Qualche giorno fa dei nuovi dati hanno contribuito ancora una volta a ravvivare il dibattito sulla questione delle diseguaglianze. Così abbiamo appreso da uno studio recente di Oxfam, l’organizzazione britannica che combatte da molti decenni la fame nel mondo, che 62 esseri umani possiedono oggi ricchezze complessive pari a quelle detenute dal 50% della popolazione mondiale (circa 3,6 miliardi di persone).
Ma, pur particolarmente
dirompenti, i dati rivelati oggi non dovrebbero avere sostanzialmente
sorpreso nessuno; è ormai da alcuni anni che l’opinione pubblica si sta
abituando a delle analisi che mettono l’accento su di un fenomeno
dirompente.
Le analisi tradizionali degli economisti
Il tema delle diseguaglianze, per la verità, non ha mai goduto di molta attenzione da parte degli economisti ortodossi, cioè dalla grande maggioranza di essi ed anzi esso è stato tenuto abbastanza nascosto a lungo: gli economisti sono notoriamente persone che si imbarazzano facilmente.
Ci si limitava a ripetere poche stanche regole del passato, palesemente distanti dalla realtà. La prima era quella che teorizzava il cosiddetto trickle-down ( o “gocciolamento”): in sostanza bisognava lasciare che qualcuno si arricchisse a volontà, perché poi le sue ricchezze avrebbero gocciolato verso il basso: i ricchi avrebbero consumato, assunto delle persone, fatto della beneficenza e così tutti avrebbero goduto in qualche modo della loro ricchezza.
Un’altra favola era quella avanzata, se ricordiamo bene, da un pur serio economista, Simon Kuznetz, premio Nobel per l’economia nel 1971. Già negli anni cinquanta, se ricordiamo bene, egli sosteneva che bisognava lasciar fare al tempo: nelle prime fasi dello sviluppo di un paese la ricchezza si concentrava necessariamente in poche mani, ma poi man mano che l’economia, gli investimenti, la produttività crescevano, il benessere si diffondeva a macchia d’olio verso il basso e il livello di concentrazione delle ricchezze diminuiva sostanzialmente.
L’evoluzione della situazione reale
Andando ad esaminare ora quale era invece la situazione nel mondo reale, si può affermare che, tradizionalmente, la concentrazione delle ricchezze per quanto riguarda i paesi sviluppati era la più alta negli Stati Uniti, meno marcata in Europa. Nel nostro continente, in particolare nei paesi scandinavi e in Germania (nel resto del mondo sviluppato anche in Giappone), le diseguaglianze dei redditi e dei patrimoni erano parecchio meno accentuati, anche se certo non trascurabili. Tra i paesi in via di sviluppo la palma della concentrazione, anzi un vero record mondiale, era detenuto dai paesi dell’America Latina, mentre altre aree apparivano più sobrie. Naturalmente, nei paesi comunisti le diseguaglianze erano molto meno accentuate, anche se non inesistenti.
Ma negli ultimi decenni la situazione è sostanzialmente cambiata. Così la crisi del 2008, mentre ha portato alla ribalta un fenomeno quale quello delle diseguaglianze che prima veniva sostanzialmente nascosto, ha anche mostrato come esso impedisse alla lunga lo sviluppo economico e fosse all’origine della stessa crisi, come diversi economisti hanno cominciato ad ammettere; essa ha anche mostrato, d’altra parte, che la corsa alle diseguaglianze non conoscesse più confini.
La concentrazione della ricchezza e dei redditi era ormai diventata una gioiosa gara a cui tutti gli Stati partecipavano con entusiasmo. I paesi ex-comunisti, e in particolare la Cina e la Russia, erano diventati in poco tempo tra i campioni del settore, mentre anche i paesi occidentali prima piuttosto sobri, Germania, Giappone, persino la Svezia anche se con più ritegno, hanno cominciato a dire la loro in tale speciale classifica.
La consapevolezza politica del problema a livello dell’opinione pubblica era stata suscitata dopo la crisi, in giro per il mondo, da movimenti come Occupy Wall street o Podemos, non certo dai governi, esclusi alcuni dell’America Latina. Ma oggi persino una persona come Hillary Clinton, per cercare di vincere le primarie democratiche contro il socialista Sanders, è obbligata a sottolineare che i primi 25 manager di fondi speculativi negli Stati Uniti guadagnano oggi di più di tutti gli insegnati di scuola materna nel paese.
Il nuovo approccio di alcuni economisti; un libro di Atkinson
La consapevolezza scientifica del problema ormai a livello planetario è stata raggiunta un paio di anni fa dall’uscita del fondamentale volume di Thomas Piketty sull’argomento di cui tutti hanno sentito parlare. Un accademico stimato anche dai suoi colleghi liberisti rompeva l’omertà sull’argomento e costringeva a discutere. Certo magari non tutto quello che scrive l’autore appare condivisibile, ma questo appare alla fine secondario. Gli studi cominciano a fiorire e il tema è diventato centrale anche nel dibattito economico. Di recente anche due nostri stimati economisti, Mario Pianta e Maurizio Franzini, hanno pubblicato un testo importante sull’argomento, anche se esso è disponibile al momento solo in inglese.
Ma a questo punto non si può che ricordare come il pioniere degli studi nel settore sia un altro studioso, questa volta britannico, Anthony B. Atkinson, che lo stesso Piketty riconosce come suo maestro e che analizza il fenomeno dagli anni sessanta. Qualche settimana fa un suo testo recente sull’argomento, del 2015, pubblicato non a caso con una prefazione di Piketty, è stato tradotto in italiano e ne diamo quindi in questo spazio una breve informazione. Si tratta di un volume dal titolo “Disuguaglianza. Che cosa si può fare”, Cortina ed., Milano, 2015.
Un merito del libro è quello di concentrare l’attenzione su cosa bisogna fare per combattere il fenomeno, come indica già il titolo. In questo aspetto il testo appare più approfondito di quello di Piketty, che era invece molto più attento all’analisi del fenomeno.
L’autore afferma che cambiare le cose si può, basta volerlo. Certo Atkinson non vuole la fine del capitalismo; egli mira “semplicemente” a riportare i paesi occidentali, e in particolare la Gran Bretagna, il suo paese, ai livelli di diseguaglianza di prima dell’avvento della Tatcher e di Reagan al potere. E certo si tratta di un obbiettivo molto impegnativo.
Lo studioso parte dal principio che non basta mirare all’uguaglianza delle possibilità secondo la vecchia ideologia meritocratica, ma che è necessario puntare anche ad un certo livello di uguaglianza dei risultati. Afferma l’autore che non bisogna lasciare nessuno ai margini e che non c’è nessuna ragione di ridurre la società a una competizione sportiva che ricompensi solo una minoranza di vincitori.
Per risalire la china Atkinson afferma essere necessario riabilitare il ruolo dello stato, dei sindacati, delle associazioni della società civile. Tali organismi dovrebbero portare avanti e sostenere le proposte concrete che l’autore indica (in numero di quindici) per combattere il problema. Tra l’altro, si tratta di orientare le scelte tecnologiche in direzione dell’aumento dell’occupazione, di rinforzare il ruolo dei sindacati, di assegnare agli Stati obiettivi precisi in materia di disoccupazione, con l’offerta anche di un certo numero di impieghi pubblici, di creare un’autorità di investimenti pubblica, di rendere nettamente più progressiva l’imposta sui redditi, di fornire un reddito di base a tutti i bambini europei; e si potrebbe continuare. Atkinson mostra come tutte tali misure sono finanziabili con il bilancio pubblico.
Al di la della possibile discussione sulle misure specifiche proposte dall’autore, forse per alcuni aspetti troppo timide, il volume contiene molti materiali su cui riflettere. Un bel libro.
Le analisi tradizionali degli economisti
Il tema delle diseguaglianze, per la verità, non ha mai goduto di molta attenzione da parte degli economisti ortodossi, cioè dalla grande maggioranza di essi ed anzi esso è stato tenuto abbastanza nascosto a lungo: gli economisti sono notoriamente persone che si imbarazzano facilmente.
Ci si limitava a ripetere poche stanche regole del passato, palesemente distanti dalla realtà. La prima era quella che teorizzava il cosiddetto trickle-down ( o “gocciolamento”): in sostanza bisognava lasciare che qualcuno si arricchisse a volontà, perché poi le sue ricchezze avrebbero gocciolato verso il basso: i ricchi avrebbero consumato, assunto delle persone, fatto della beneficenza e così tutti avrebbero goduto in qualche modo della loro ricchezza.
Un’altra favola era quella avanzata, se ricordiamo bene, da un pur serio economista, Simon Kuznetz, premio Nobel per l’economia nel 1971. Già negli anni cinquanta, se ricordiamo bene, egli sosteneva che bisognava lasciar fare al tempo: nelle prime fasi dello sviluppo di un paese la ricchezza si concentrava necessariamente in poche mani, ma poi man mano che l’economia, gli investimenti, la produttività crescevano, il benessere si diffondeva a macchia d’olio verso il basso e il livello di concentrazione delle ricchezze diminuiva sostanzialmente.
L’evoluzione della situazione reale
Andando ad esaminare ora quale era invece la situazione nel mondo reale, si può affermare che, tradizionalmente, la concentrazione delle ricchezze per quanto riguarda i paesi sviluppati era la più alta negli Stati Uniti, meno marcata in Europa. Nel nostro continente, in particolare nei paesi scandinavi e in Germania (nel resto del mondo sviluppato anche in Giappone), le diseguaglianze dei redditi e dei patrimoni erano parecchio meno accentuati, anche se certo non trascurabili. Tra i paesi in via di sviluppo la palma della concentrazione, anzi un vero record mondiale, era detenuto dai paesi dell’America Latina, mentre altre aree apparivano più sobrie. Naturalmente, nei paesi comunisti le diseguaglianze erano molto meno accentuate, anche se non inesistenti.
Ma negli ultimi decenni la situazione è sostanzialmente cambiata. Così la crisi del 2008, mentre ha portato alla ribalta un fenomeno quale quello delle diseguaglianze che prima veniva sostanzialmente nascosto, ha anche mostrato come esso impedisse alla lunga lo sviluppo economico e fosse all’origine della stessa crisi, come diversi economisti hanno cominciato ad ammettere; essa ha anche mostrato, d’altra parte, che la corsa alle diseguaglianze non conoscesse più confini.
La concentrazione della ricchezza e dei redditi era ormai diventata una gioiosa gara a cui tutti gli Stati partecipavano con entusiasmo. I paesi ex-comunisti, e in particolare la Cina e la Russia, erano diventati in poco tempo tra i campioni del settore, mentre anche i paesi occidentali prima piuttosto sobri, Germania, Giappone, persino la Svezia anche se con più ritegno, hanno cominciato a dire la loro in tale speciale classifica.
La consapevolezza politica del problema a livello dell’opinione pubblica era stata suscitata dopo la crisi, in giro per il mondo, da movimenti come Occupy Wall street o Podemos, non certo dai governi, esclusi alcuni dell’America Latina. Ma oggi persino una persona come Hillary Clinton, per cercare di vincere le primarie democratiche contro il socialista Sanders, è obbligata a sottolineare che i primi 25 manager di fondi speculativi negli Stati Uniti guadagnano oggi di più di tutti gli insegnati di scuola materna nel paese.
Il nuovo approccio di alcuni economisti; un libro di Atkinson
La consapevolezza scientifica del problema ormai a livello planetario è stata raggiunta un paio di anni fa dall’uscita del fondamentale volume di Thomas Piketty sull’argomento di cui tutti hanno sentito parlare. Un accademico stimato anche dai suoi colleghi liberisti rompeva l’omertà sull’argomento e costringeva a discutere. Certo magari non tutto quello che scrive l’autore appare condivisibile, ma questo appare alla fine secondario. Gli studi cominciano a fiorire e il tema è diventato centrale anche nel dibattito economico. Di recente anche due nostri stimati economisti, Mario Pianta e Maurizio Franzini, hanno pubblicato un testo importante sull’argomento, anche se esso è disponibile al momento solo in inglese.
Ma a questo punto non si può che ricordare come il pioniere degli studi nel settore sia un altro studioso, questa volta britannico, Anthony B. Atkinson, che lo stesso Piketty riconosce come suo maestro e che analizza il fenomeno dagli anni sessanta. Qualche settimana fa un suo testo recente sull’argomento, del 2015, pubblicato non a caso con una prefazione di Piketty, è stato tradotto in italiano e ne diamo quindi in questo spazio una breve informazione. Si tratta di un volume dal titolo “Disuguaglianza. Che cosa si può fare”, Cortina ed., Milano, 2015.
Un merito del libro è quello di concentrare l’attenzione su cosa bisogna fare per combattere il fenomeno, come indica già il titolo. In questo aspetto il testo appare più approfondito di quello di Piketty, che era invece molto più attento all’analisi del fenomeno.
L’autore afferma che cambiare le cose si può, basta volerlo. Certo Atkinson non vuole la fine del capitalismo; egli mira “semplicemente” a riportare i paesi occidentali, e in particolare la Gran Bretagna, il suo paese, ai livelli di diseguaglianza di prima dell’avvento della Tatcher e di Reagan al potere. E certo si tratta di un obbiettivo molto impegnativo.
Lo studioso parte dal principio che non basta mirare all’uguaglianza delle possibilità secondo la vecchia ideologia meritocratica, ma che è necessario puntare anche ad un certo livello di uguaglianza dei risultati. Afferma l’autore che non bisogna lasciare nessuno ai margini e che non c’è nessuna ragione di ridurre la società a una competizione sportiva che ricompensi solo una minoranza di vincitori.
Per risalire la china Atkinson afferma essere necessario riabilitare il ruolo dello stato, dei sindacati, delle associazioni della società civile. Tali organismi dovrebbero portare avanti e sostenere le proposte concrete che l’autore indica (in numero di quindici) per combattere il problema. Tra l’altro, si tratta di orientare le scelte tecnologiche in direzione dell’aumento dell’occupazione, di rinforzare il ruolo dei sindacati, di assegnare agli Stati obiettivi precisi in materia di disoccupazione, con l’offerta anche di un certo numero di impieghi pubblici, di creare un’autorità di investimenti pubblica, di rendere nettamente più progressiva l’imposta sui redditi, di fornire un reddito di base a tutti i bambini europei; e si potrebbe continuare. Atkinson mostra come tutte tali misure sono finanziabili con il bilancio pubblico.
Al di la della possibile discussione sulle misure specifiche proposte dall’autore, forse per alcuni aspetti troppo timide, il volume contiene molti materiali su cui riflettere. Un bel libro.
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