di euro), le spericolate operazioni finanziarie degli istituti di credito teutonici.
Ma c'è anche un'altra motivazione economica che giustifica la partecipazione tedesca all'Eurozona ed è proprio il trattato di Schengen, oggi di fatto sospeso nel Nord Europa: i conti previdenziali. Entro il 2035 l'invecchiamento della popolazione tedesca farà sì che il rapporto tra lavoratori e pensionati passerà da 3 contro 1 a 2 contro 1, con problemi seri di sostenibilità, laddove non si rimettesse mano al sistema, ovvero si producesse un risparmio all'anno del 3,5% del Pil, attraverso una stretta fiscale o corposi tagli di spesa. Ecco perché servono nuovi occupati già formati e che sappiano il tedesco. Ecco il vero motivo delle porte aperte (poi richiuse troppo frettolosamente) ai migranti. Senza di essi servirà una manovra gigantesca di riequilibrio pensionistico. In sostanza, ogni mossa di politica estera di Berlino, l'energia non fa eccezione, è dettata solo da convenienze economiche domestiche ma si nutre e si appoggia proprio sulla sua partecipazione all'Europa unita.
Nel derby infinito Italia-Germania, sarebbe bello considerare tutti questi elementi che uniscono i due paesi più dei tanti stereotipi (tedeschi seri, rigorosi, egoisti; italiani allegri, spendaccioni, inaffidabili) che purtroppo oggi echeggiano ad ogni vertice europeo, rischiando di diventare da tema vignettistico a reale materia di dibattito politico.
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