Sembrano lontani i tempi in cui il ministro dell’Economia Giulio Tremonti dichiarava che «la posizione delle banche italiane è migliore di quella delle banche estere». Era l’inizio del 2009, in piena crisi economico-finanziaria, il cui epicentro veniva localizzato nei paesi anglosassoni che avevano fatto proprio della sregolatezza finanziaria il principale tratto propulsivo.
Le parole di Tremonti sul modello nostrano di credito sobrio e senza eccessi apparivano ragionevolmente convincenti e aderenti alla realtà. Due anni dopo, persino durante la crisi dei debiti sovrani esplosa con particolare virulenza nei paesi periferici, il sistema bancario italiano resisteva e non finiva a gambe all’aria.
Oggi il quadro appare meno limpido e,
seppur una crisi verticale non sembri dietro l’angolo, c’è più d’una
ragione di preoccupazione. Al netto delle sorprendenti oscillazioni
quotidiane e dell’opera di alleggerimento della pressione proveniente
dalle dichiarazioni della Bce, si tratta di provare a guardare ciò che
sta accadendo da una prospettiva di più lungo periodo. Il sistema
bancario italiano regge il sistema industriale forse come in nessun
altro paese, qui l’impresa raramente si rivolge al mercato dei capitali
per trovare le risorse necessarie. Inoltre le banche negli anni della
bolla immobiliare, benché senza gli eccessi verificatisi altrove, hanno
concesso mutui per le abitazioni in misura crescente e con una certa
facilità.
La crisi e il conseguente profondo
impoverimento da alcuni anni stanno presentando il conto anche per il
sistema del credito nostrano. La percentuale dei crediti deteriorati
è pari al 16% e costituisce di gran lunga la cifra più alta tra i paesi
paragonabili all’Italia. Che l’aumento di tale tipo di prestiti sia da
addebitare prevalentemente alla crisi lo dimostra il fatto che dal 2009
sono più che raddoppiati in termini assoluti. E continuano ad aumentare
anche negli ultimi mesi in cui sembrerebbe in ripartenza l’elargizione
di credito. I protagonisti delle sofferenze sono per i 2/3 circa imprese
non finanziarie (+89% dal 2011) e, a seguire, cittadini che hanno
acceso un mutuo per l’abitazione. Certamente, dunque, incidono
i processi di finanziarizzazione avviati da tempo, come pure le dispute
a livello politico-continentale o le nuove regole sui salvataggi, ma ciò
che definisce il quadro d’insieme sono le debolezze della crescita
globale e il ridimensionamento cinese, frutto di una politica economica
fondata su un eccesso di debito che non lascia spazio per una ripresa
vera. Quale altro fattore dovrebbe intervenire in Italia se neppure euro
e costi energetici così bassi consentono di uscire dalla stagnazione?
Nel quadro generale, dunque, quella che era già considerata una grave
zavorra, cioè il credito in sofferenza, diventa fattore di ulteriore
destabilizzazione.
Queste incertezze emergono dentro un
processo che va a colpire l’anello debole di congiunzione tra finanza ed
economia reale. Prima i fallimenti delle quattro piccole banche, poi
Monte dei Paschi e Carige che stanno assistendo a una fuga di capitali
che è divenuta macroscopica negli ultimi giorni, ma che già da un anno
a questa parte ha visto ridurre il valore delle azioni di questi
istituti di oltre il 60%. Nel caso senese è già evaporata la
ricapitalizzazione fatta con i soldi pubblici. Un fenomeno che colpisce
a cerchi concentrici il sistema, da cui non sono del tutto al riparo
neppure i grandi attori. Persino Unicredit patisce un lento
e relativamente lungo periodo di indebolimento. Per tutti questi casi
più che di speculazione, parlerei di mancanza di fiducia nel sistema di
credito nazionale, e qualche ragione, se guardiamo ai fondamentali,
esiste di certo. La finanza, dunque, si mangia l’economia, ma anche
quest’ultima contribuisce a mandare in affanno la prima in un
cortocircuito che permane sistemico.
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