Da poco è apparsa l’ultima fatica di Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica [1]
che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista
imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi
dell’opus marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di
un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di
ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance
sui misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire
nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista mettendone in
evidenza luci ed ombre.
micromega di RICCARDO CAVALLO
1. What would Marx Think? Questo interrogativo campeggia sulla copertina della versione europea del Time del febbraio 2009, cioè nel momento clou della crisi finanziaria che partita dall’esplosione del sistema dei mutui subprime originatasi negli Stati Uniti, stava per dilagare anche nel resto del mondo. Non è un caso allora che il prestigioso magazine decida di dedicare la propria cover story
ad un possibile ritorno alle tesi marxiste nell’epoca di Wall Street.
Così il celebre ritratto del filosofo di Treviri diviene immagine pop,
dai pixel giallo-oro che scorre al posto dei valori dei titoli azionari
sul rullo della Borsa cui si accompagnano altre frasi fluorescenti che
rimandano alla necessità di elaborare nuove idee per uscire
dalla crisi e allo spauracchio del ritorno della povertà. Tutto insomma
lascia presagire che le tesi di Marx, prima fra tutte quella sulla lotta
di classe, siano più che mai da riprendere in considerazione come utile
strumento per evitare il baratro generato dalla voracità
autodistruttiva dei mercati.
Malgrado le apparenze, nel suo articolo intitolato Rethinking Marx[2],
l’editorialista Peter Gumbel è ben lungi dal voler inneggiare ad un
ritorno del marxismo, cercando anzi di evidenziare come le idee di Marx,
seppur profetiche e a tratti geniali, abbiano nella pratica miseramente
fallito. A tale scopo Gumbel intraprende una sorta di itinerario nei
luoghi simbolo della vita del filosofo, ovvero le tre città che hanno
avuto un ruolo determinante durante la sua esistenza: Treviri, sua città
natale, Parigi dove aveva trovato rifugio per un po’ di tempo e
infine Londra, in cui trascorse gli ultimi trentaquattro anni della sua
vita e dove tuttora è possibile visitare la sua tomba su cui è scolpita
la sua nota citazione, impressa con lettere dorate: «The philosophers have only interpreted the world in various ways. The point however is to change it». Tuttavia
quello che può sembrare un nostalgico tour in realtà sembra avere ben
poco l’intento di auspicare un ritorno a Marx traducendosi, al
contrario, in un netto rifiuto delle sue teorie. Alla fine del viaggio
di Gumbel ciò che rimane è una visione del marxismo strettamente legata
alle sue realizzazioni concrete e più o meno fedeli, nell’Ex Unione
Sovietica e nei paesi dell’Est Europa. Un panorama piuttosto desolante
in cui l’unica via è, nonostante la crisi, non rinunciare ad un modello
economico di tipo capitalistico.
Ma l’accostamento tra l’opera di Marx e la situazione di impasse
generata dalla crisi già alla fine del 2008 aveva inspirato diversi
articoli, tra cui quello pubblicato sul settimanale The Economist[3]
che si chiedeva cosa Marx avrebbe pensato e teorizzato di fronte alla
crisi e quello, ancora più eloquente, intitolato Booklovers turn to Karl
Marx as financial crisis bites in Germany. Qui senza mezzi termini Kate
Connolly, corrispondente da Berlino per la nota testata inglese The
Guardian, inizia il proprio articolo[4]
con la seguente lapidaria affermazione: «Karl Marx is back», per poi
dilungarsi sui motivi del successo editoriale delle opere di Marx,
specie tra i giovani studenti universitari tedeschi, alla ricerca di
risposte illuminanti in tempi bui e soprattutto di alternative valide al
dominio dell’Occidente liberal-capitalistico.
Oltre all’impennata di vendite de Il Capitale fino a
sfiorare numeri da best seller, testimoniata dalle stesse parole del
responsabile di uno dei maggiori editori specializzati in testi
accademici in Germania, la Karl-Dietz-Verlag, ciò che è apparso ancora
più sorprendente è stato il giudizio espresso da più della metà dei
cittadini dell’ex Germania dell’Est che hanno dichiarato di essere
fortemente delusi dal capitalismo che inizialmente li aveva abbagliati
con le sue armi seducenti e ingannevoli mentre un’altra buona parte di
loro addirittura spera in un ritorno del socialismo. Tale sondaggio
riportato da un altro giornalista della Reuters in un suo report[5]
del 2008 costituisce il punto di partenza per un interrogativo più che
legittimo: perché nonostante gli orrori e le storture del regime
sovietico della DDR nascoste dietro un’apparenza di giustizia sociale e
miseramente svelati al mondo intero dopo la caduta del Muro di Berlino
nel 1989 i cittadini della Germania dell’Est rimpiangono il socialismo e
disprezzano le ‘gioie del capitalismo’? Se il volto del socialismo è
stato a tratti spietato quello del capitalismo si rivela persino
peggiore: come un killer dai modi di fare ammalianti e cortesi ha prima
sedotto la prima vittima con promesse tanto allettanti quanto
irrealizzabili e poi l’ha attaccata e uccisa nel peggiore dei modi. È
allora inevitabile che, nel momento in cui in tanti si accorgono del
volto mostruoso del capitale, si riscopra il valore delle teorie
marxiste, specie quelle sulla lotta di classe, sia pure rivisitate, o
meglio di un Marx reloaded, come ha affermato con un abile gioco di
parole che richiama un noto film di fantascienza, il ‘pedagogista
critico’ Ramin Farahmandpur un paio di anni addietro in un saggio che si
interroga proprio sulla necessità di far studiare l’opera marxista
nelle scuole pubbliche per contrastare l’inarrestabile (quanto
deleteria) avanzata della sfrenata società capitalistica[6].
2. In questo contesto va collocata l’ultima fatica di Domenico Losurdo “La lotta di classe. Una storia politica e filosofica” [7]
che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista
imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi
dell’opus marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di
un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di
ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance
sui misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire
nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista mettendone in
evidenza luci ed ombre.
La domanda fondamentale da cui prende le mosse la riflessione di
Losurdo può essere riassunta nei termini seguenti: cosa intendono Marx
ed Engels per lotta di classe? Per rispondere a questo interrogativo
occorre innanzitutto sapersi orientare nei labirinti marx-engelsiani
alla ricerca di quei frammentari luoghi teorici da cui emergono,
nonostante l’evidente asistematicità, i principi-cardine di tale teoria e
rileggerli nel milieu in cui sono maturati.
Operazione a dir poco ardua che richiede, da un lato, una rigorosa
analisi logico-filologica dei testi marx-engelsiani e, in modo
particolare, del Manifesto e, dall’altro, un’articolata
disamina del contesto storico, non dimenticando che la stessa lotta di
classe – come sottolinea giustamente Losurdo – possa essere usata in
maniera strumentale dal potere dominante ed essere quindi inserita
nell’ambito di un progetto complessivo di segno conservatore e/o
reazionario, com’è stato efficacemente dimostrato di recente da Luciano
Gallino[8],
il quale identifica l’offensiva, messa in atto specialmente nell’ultimo
trentennio, dalle classi dominanti per ‘rovesciare’ a proprio
vantaggio, come una nuova lotta di classe atta a scardinare ogni conquista ottenuta dal basso in seguito alle vecchie lotte sociali.
Perciò la seria e dettagliata ricostruzione losurdiana, seppure non
sempre condivisibile, può costituire indubbiamente un utile filo di
Arianna per orientarsi nel dedalo marxiano della teoria della lotta di
classe che, agli occhi dell’Autore, si presenta come una teoria generale
del conflitto sociale, che operando una radicale rottura con le
ideologie naturalistiche colloca tale conflitto sul terreno della
storia. La conseguenza è che le innumerevoli forme in cui esso si
manifesta nella realtà non possono essere non tenute in debito conto.
Del resto, ciò si evince dalla scelta, nient’affatto casuale, operata da Marx ed Engels di utilizzare non il singolare Klassenkampf ma
il plurale Klassenkämpfe. A partire da questa arguta precisazione, la
lotta di classe non rinvia solo ed esclusivamente al conflitto tra la
borghesia e il proletariato. Quest’ultimo pertanto non è l’unica forma possibile della lotta di classe ma una delle possibili forme che essa può assumere concretamente nelle diverse epoche storiche. Riconoscere la dimensione plurale della
lotta di classe significa almeno ammettere che le tre grandi lotte di
classe emancipatrici sono: 1) la lotta per l’emancipazione del
proletariato; 2) la lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse; 3)
la lotta per l’emancipazione della donna.
Collocarsi sul terreno della comprensione storico-sociale comporta
però il rifiuto di ogni spiegazione che enfatizzi, in modo unilaterale,
elementi etnologico-razziali (esemplificati nella nota opera di Arthur
de Gobineau, Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane) o psico-patologici (si pensi alla Psicologia delle folle
di Gustave Le Bon) sottese ai paradigmi dominanti nella cultura
borghese della seconda metà dell’Ottocento che, in molti casi, finiscono
per intrecciarsi e sovrapporsi. E proprio contro la reductio agli
aspetti biologico-naturalistici degli appartenenti alle classi
subalterne, assimilati a barbari o addirittura a soggetti di rango
inferiore e la conseguente legittimazione dell’istituto della schiavitù,
che viene elaborata la teoria della lotta di classe. Ma quest’ultima,
Losurdo non si stanca mai di ripeterlo, va intesa non in maniera
grettamente economicistica (lotta per la redistribuzione) ma anche e
soprattutto come lotta contro i processi disumani e coercitivi che
caratterizzano la società capitalistica (lotta per il riconoscimento).
Innumerevoli sono le espressioni (anche forti) a cui ricorrono, molte
volte, nei loro scritti i due filosofi e militanti rivoluzionari per
denunciare le condizioni miserrime del proletariato che vanno ben al di
là dell’angusto orizzonte economicistico (come vuole la tradizione
liberale) coinvolgendo anche ogni ostacolo all’affermazione dell’uomo in
quanto tale e della sua dignità costantemente calpestata. Qui i
riferimenti filosofici a cui ricorre Marx sono piuttosto evidenti e sono
rintracciabili nel paradigma del riconoscimento di hegeliana memoria e,
in particolare, nella dialettica tra servo e padrone immortalata nelle
celebri pagine della Fenomenologia dello spirito. Se per un
verso Marx sembra far tesoro della grande lezione hegeliana che
considera l’individuo realmente libero solo quando riconosce e rispetta
l’altro quale individuo libero, per un altro la traspone dal piano
individuale a quello collettivo. La denuncia dell’antiumanesimo che
pervade il sistema capitalistico dunque non può ritenersi episodica o
marginale ma rappresenta una sorta di leitmotiv che attraversa
il pensiero di Marx ed Engels e non può essere affatto confusa con la
retorica umanistica. Ad incorrere in un siffatto errore è
stato, com’è noto, Louis Althusser, il quale aveva parlato di una
rottura epistemologica nell’opera marxiana, laddove Losurdo al contrario
scorge solo il passaggio a un ordine diverso del discorso nell’ambito
del quale «la condanna morale dei processi di reificazione insiti nella
società borghese e del suo antiumanesimo è espressa in modo più
sintetico ed ellittico»[9].
3. Ma l’elemento che più di ogni altra cosa emerge dal lavoro di
Losurdo è la costante attenzione riservata da Marx ed Engels alla
questione nazionale che molti studiosi marxisti sulla base del noto
passaggio tratto dal Manifesto in cui si afferma che «gli
operai non hanno patria», hanno liquidato in modo piuttosto frettoloso e
superficiale. A smentire un siffatto assunto basta sfogliare le
numerose pagine delle loro opere, rinvenibili in ordine sparso, dedicate
a tale questione e, nello specifico, alla lotta del popolo irlandese
contro il dominio degli inglesi da un lato e di quello polacco contro il
regime zarista dall’altro. Il significato politico-rivoluzionario di
tali lotte, al di là delle differenze, sta nel fatto che la questione
sociale si presenta quasi sempre come questione nazionale.
In particolare, il caso irlandese viene visto da Marx con favore per
la sua potenzialità di divenire una sorta di detonatore in grado di far
esplodere la rivoluzione anche altrove; invece, quello polacco si
presenta funzionale a fronteggiare la Russia zarista che all’epoca, per
il suo essere l’ultimo bastione della reazione in Europa, rappresentava
la principale minaccia verso la classe operaia e la democrazia. Non è un
caso che quest’episodio rimanga impresso nella memoria collettiva
grazie alla lapidaria affermazione di Lenin: «la Russia era ancora
addormentata mentre la Polonia era in fermento».
Allo stesso modo, come non dimenticare il trasporto con cui Marx
segue a più riprese le vicende dell’India definita, non a caso,
l’Irlanda dell’Oriente, in cui milioni di operai sono stati costretti a
sacrificare la propria vita non per garantire un futuro migliore al loro
paese quanto piuttosto – per riprendere l’amara constatazione dello
stesso Marx – «procurare al milione e mezzo di operai, occupati in
Inghilterra nella medesima industria, tre anni di prosperità su dieci»[10].
Ciò nonostante – Losurdo non manca di rilevarlo – in molti settori del
movimento comunista prevale una sorta di internazionalismo dai tratti
utopistici che mira a liquidare come falsi miti le identità nazionali.
Un esempio emblematico di tale forma mentis è l’atteggiamento
cinico e sprezzante dell’anarco-socialista francese Pierre-Joseph
Proudhon reo, a detta di Marx ed Engels, di aver irriso e condannato le
aspirazioni nazionali dei popoli oppressi.
Già da queste brevi notazioni si scorge come la loro passione verso
l’emancipazione delle nazionalità oppresse sia inscindibile da quella
per l’emancipazione del proletariato. Del resto, la vittoria della
Rivoluzione di Ottobre non si può comprendere – per parafrasare Walter
Benjamin – omettendo la rilevanza del sentimento nazionale che il
bolscevismo aveva sviluppato in tutti i russi senza distinzione di sorta
e che Losurdo ritiene essere addirittura una delle cause (rectius:
la causa) della disgregazione dell’impero sovietico. In ultima analisi,
eludere la questione nazionale vuol dire rovesciare il preteso
cosmopolitismo o internazionalismo in una sorta di sciovinismo acritico e
settario.
Un ulteriore aspetto che Losurdo sembra avere a cuore e sul quale si
sofferma nelle pagine conclusive consiste nella messa in guardia dalla
ricorrente tentazione populista che, al di là delle sue diverse
varianti, si basa sulla credenza mitologica del valore salvifico del
popolo. Credenza oggi ancora più pressante a causa della crisi teorica
che investe la dottrina marxista. In realtà, si tratta di un fenomeno
per niente inedito, in quanto la semplicistica lettura binaria del
conflitto la si ritrova, per esempio, già durante la rivoluzione
bolscevica, laddove l’emergere di un rozzo egualitarismo e un
altrettanto grossolano ascetismo universale è ciò che sembra accomunare,
al di là delle differenze, non solo il fervente cristiano Pierre Pascal
e l’operaio belga Lazarević ma molti altri seguaci del bolscevismo, tra
cui lo stesso Lenin come si desume dal tenore letterale di alcuni
discorsi pronunciati in questo periodo. Come non rammentare allora le
taglienti parole di Antonio Gramsci che, nel noto scritto La Rivoluzione contro il Capitale, si scaglia contro il collettivismo della miseria e della sofferenza?
Essa si ripresenta, in modo ancor più accentuato, negli scritti di
Simone Weil che tende a ridurre la lotta di classe alla riscossa degli
umili e dei reietti e che Losurdo, malgrado l’empatia che la filosofa
prova nei confronti del movimento operaio, rigetta ricorrendo a diversi
esempi storici (tra cui la Comune di Parigi e la guerra di secessione
americana) che dimostrano con estrema chiarezza la sua inadeguatezza,
vista la diversità dei soggetti che, a seconda delle situazioni
concrete, possono incarnare le istanze rivoluzionarie. Losurdo sembra
qui tenere ben a mente il celebre ammonimento marxiano: «non c’è nulla
di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice
socialista». Da ultimo, una forma più o meno latente di populismo
riemerge sia in alcuni lavori di Slavoj Žižek che non esita a
qualificare l’approccio di Weil, secondo cui solo i mendichi e reietti
sono in grado di dire la verità, come «semplice e toccante», sia negli
scritti di Antonio Negri e Michael Hardt, in cui il conflitto tra
l’impero e la moltitudine assume anch’esso un’intonazione di tipo
moralistico soprattutto quando si celebra l’eccellenza morale insita
nella figura del ribelle che rimane tale solo fino a quando si tratta di
liberare un popolo oppresso ed umiliato ma viene meno nel momento in
cui esso si dismette di tali panni.
4. La lettura del volume di Losurdo si rivela dunque utilissima
quanto affatto consolatoria: lo scenario che si presenta davanti ai
nostri occhi è, a dir poco, inquietante se si pensa che la storia
occidentale è stata costellata da brutali episodi, da cui emerge in
maniera costante la volontà di ridurre l’altro in schiavitù, sia in
forme più o meno palesi, sia in forme più o meno subdole. Nonostante i
facili trionfalismi diffusisi subito dopo la caduta del Muro di Berlino e
la conseguente dissoluzione dell’impero sovietico, nuove forme
di colonialismo e di imperialismo da parte dell’Occidente che, in
realtà, ricordano molto da vicino le forme di schiavitù
otto-novecentesche si stanno sempre più affermando.
Un’analoga riflessione suscita il riaffiorare, in molte metropoli, di una figura, a lungo negletta, come quella del working poor
appartenente a quella fascia di lavoratori che, pur percependo un
reddito, si avvicinano o si trovano al di sotto della soglia di povertà.
A dispetto di quanto si possa pensare, tale fenomeno non riguarda solo
coloro che per mancanza di qualifiche diventano ‘obsoleti’ rispetto ai
lavoratori più qualificati o in linea con l’avanzamento tecnologico, ma
paradossalmente colpisce soprattutto i giovani in possesso di rilevanti
curricula costretti in molti casi a ‘nascondere’ i propri titoli, pur di
svolgere lavori sottopagati e privi di prospettive e adeguate garanzie.
T
ale triste scenario non fa altro che smentire le rassicuranti litanie
sulla fine della lotta di classe nella società novecentesca avanzate
dal sociologo Ralph Dahrendorf, il quale all’inizio degli anni
Sessanta la riteneva un’anticaglia del passato da cui bisognava, prima o
poi, liberarsi o dal filosofo Jürgen Habermas che, invece,
alcuni decenni dopo, nel sottolineare, ancora una volta, che il
superamento di tale conflitto era addirittura risalente agli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale con l’avvento
dello Stato sociale, ometteva un particolare non trascurabile, cioè le
lotte che avevano contribuito all’edificazione di quest’ultimo. In
realtà, già agli albori dell’Ottocento si era diffusa una corrente di
pensiero che sosteneva, dopo il tramonto dell’Ancien Régime e
l’avvento della società borghese, l’inesorabile tendenza verso il
livellamento delle differenze e l’inutilità della lotta di classe. Ben
lungi dall’aver eliminato i conflitti di classe come pensavano John
Stuart Mill e Alexis de Tocqueville, la società borghese – come scrivono
Marx ed Engels – in realtà non aveva fatto altro che riproporli in
forme nuove, acuendo, sia a livello nazionale che internazionale, le
diseguaglianze.
La dura lezione che possiamo trarre da queste tragiche vicende, di
cui Losurdo ripercorre sia i passaggi più conosciuti e studiati, sia
quelli dimenticati e condannati all’oblio, in cui le innumerevoli lotte
di classe, sviluppatesi a cavallo tra Otto e Novecento, assumono le
sembianze più disparate (guerre di resistenza o di liberazione
nazionale, insurrezioni o rivoluzioni anticoloniali) sta nel fatto che
esse, al di là dei distinguo, sono accomunate dall’essere
sempre state lotte nazionali e vanno condotte non solo sul piano
politico ma soprattutto su quello economico.
L’esempio paradigmatico, a cui ricorre più volte l’Autore, è quello
della nascita di Haiti, a proposito della quale vengono rievocate le
gesta di Touissant Louverture che capeggiò la rivoluzione degli schiavi
avvenuta alla fine del Settecento a Santo Domingo e la cui eco andò ben
oltre i confini del piccolo paese sud americano, innescando un processo a
catena di abolizione della schiavitù. La grande vittoria politica
ottenuta sconfiggendo uno degli eserciti più potenti del mondo come
quello napoleonico è stata tutt’altro che duratura, poiché il
sistematico isolamento diplomatico e la persistente offensiva economica
da parte degli USA e degli altri paesi occidentali hanno provocato il
collasso del paese sud americano. Forse per evitare che la storia si
ripeta, Losurdo si concentra sul caso cinese e la sua ascesa
nell’attuale scenario geopolitico globale che segna, per molti versi, il
tramonto dell’epoca colombiana contrassegnata da secoli di dominio
incontrastato dell’Occidente e la radicale messa in discussione della
divisione internazionale del lavoro imposta dal capitalismo.
Lo spettro della lotta di classe che il pensiero mainstream sembrava
dunque aver esorcizzato definitivamente è nuovamente sotto gli occhi di
tutti, come evocativamente afferma di recente il corrispondente da
Pechino Michael Schuman sul Time, in un articolo intitolato Marx’s Revenge: How Class Struggle is Shaping the World[11],
in cui, anche sulla base dei risultati di un accurato studio
dell’Economic Policy Institute (EPI) di Washington, riconosce il ruolo
profetico di Marx nella teorizzazione dei guasti del sistema
capitalista: l’impoverimento crescente delle masse e la concentrazione
della ricchezza nelle mani di pochi genera conflitti sempre più
stridenti tra le classi sociali.
Aver narrato i fasti di questa tormentata storia, attraverso la
proposta di un’altra narrazione alternativa a quella dominante, è
l’indubbio merito di Losurdo, che coglie altresì nel segno quando invita
provocatoriamente i magnati del capitale e della finanza a rileggersi,
di prima o di seconda mano, Marx. Ma il suo limite sta nell’aver
affrontato solo di sfuggita la questione ecologica che appare oggi un
indispensabile terreno di confronto a sinistra, quantomeno se si
vogliano, anche in questo caso, sviluppare criticamente le intuizioni di
Marx ed Engels, riconoscendo accanto alla prima contraddizione
(capitale/lavoro) anche la seconda (capitale/natura). Se tali idee sono
ancora vive e feconde non è forse il caso di considerare le lotte
ambientaliste intese lato sensu (ivi compresa quella per la tutela dei beni comuni) come l’ultima ed inedita frontiera della lotta di classe?
NOTE
[1] D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari, 2013.
[2] http://www.time.com/time/specials/packag…
[3] http://www.economist.com/node/20019767
[4] http://www.guardian.co.uk/books/2008/oct…
[5] http://www.reuters.com/article/2008/10/1…
[6] R. Farahmandpur, Teaching against Consumer Capitalism in the Age of Commercialization and Corporatization of Public Education, in J.A. Sandlin, P. McLaren (a cura di), Critical Pedagogies of Consumption, Routledge, London-New York, 2010, pp. 58-66.
[7] D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari, 2013.
[8] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[9] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 91.
[10] Ivi, p. 12.
[11] http://business.time.com/2013/03/25/marx…
Riccardo Cavallo svolge attività didattica e di ricerca con
la cattedra di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di
Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. La sua tesi
dottorale si è aggiudicata nel 2005 il Premio di filosofia “Viaggio a
Siracusa”. Tra le sue pubblicazioni più rilevanti le monografie: L’antiformalismo nella temperie weimariana (Giappichelli, 2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del moderno (Bonanno, 2007).
Rete per l'Autorganizzazione Popolare - http://campagnano-rap.blogspot.it
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mercoledì 28 agosto 2013
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