Non sono poche, né poco autorevoli, le
voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di
ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non
pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli
sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai
palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal
negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per
i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il
razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale.
Il problema, come sempre, non è tanto se
ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col
distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato,
dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle
esperienze sociali e personali vissute.
La giornata della memoria acquisterebbe
una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati,
aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della
memoria stessa.
Altrimenti, la necessarissima conoscenza
storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche
delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di
una società in cui politici e media possono dire una settimana il
contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che
nessuno se lo ricordi e glielo ricordi.
Più ancora della conoscenza storica, la
memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il
presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale
e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve
a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah
rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna
niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità
di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe
servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge
i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il
genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra
cultura che ha prodotto e produce tutto questo.
Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica.
E invece, fra le tante memorie che
giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la
memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei
suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex
colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il
1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che
giungono (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che
cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione,
della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige
sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come
Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata
della memoria?
Con tanti problemi e domande, però
vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che
porta il suo nome, si è svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’
stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma
Limentani – testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una
vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le
tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che
ci sono vicine; farli vivere a una vasta aula magna stracolma di
studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo
e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli
spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di
un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone
cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza
diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa
è un modo serio di ricordare.
Ma è stato bellissimo soprattutto perché
gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari
più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto
l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti.
Questo è un modo non solo di prendere
coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché
imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si
rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro
partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo, non saremo ricordati.
Per una volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica “buona scuola”.
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