Dalla guerra alla moneta, andata e ritorno
Scritto da Francesco RaparelliGli hedge funds fuggono dai mercati nei paesi emergenti; la flotta americana si concentra nel Mediterraneo orientale. Intanto la Siria e l'Egitto bruciano. Quale rapporto tra crisi economica e catastrofe bellica a venire?
Forse non c’è alcuna correlazione tra le dichiarazioni di Obama sulla
Siria e le indicazioni, ancora lacunose, di Bernanke sulla sospensione
delle operazioni di Quantitative easing (85 miliardi di dollari al mese
con cui la Fed, da almeno un paio d’anni, acquista T-Bond e inonda i
mercati di liquidità). Forse.
E magari è casuale che anche in questa occasione, come fu con
l’intervento militare anti-Gheddafi, Russia, Cina e Germania siano
ostili al bellicismo anglo-francese e americano. Magari no.
Sarà sicuramente irrilevante, per il futuro che appare catastrofico
della Siria e del Medio Oriente tutto, che la crescita cinese si è quasi
arrestata e in soli tre mesi, a partire da maggio, quando Bernanke ha
segnalato l’inversione di rotta della Fed, 46 miliardi di dollari sono
fuggiti dai mercati obbligazionari e azionari dei paesi emergenti,
imponendo a Brasile, India e Indonesia la mobilitazione totale delle
proprie banche centrali per evitare un crollo delle valute simile a
quello del ’97. O non lo è per nulla.
Non so ancora afferrare in modo completo le spinte telluriche che
stanno agitando il nostro mondo malato, mi limito a rilevare alcune
evidenze (a me sembrano tali) che i fatti di queste settimane ci
consegnano.
In primo luogo la crisi. L’esodo della moneta (e dei padroni) dal
rapporto di produzione comincia a toccare il suo limite. Non ci sono
dubbi, il capitale sta utilizzando fino in fondo la crisi per
svalorizzare il lavoro, dall’attacco ai salari e ai redditi al
saccheggio del welfare, ma, a forza di scavare, il fondo non può che
diventare la superficie. Le lotte operaie in Cina, le rivolte brasiliane
e turche stanno lì ad indicarla questa nuova, ruvida, superficie. Come
nel 2008, negli Us, è emerso in primo piano il limite dell’indebitamento
di massa, così negli emergenti le lotte dei poveri si qualificano come
il limite della svalorizzazione del lavoro.
In secondo luogo l’America. La fine della sua egemonia è ormai un
fatto, il fallimento di Morsi è soltanto l’ultimo dei sintomi.
Occorrerebbe dire la verità sull’Afghanistan, l’Iraq e il Libano, e sono
pochissimi i quotidiani e i commentatori che lo fanno, per smarrire
ogni dubbio: non solo è stato sconfitto il golpe buschista e neocon, ma
il multilateralismo obamiano naviga a vista, tanto è complicato
l’interregno multipolare nel quale siamo immersi. Il richiamo di Obama
al Kosovo, ai 78 giorni di bombardamenti resi possibili, ricordiamolo,
dallo zelante coinvolgimento italiano (presidente del Consiglio era
D’Alema e non Berlusconi), raccoglie l’ostilità tedesca, oltre a quella
sino-russa. Il mondo sta davvero cambiando.
In terzo luogo l’Europa. Con Bush o con Obama, con la Nato o senza,
sembra evidente che in politica estera, oltre che negli affari, la
Germania, locomotiva dell’Eurozona, preferisce l’apertura a Oriente
piuttosto che la stretta atlantica. L’attacco speculativo dei mercati
finanziari si è placato, tutto tace in attesa del 22 settembre, le
elezioni tedesche appunto, eppure l’Europa è tutt’altro che robusta.
Confondere lo spostamento degli hedge funds dai mercati degli emergenti
all’Europa come un segno di salute significa mentire o, semplicemente,
essere degli imbecilli (per quanto riguarda Letta e il suo ottimismo
direi che ci troviamo di fronte al secondo caso).
Infine il mondo arabo e il Medio Oriente. Il Termidoro egiziano, con
il punto di non ritorno del 14 agosto, ci interroga, interroga chiunque
voglia riflettere oggi sulla trasformazione radicale. Lo fa in modo
elegante Zizek, che poi, come un tic nervoso, chiama in causa Hegel e
Badiou. Poveri noi. Ma la questione è decisiva: cosa significa potere
costituente dentro e oltre le rotture destituenti? In Europa siamo assai
lontani dal problema, almeno per ora, ma le fratture che continuano a
segnarla ci presentano uno scenario tutt’altro che chiuso. Una rigorosa e
appassionata prassi della congiuntura (l’unico modo di dire Lenin), ciò
che occorre coltivare, senza sosta. Cosa sarà, poi, la possibile
destituzione manu militari di Assad, ha per adesso il sapore del
mistero. La frammentazione del fronte ribelle e il prevalere di spinte
fondamentaliste prepara il caos. Per non parlare dell’eventuale reazione
iraniana…
Con troppa facilità, abbiamo visto nella fine di Bush l’esaurimento
della spinta bellica dentro il mondo multipolare. La possibile guerra in
Siria, tutt’altro che locale, ci impone di riflettere nuovamente,
invece, sul rapporto tra guerra e crisi economica. Farlo per tempo,
forse, può illuminare la prassi politica dei movimenti, che altrimenti
rischia di perdersi, ancora una volta, tra paralisi e testimonianza.
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