giovedì 29 agosto 2013

Giulio Cavalli, perché è odiato dalle cosche del Nord

"Scassaminchia". Giulio Cavalli, attore, scrittore e politico nato a Milano 36 anni fa, è per le mafie del Nord uno "scassaminchia" e per questo andrebbe eliminato. Alle cosche non vanno giù, i suoi spettacoli dove porta in scena, e ridicolizza, i riti mafiosi. Non accettano la sua attenzione nel fare nomi e cognomi. Vogliono stroncare la carriera, e la vita. Ma nonostante la scorta gli spettacoli continuano. E le intimidazioni pure. Sotto scorta, a tempo pieno, dal 27 aprile 2009.
Alle cosche non andavano, e non vanno giù, i suoi spettacoli, come "Do ut Des", dove porta in scena, e ridicolizza, i riti mafiosi, realizzato grazie alla collaborazione con il comune di Lodi e quello di Gela (guidato allora da Rosario Crocetta). Non accettano la sua attenzione nel fare nomi e cognomi, nell'unire i punti e le relazioni, la precisione con cui dal 2008 anima "Radio Mafiopoli", una trasmissione nata sull'esempio di Radio Aut di Peppino Impastato. Vogliono stroncare la carriera, e la vita, di quel venditore di surgelati, poi materiali elettrici, poi fibra ottica, di Lodi, che ha creduto a tal punto nella sua passione per il teatro d'inchiesta da farlo diventare un lavoro, partendo nel 2007 con 'Kabum!', uno spettacolo sulla Resistenza, e con "Linate 8 ottobre 2001" resoconto dell'incidente aereo costato la vita a 118 persone. 

Basta parole: adesso salvatemi

l'Espresso di Giulio Cavalli
«Per un mese ho ricevuto tante pacche sulle spalle. Adesso sento il boss Bonaventura dire che ci sono dei politici tra quanti hanno deciso di uccidermi. E attorno a lui, il silenzio: che è il foyer perfetto per la tragedia»

 
Questa mattina mi sono svegliato leggendomi nelle parole del pentito Luigi Bonaventura che parla di politici lombardi informati del piano che avrebbe dovuto uccidermi.

Un'altra volta: un mese fa sempre l'ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone aveva descritto minuziosamente il piano che avrebbe dovuto uccidermi.

Un mese fa mi era scoppiata in mano la paura, pensavo di esserci abituato e invece no: la paura ti scoppia in faccia ogni volta con una forma diversa e non riesci proprio ad abituartici, forse meglio così.

Ma leggendo le parole di Bonaventura oggi (e ascoltandolo) mi si accende la rabbia. Rabbia vera, rabbia da scassaminchia nella rilettura di questo ultimo mese di solidarietà come popcorn mentre si proietta il nulla.

Luigi Bonaventura è un collaboratore di giustizia ritenuto "altamente affidabile" dalle Procure di mezza Italia. Ora decide di svelare un disegno che è mafioso ma anche politico per l'eliminazione di qualcuno (lasciamo perdere che sia io, non è importante, ora) e richiama dati, persone e luoghi che sono facilmente riscontrabili davanti ad un magistrato.

Oggi Bonaventura ha anche dichiarato di essere pronto a giocarsi la propria credibilità con queste sue affermazioni e si dichiara disponibile ad uscire dal programma di protezione nel caso in cui non siano riconosciute veritiere.

In un Paese normale (ma noi non siamo un Paese normale) in questo ultimo mese l'ex boss sarebbe stato trascinato davanti ad un magistrato per dire tutto quello che sa (e tutto in un colpo solo, magari) e ci avrebbero già detto se è folle, sincero, manovrato o coraggiosissimo. In un Paese normale, certo: in questo ultimo mese ho incassato solidarietà, tanta, come se piovesse, e più di qualcuno mi dice che dovrebbe bastarmi così.

E invece no, grazie, grazie no, la solidarietà non è affar di Stato ma è movimento di società civile che pretende risposte: rivendermela come una risposta che mi dovrebbe bastare è un gioco da pacchisti di altri tempi.

Non me ne frega più niente a questo punto della solidarietà, non mi serve più avere le pacche sulla spalla come un frate missionario che ha fatto voto di 'pericolo' e va rispettato anche solo per questo, basta, no, grazie: ora voglio sapere se il ministro Alfano, la destra, la sinistra, il Movimento 5 Stelle, il governatore Maroni, il 'lombardo' Ambrosoli e tutti quelli che hanno ruolo politico in terre interessate da questa storia hanno intenzione di fare qualcosa.

Qualcosa di più di una telefonata perché quella no, non mi protegge dagli attentati.

Vorrei capire se ancora non abbiamo capito che il silenzio è il foyer perfetto per la tragedia e davvero non abbiamo imparato che il silenzio è complice.

Se succederà qualcosa sarà colpa dei silenti. Se Bonaventura arriverà in ritardo con l'appuntamento dei riscontri dovuti o se dovrò perderci la testa dietro a questa paura.

Ditemi che rischio e mi difendete o che il pentito è un bugiardo: il resto è per i ciarlatani.

Non mi interessa essere un eroe, mi interessa riconoscere uno Stato organizzato, non solo organizzata la criminalità.

E' troppo?

Per me, i miei famigliari e i miei figli è il minimo indispensabile. "Agibilità sociale", direi, se serve un buon titolo per i giornali.
di Francesca Sironi


La conferma è arrivata il 3 agosto, in una videointervista al pentito Luigi Bonaventura, che racconta come le cosche fossero pronte a ucciderlo, simulando un incidente.

Un attentato preparato nei dettagli da affiliati «senza alcun accento» con l'obiettivo di eliminare una volta per tutte quello "scassaminchia" che da anni denuncia e racconta la presenza della mafia in Lombardia. «Caro @giuliocavalli, le tue battaglie sono le nostre battaglie. La tua vita la nostra. Non sei solo e non lo sarai mai» ha scritto su Twitter l'associazione Tilt, legata a Sinistra Ecologia e Libertà, il partito con cui Cavalli si è candidato alle ultime elezioni regionali. Per sostenerlo Tilt ha lanciato #untweetpergiulio, una campagna di solidarietà che ha raccolto, tra gli altri, i messaggi di Umberto Ambrosoli e Pietro Grasso, oltre le dichiarazioni istituzionali di Sonia Alfano e Antonio Ingroia.

Per l'attore le dichiarazioni di Bonaventura non sono però che l'ennesima conferma di un'attenzione che lo tiene sotto scorta, a tempo pieno, dal 27 aprile 2009. Sulla porta d'ingresso del teatro che dirigeva, in provincia di Lodi, spuntò il disegno di una bara. Ennesima minaccia dopo i furti, i messaggi di morte, le ruote tagliate, gli avvertimenti.



Nonostante la scorta gli spettacoli continuano. E le intimidazioni pure.

Nel 2009 debutta a Napoli "L'Apocalisse rimandata, ovvero benvenuta catastrofe" di Dario Fo e Franca Rame, dove Cavalli sale sul palco come attore. Lo stesso anno realizza con Gianni Barbacetto "A cento passi dal Duomo", «Una ninna nanna dolce per un risveglio brusco di quella Lombardia che si crede immune dalla mafia» e porta al festival Teatri della Legalità "Nomi, cognomi e infami", in cui racconta i soprusi della camorra campana. Inizia anche l'attività politica, candidandosi con Italia dei Valori alle Regionali del 2010. In campagna elettorale, porta l'apocalisse di Fo al teatro Oscar di Milano. E ventitré proiettili vengono trovati di fronte all'ingresso della sala.

Cavalli, eletto nel frattempo consigliere regionale, è scomodo. Continua ad esserlo, e per questo viene seguito 24 ore su 24 da due carabinieri armati. La mafia lo combatte coi suoi mezzi. Le minacce, ma anche la delegittimazione.

Come racconta nell'ultima intervista lo stesso Bonaventura, le cosche mettono in campo tutti gli strumenti possibili per isolare l'attore lombardo. Fanno circolare la voce che lui sia la mafia nell'antimafia. Un pallone gonfiato. Un ragazzo troppo pieno di sé.

Cavalli scrive un altro libro, "L'innocenza di Giulio", 176 pagine di biografia puntuale di Giulio Andreotti e dei suoi trascorsi giudiziari, pubblicato l'anno scorso da Chiarelettere sulla traccia di uno spettacolo teatrale.

E oggi, dopo la sconfitta alle ultime elezioni regionali, continua a nutrire il suo blog e la newsletter di spunti, analisi e riflessioni, che non staccano la presa dall'obiettivo: fare luce sulla presenza delle mafie al Nord. Sul suo sito, dopo le dichiarazioni di Bonaventura, ha ricordato: «Ora ci si mette al lavoro. Aspettiamo di sapere la reazione delle istituzioni. Si continua a raccontare come possiamo. Cerchiamo di unire i puntini. Ostinatamente. Come gli scassaminchia, eh».

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