Non è un paradosso che la vittoria della "libertà" sul "socialismo reale" sia sfociata della società dei divieti multipli. Dal calcio al governo amministrativo del teritorio, qualunque omuncolo temporaneamente in possesso del potere ha fatto ricorso ai "divieti" per far vedere la propria capacità di governare. Pensate ai sindaci leghisti, al muro padovano di Zanonato, la furia con cui è stata incentivata la"produzione di contravvenzioni", ecc.
Nel calcio moltiplicazione dei capitali e incremento della "disciplina" sono andati di pari passo, giustificandosi a vicenda, come in un laboratorio per oltre venti anni depurato di altre condizioni a contorno (altri radicalismi, altre dinamiche conflittuali di massa, ecc). Questa recensione prodotta dai compagni fiorentini di CortoCircuito ci sembra utile per ripercorrere brevemente il modo di formazione di un dispositivo repressivo di carattere generale (estensibile insomma a tutti gli ambiti, come si è potuto verificare con la pioggia di "fogli di via" contro il Movimento No Tav) per pure ragioni di profitto.
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Nedo Ludi è un giocatore di calcio, stopper di razza, difensore d’altri tempi. Nedo Ludi è un professionista che gioca in serie A, ma non è un campione (o un “top player” come si usa dire oggi). Nedo Ludi guadagna bene: 60 milioni di lire nel 1989, ma non è certo una star, né a mai fatto il “testimonial” di qualcosa ( probabilmente neanche sa cosa voglia dire “testimonial”). Nedo Ludi nasce in una famiglia operaia e comunista, a Montelupo fiorentino, tra Empoli e Firenze. Nedo Ludi è un “uomo vero” nato per ingaggiare epiche battaglie da “uomini veri” contro i centravanti avversari, il suo lavoro è questo: appiccicarsi al numero 9 avversario, non dargli respiro, non farlo segnare. Nedo Ludi è un ragazzo ingenuo e non si accorge di quello che gli capita intorno. Il calcio è stato infestato da una nuova “specie”, che darwinianamente soppianterà la vecchia, quella a cui Nedo appartiene. È il tempo dei grandi predicatori del “nuovo calcio”, capitanati da quell’Arrigo Sacchi che aveva appena portato la Coppa dei Campioni a Milano, in casa Fininvest. È il tempo del “gioco a zona”, della “mentalità offensiva”, dell’“intensità di gioco”, del “progetto di squadra”, di tante parole che Nedo Ludi, stopper di razza, non capisce, abituato a mordere le caviglie del numero 9 avversario, senza tante storie né discorsi. Nedo Ludi deve sopravvivere, deve lottare per la sua sopravvivenza. Nedo Ludi è Ned Lud, il mitico fondatore del movimento luddista, e come lui è costretto a sabotare la macchina che riduce i “veri uomini” a meri ingranaggi della macchina
Il mio nome è Nedo Ludi è un romanzo uscito
nel 2006, scritto da Pippo Russo, giornalista sportivo e docente di
sociologia presso l’Università di Firenze. Nella storia l’autore mescola
elementi di fantasia in un contesto reale: quello dei grandi
cambiamenti che investirono il calcio come gioco e come industria tra
gli anni ’80 e ’90.
La nascita del cosiddetto “calcio moderno” è un
fenomeno che è stato analizzato principalmente dal punto di vista del
pubblico, dei tifosi, degli ultras in particolare.
L’inizio degli anni 90 è anche lo stesso periodo in cui le televisioni entrano nel mondo del pallone. Con la vendita dei diritti tv si ha un’immissione di capitali senza precedenti nell’industria del calcio,
che diventa così uno spettacolo troppo importante (poiché immensamente
remunerativo) affinché si possano lasciare indisturbati quei
rompiscatole degli ultras che non cessano un secondo di contestare
società e allenatori, di aspettare fuori dagli allenamenti giocatori non
considerati degni di “indossare la maglia” e di fare a botte ovunque. I
ragazzi delle curve sono gli unici a rifiutare il grande circo
miliardario sviluppatosi attorno a un gioco che sentono appartenere a
loro e sul cui palcoscenico rivendicano il diritto a un protagonismo
incompatibile con le esigenze di uno spettacolo televisivo “per
famiglie” e quindi vendibile. I fatti di piazza Savonarola dell’estate del 1990 sono esemplificativi di quanto detto.
Del 1989 infatti è quella legge poliziesca che introduce il daspo
per chi sia anche solo sospettato di aver commesso un reato, o anche
solo un’irregolarità, dentro o fuori lo stadio, durante, prima o dopo la
partita. Da lì ha inizio quel delirio repressivo che troverà il suo
culmine nel decreto Amato del 2007 (proibizione di tamburi, fumogeni e
megafoni e introduzione della censura preventiva sugli striscioni)
proseguendo con quell’abominio giuridico che si chiama Tessera del
tifoso.
Rispetto a questo scenario, su cui si è detto e ridetto, Il mio nome è Nedo Ludi aggiunge degli elementi ulteriori spostando il focus su
quegli stessi calciatori che sono spesso visti come dei beneficiari del
“calcio moderno,” grazie al quale sono diventati ricchissimi
protagonisti dello star system. Alle grandi trasformazioni che avevano luogo intorno al
campo di gioco però si accompagnò una rivoluzione tutta interna al
rettangolo verde che per molti professionisti del pallone fu tutt’altro
che indolore. Si opponevano allora due visioni di calcio: una
“tradizionalista” e una “innovativa” che, semplificando, si rifacevano
la prima al gioco a uomo, la seconda al gioco a zona. Non
si trattava però solo di una diversa tattica di gioco, bensì di una
vera rivoluzione culturale in cui i calciatori dovevano subordinare le
proprie capacità tecniche individuali ai meccanismi della squadra che,
sotto la guida dell’allenatore “offensivista” e “innovatore”, doveva
muoversi perfetta come una macchina. I
ruoli del vecchio calcio diventano così obsoleti: lo stopper, il
libero, il mediano marcatore, che siano “brocchi” o buoni giocatori,
semplicemente non servono più, o ti adatti o sei fuori.
Nedo Ludi si trova così ai margini della squadra,
incapace di adattarsi a quei movimenti di gioco che castrano la grinta e
l’estro individuale del suo essere calciatore. La nuova cultura
calcistica se da un lato esaltava il valore del collettivo rispetto a
quello dell’individuo, dall’altra mirava a rompere quei legami di
rispetto e solidarietà che si formavano all’interno dello spogliatoio.
L’unico interlocutore diventa l’allenatore, l’oracolo del nuovo calcio,
il profeta di quel concetto astratto che è il progetto. Un po’ come succede nelle grandi aziende dove il fare team, occulta il reale rapporto di subordinazione individuale al capo e a quell’entità astratta che è l’azienda stessa.
Nedo Ludi, tuttavia, essendo un “vero uomo” non
poteva non ribellarsi a tutto ciò. In seguito all’incontro con uno
studente di filosofia marxista, fuoricorso e sociopatico prende coscienza della propria situazione e, immedesimandosi in Ned Lud decide che è tempo di prendersi la propria rivincita, è tempo di sabotare la macchina del gioco a zona…
Il mio nome è Nedo Ludi è un romanzo gradevole che ci sentiamo di consigliare in primis
agli appassionati di calcio. L’unica grave pecca è un epilogo retorico,
lacrimevole, assolutamente inutile ai fini della storia e in cui la
prosa perde quella sobrietà che l’aveva contraddistinta, ma fatta
eccezione per quest’ultime 30 pagine, vale sicuramente la pena di esser
letto.
da inventati.org/cortocircuito
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