domenica 18 agosto 2013

Saviano incontra Rosi: "E' ancora mani sulla città"


{}Cinquant'anni fa il Leone d'oro per il suo capolavoro sulla speculazione edilizia. Il regista ne parla con lo scrittore che ha seguito le sue orme. La corruzione, Napoli, la politica, la camorra, le ideologie. Accade che un regista di novantuno anni non smetta di essere necessario: non perché vecchio maestro di grandi opere che pretendono d'esser celebrate, ma perché il suo metodo, inchiesta-racconto-bellezza, il suo modo di raccontare suggerisce ancora come osservare la realtà se la si vuol smontare e comprendere. Ecco perché un film di Francesco Rosi parla allo spettatore come se fosse un film del presente.
 
repubblica.it roberto saviano
Se non avessi visto Le mani sulla città mi sarebbe stato impossibile scrivere quello che ho scritto: ho imparato lo sguardo sulle cose da quel film. Senza il quale, tutto ciò che io e altri della mia generazione abbiamo fatto, non avrebbe potuto esserci. Ogni volta che incontro Rosi, glielo ripeto. E glielo ripeto volentieri anche oggi che lo incontro nel suo studio della sua casa romana dove abita da mezzo secolo, dove è sedimentata un'intera vita, affacciata su tutta Roma, che quasi sembra poterla toccare in punta di piedi sul balcone.



Ogni autore e persino ogni lettore lo immagino con una personale costellazione in grado di guidarlo nel percorso della propria esistenza. Francesco Rosi è parte della mia costellazione personale da quando vidi per la prima volta, adolescente come se fosse la scoperta di un tesoro nascosto, Le mani sulla città, il film che esattamente mezzo secolo fa gli valse quel Leone d'oro a Venezia che ora ci guarda da una mensola in una jungla di libri. Rosi è uno di quegli astri che illumina il cammino e guida chi è animato dalla stessa ossessione, nel perseguire lo stesso obiettivo: far comprendere il Meccanismo. Il meccanismo del potere, il meccanismo del dolore, le dinamiche fisiche-morali del dominio dell'uomo sull'uomo. Mostrare ciò che c'è dietro, sotto e a lato di un fatto. E proprio da questo comincia la nostra lunga discussione. Franco, come lo chiamano tutti, è lì nei suoi jeans e nei mocassini senza calzini, dietro i suoi occhiali, generoso, a parlar di sé con l'entusiasmo di sempre. Siamo sul divano, mentre dalla cucina sale il profumo di spaghetti alla puttanesca e parmigiana di melanzane, il menù non casuale che ci aspetta. Sul suo viso riconosco la smorfia simpatica e dura che da sempre gli appare ogni qual volta vuole inseguire un pensiero e meglio delinearlo, la stessa di molte foto che ho in mente.

"Era essenziale - dice - far capire al pubblico cosa fosse la speculazione edilizia, quali regole la governassero, quali interessi individuali e quali coperture, agevolazioni e commistioni di potere ci fossero dietro. Ma non era facile. Fui fortunato ad avere subito l'intuizione giusta. La prima scena in cui il costruttore nonché consigliere comunale Edoardo Nottola, interpretato da Rod Steiger, traccia un quadrato per terra su una collina brulla ed enuncia il suo teorema". Questo: "Questa è zona agricola e oggi quanto può valere questo metro quadrato, trecento, cinquecento, mille lire? Ma domani questo stesso metro quadrato può valere sessanta, settantamila lire e pure di più. Tutto dipende da noi. Il cinquemila per cento di profitto. Quello è l'oro".
Rosi per primo ha insegnato lo sguardo, il metodo, senza avere paura che questo modo nuovo di fare cinema sporcasse l'arte. Coinvolse subito uno scrittore napoletano molto distante da quei mondi: Raffaele La Capria non aveva certo il profilo del giornalista da inchiesta. "Apposta lo scelsi. Dudù veniva da Posillipo e in certi vicoli forse non aveva mai messo piede prima. Mi serviva proprio il suo sguardo diverso, più distaccato e riflessivo mentre io mi lascio dominare dalla passione, dall'indignazione: avrei dato molto per scontato, perché l'indignazione non comprende che qualcun altro possa non indignarsi, La Capria è stato fondamentale per offrire una visione più equilibrata, non troppo dal di dentro. Andavamo a seguire le sedute del consiglio comunale nascosti tra i giornalisti e il pubblico, poi ci facevamo interpretare l'accaduto dall'ingegnere e architetto Luigi Cosenza, un consigliere del Partito comunista, un galantuomo d'altri tempi che teneva un leone in casa come fosse un cane". Rosi gli chiese di partecipare alla sceneggiatura, ma Cosenza rispose di non avere tempo: oggi ci sarebbe stata la corsa a sfoggiare il proprio impegno politico partecipando a una sceneggiatura. In quegli anni la politica comunale, e non solo, era fatta dandosi totalmente all'amministrazione e alla gestione, e non al racconto di essa. Il consiglio comunale era ancora uno spazio democratico autorevole.

Un altro personaggio fondamentale fu Carlo Fermariello, altro consigliere del Pci, poi deputato. Fu proprio a lui che Rosi chiese di interpretare il ruolo del consigliere d'opposizione De Vita che lotta per smascherare la corruzione. "Quando lo sentii parlare in assemblea mi accesi, me ne innamorai. Diceva cose che nessun altro aveva il coraggio di dire. Era un vero tribuno. Nobile. Fu formidabile a recitare se stesso". Nonostante l'influenza di questi uomini di parte, la forza di questo film e del cinema di Rosi è la mancanza di ricatto ideologico: raccontare senza insinuare nello spettatore "o la pensi come me o sei dalla parte sbagliata del mondo". "Io non sono mai stato comunista - mi dice - Io ero socialista. Mi sono formato sui libri di Salvemini e Fortunato, i miei riferimenti erano Turati, Matteotti e Pertini. C'è sempre stata una differenza forte tra il mondo che volevano realizzare i comunisti e il modello socialista riformista. Questo non mi ha impedito di vedere e mostrare quante qualità avessero avuto in quegli anni gli uomini del Pci, spesso unici a battersi contro la corruzione più nera, ma non ho mai creduto nel comunismo, nel suo totalitarismo,  nella sua ambizione di egemonia culturale. La diversità per me è sempre stata essenziale e mai ho creduto che chi la pensasse diversamente da me fosse il male. Sono un riformista, mi riconosco nel socialismo liberale, sono un passionale, non un moderato. Anzi, mi trovo spesso intransigente". Si ferma. "Cacchio, sono proprio vecchio ancora a parlare di comunismo, liberalismo, socialismo...".

Altro che vecchio, invece. A distanza di cinquant'anni Le mani sulla città agli occhi di un ragazzo di oggi non dà la sensazione di parlare di cose ignote e lontane: si accorgerebbe che gli sta parlando dei suoi giorni, del potere che subisce, di qualcosa che lo riguarda. Ma c'è un particolare che mi ha colpito: non è mai nominata la parola camorra. "Perché al tempo la camorra non era ancora, a differenza della mafia, un'industria sanguinaria. Era più un fenomeno di provincia, come avevo invece raccontato nel mio primo film, La sfida, sul controllo che la piccola criminalità esercitava sui mercati generali. Schemi all'epoca solo intuiti ma non noti come lo sarebbero poi diventati, fin troppo, sviluppandosi a sistema, diventando racket violento. Ci ha messo tempo, la camorra, per diventare poi quello che è diventata. Allora non era vissuta come un pericolo reale, non si muoveva ancora in modo così crudele e spietato. Il cinema, la letteratura e anche il giornalismo se ne occupavano in modo superficiale, quasi come se fosse un fenomeno di colore, senza entrarci dentro".

Ho la sensazione che proprio in quegli anni Sessanta si sia costruito il successivo fallimento di Napoli. La nostra città veniva dalla miseria nerissima del dopoguerra. Ne Le mani sulla città se ne percepisce l'eco in una fase in cui Napoli finalmente ha la possibilità di uscirne e di crescere: ed ecco che arrivano gli speculatori. Ci fossero stati più Olivetti e meno Nottola, in quel frangente, Napoli oggi sarebbe diversa. Chissà. "Io un Olivetti a Napoli non l'ho mai incontrato. Qualcuno che volesse fare del bene, sì. I napoletani hanno sempre compreso la benevolenza del potente di turno, ma il diritto mai. L'imprenditore che costruisce ricchezza non esiste. L'affarista fa gli affari suoi speculando, rubando, sfruttando e poi, se è di cuore, fa del bene. A volte temo che faccia proprio parte del nostro carattere, formato così da numerosissime e differenti dominazioni straniere. Come pretendere che un cittadino accetti l'idea che per esercitare un proprio diritto debba rinunciare ai vantaggi offerti dal suo modo libero e furbo di vivere in assenza di regole?". Benevolenza, astuzia, solidarietà, cattiveria, bontà: tutti gli ingredienti tradizionali, presenti anche ne Le mani sulle città, a sopperire l'atavica mancanza di diritto. Rosi crede ancora a una possibilità di riscatto napoletano o non si illude più? "Io alla speranza non rinuncio mai, è uno stile di vita. Ho creduto in Valenzi e poi in Bassolino. Poi tutto è sembrato cadere. A volte avverto la stanchezza di sperare, ma non ho il diritto di essere stanco, perché tanto il cambiamento, se mai ci sarà, non farò in tempo a vederlo. Quindi ho il dovere di sperare, poiché non ne pagherò le conseguenze: non voglio la responsabilità del cinismo".

Avendo io camminato nel solco tracciato da questo uomo che ora mi parla, preoccupandosi di essere chiaro e darmi tutti gli elementi utili a comprendere l'officina che creò Le mani sulla città come se fosse alla prima intervista, non resisto alla tentazione di trovare analogie nei nostri percorsi, e chiedere lumi a lui che certe curve, insidie e ansie le ha già superate. Voglio sapere se anche lui è stato accusato di lucrare sulle disgrazie della sua città, di insultare Napoli e i napoletani mostrandone solo il lato peggiore, se anche lui ha meritato la diffidenza e l'insofferenza di una parte dei suoi concittadini. "Sarò superbo, ma questi attacchi non mi hanno mai toccato. A Gava il film addirittura piacque, a Lauro decisamente no. Mi hanno anche proposto di candidarmi a sindaco, ma non era il mio mestiere. È retorico, ma mi sono sempre sentito come un soldato che dovesse compiere un dovere, quello di diffondere la cultura del diritto a Napoli. Non ho mai avuto la pretesa di parlare ai fuorilegge e redimerli, mi rivolgevo a quella parte sana che invece poteva ancora cambiare. Non mi sono mai sentito in esilio né ho mai avuto la tentazione di tornare, ma ho sempre mantenuto un legame vivo, cercando sempre anche un'idea sul lavoro che mi riportasse a Napoli".

Mi tormentano molte domande, temo di abusare della sua disponibilità. Il rapporto con gli altri registi? C'erano invidie, gelosie, pressioni come oggi tra scrittori in questa sorta di tutti contro tutti? "No. Una volta eravamo molto più uniti e credo per merito del neorealismo che diede un'impronta enorme al cinema mondiale. Sotto quella bandiera ci ritrovavamo tutti sentendoci parte di un progetto comune. Vittorio De Sica una volta venne con la moglie a una mia prima e mi disse: "Tu non mi hai invitato, ma io qua sto". Mi sentii morire, e rimasi legatissimo a lui dopo quel gesto. De Sica era l'incarnazione perfetta dell'italiano: brillante, capace, furbo e intelligente, pagliaccio e superficiale solo all'apparenza. Mi sono stancato di ripetere alla noia che tutti quei film di quel periodo dovrebbero essere ancora portati nelle scuole". Poi mi guarda intuendo che quanto mi racconta io non potrò sino in fondo comprenderlo: "Lo so che ora è diverso, sento molta più rivalità e cattiveria, me ne accorgo". Oggi se un collega ti fa un complimento il primo pensiero istintivo è: perché mi mente? Ancora: il rapporto col successo e con l'ansia dell'insuccesso, l'ansia di essere al di sotto delle aspettative perdendo così la possibilità di continuare a fare ciò in cui si crede con le stesse risorse. "Non puoi fare un film senza sapere quali tasti toccare per avere successo, sempre entro i limiti delle tue scelte e della tua coscienza s'intende. Ho sempre trovato produttori che mi hanno consentito di fare ciò che volevo. Ho avuto fortuna: me la sono cercata e spero di essermela meritata".

Rosi non pare consapevole di quanto i suoi film oggi siano i riferimenti per la scrittura delle più importanti fiction americane. Rosi non sa quanto, rispetto a molti altri registi geniali del suo tempo, lui sia l'unico che ha creato un metodo che oggi chiunque voglia raccontare la realtà deve conoscere. Mi confessa che, adesso, sì gli manca l'eccitazione del ciak, ma soprattutto della fase preparatoria di un film, dell'indagine, della documentazione. La sua passione era nel ricercare ancor prima che nel riprendere. Restiamo un po' nello studio prima di cenare. Beviamo succo di pomodoro, è un po' stupito che io abbia rifiutato un whisky, si fa malinconico. "La vita, e forse non devo spiegarlo a te, sa essere durissima". Gli manca Giancarla, sua moglie, moltissimo, e ogni volta che ferma il suo pensiero sul lavoro, sull'analisi delle cose, si apre la ferita. "Era una donna speciale davvero...".

Me ne vado da casa Rosi quando è buio da un pezzo, felice di aver conosciuto meglio un padre di questo Paese nel quale ora stenta a riconoscersi. "Mi riconosco nei miei film. Ho sempre lavorato con l'idea di diffondere il giusto e il bello. Ho sempre vissuto l'arte come una missione e penso lo si veda dai film che ho fatto". Francesco Rosi è imprescindibile per cercare di capire a che punto è la notte e quanto dista il giorno. Glielo ripeterò anche la prossima volta.

Nessun commento:

Posta un commento