domenica 4 agosto 2013

L’accettabilità sociale dell’economia

Se il pendolo temporale degli interessi oscilla tra “pubblico” e “privato”, allo stesso modo si potrebbe dire che quello dei caratteri segue una traiettoria tra due estremi, rappresentati da “conformismo” ed “anticonformismo”. Quando arrivano le stagioni del non conforme, giunge anche il momento dei grandi irregolari.



micromega di Pierfranco Pellizzetti

«I mercati non hanno orecchie per
informazioni che parlino un linguaggio
diverso da quello dei prezzi»

Jűrgen Habermas[1]  

«Alcuni scienziati sociali… accusano
gli economisti di aver immaginato,
estendendola a tutte le altre attività
umane, un’analisi che è appropriata
solo per il mercato, che la coda possa
dimenare il cane»

Albert Otto Hirschman[2]

Pensatori, in passato, non di rado mitteleuropei, che gli anni di ferro e di fuoco del secolo breve trasformarono in migranti cosmopolitici. Come il recentemente scomparso Albert Otto Hirschman, studioso tedesco fuori da ogni schema, giunto a Princeton passando per Trieste, e Karl Polanyi, l’ungherese formatosi nella Vienna del suo discussant Ludwing von Mises e dell’amico di famiglia Karl Popper, in transito da Londra per raggiungere la Columbia University. Tipi umani con una particolare attitudine all’ecclettismo, dunque a ibridare discipline diverse grazie all’apertura mentale indotta – spesso malgré soi – dal proprio nomadismo biografico.

L’economista Polanyi è storico, sociologo e perfino antropologo. Competenze che si fondono al meglio nella sua opera più nota – “La grande trasformazione”, del 1944 – con cui si ricostruiscono i fondamenti della civiltà del diciannovesimo secolo: l’ordine imperante durante la pace dei cento anni (1814-1914), poi sbriciolato dalla successiva guerra dei trent’anni (1914-1945) in cui si consuma la catastrofe dell’egemonia europea. Ossia l’equilibrio del potere tra potenze continentali, il sistema aureo internazionale come cardine dell’economia mondiale unificata, lo stato liberale. Il tutto cementato dall’ideologia del «mercato autoregolantesi che produceva un benessere economico senza precedenti»[3].

Un ordine borghese di cui – con le parole della figlia Kari Polanyi-Levitt – «un fuoriuscito dal mondo borghese» scorge l’intima follia. E la follia è la riduzione dell’intera società alla pura e semplice dimensione economica. La nascita di un soggetto astratto quale l’homo oeconomicus, che induce visioni devastanti per il contesto naturale ed umano («il laissez-faire non era un metodo per conseguire qualcosa ma era la cosa da conseguire»[4]). Sebbene lo stesso Padre Fondatore Adamo Smith fosse di parere contrario: «Il capitalismo di per sé non generava i valori che rendono possibile il suo successo; li eredita dal mondo precapitalista o non capitalista, oppure li prende a prestito (per così dire) dal linguaggio della religione o dell’etica. Valori come la fiducia, la fede, la credenza nell’affidabilità dei contratti»[5]. Ma Smith non era un fondamentalista mercatista, a differenza di tanta parte dei suoi catastrofici epigoni…

Catastrofi che si riproducono puntualmente tutte le volte che l’economicismo si impone come criterio imperante. Tutte le volte in cui si constata quanto prefigurava Pierre Bourdieu: «La scienza che si chiama “economia” riposa su un’astrazione originaria, che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa»[6]. Contro questa infezione mentale Polanyi funziona come un formidabile antidoto. Sicché è particolarmente meritoria l’iniziativa editoriale del Saggiatore di pubblicare una serie di testi, inediti a livello mondiale, che testimoniano l’evoluzione intellettuale di quest’altro grande irregolare lungo l’arco di un quarantennio (1919-1958): “Per un nuovo Occidente”.

Autore di non facile inquadramento, il Nostro. Liberalsocialista, come altri borghesi critici (pensiamo al nostro Carlo Rosselli)? Di certo negli anni della sua formazione era all’ordine del giorno, per giovani menti inquiete e generose, la ricerca di una terza via tra «il mercato anarchico dell’economia di profitto capitalistico e il dirigismo centralistico di stampo comunista».

Per un occidentale di matrice borghese, significava mettere in discussione le pretese dell’economia classica e neoclassica di rappresentare “la verità ultima” per la vita e la natura umana. Quella che con l’abituale ironia di Hirschman si potrebbe definire una «freudiana invidia della fisica» da parte degli economisti, «ossia l’impulso a descrivere il mondo sociale ed economico mediante un sobrio e trasparente sistema di equazioni. […] Data l’importanza del ferro – simbolo dell’industria e della potenza – nell’Ottocento, per i primi economisti non era abbastanza uscirsene con una legge: doveva essere una “legge ferrea”. L’imitazione di Newton e specialmente della sua meccanica»[7].

Ciò comportava al tempo stesso la riscoperta della società: il che ritorna particolarmente attuale in quest’epoca storica agli sgoccioli – il quarantennio reaganiano-thatcheriano detto NeoLib – su cui aleggia il motto (demenziale) della cosiddetta signora di ferro: “la società non esiste”. Così, parole pronunciate nel lontano 1958 si rivelano persino profetiche: «La fame e il profitto vennero isolati come “moventi economici” e si iniziò a presumere che l’uomo agisse, in concreto, in base a essi, mentre le altre motivazioni apparivano più eteree e distaccate dai fatti prosaici dell’esistenza quotidiana. L’onore e l’orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza, furono ora ritenuti irrilevanti per i rapporti produttivi e significativamente compendiati nella parola “ideale”»[8].

Sotto la spinta di poderose forze autodistruttive si sta prefigurando una nuova crisi della civiltà occidentale; e Polanyi ci indica la via per evitare la catastrofe ritrovando le ragioni basilari dell’antica civilizzazione, i suoi fondamenti morali: «I tre fatti costitutivi della coscienza dell’uomo occidentale: la consapevolezza della morte, la consapevolezza della libertà, la consapevolezza della società»[9].

La salvezza dell’Occidente e dell’intero pianeta passa attraverso la fuoriuscita dalle trappole mentali in cui siamo imprigionati. Una coazione a ripetere che sembra non tenere conto dell’evidenza, eppure chiarissima agli occhi di Karl Polanyi: «L’intero meccanismo è destinato a incepparsi, ponendo l’umanità di fronte all’immediato pericolo della disoccupazione di massa, dell’interruzione della produzione, della perdita dei redditi e, conseguentemente, dell’anarchia sociale e del caos»[10].

Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente, a cura di Giorgio Resta e Mariavittoria Catanzariti, il Saggiatore, Milano 2013
NOTE
[1] J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999, pag. 78
[2] A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino, Bologna 1995, pag. 27
[3] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, pag. 5
[4] Ivi, pag. 178
[5] T, Judt, Novecento, Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 331
[6] P. Bourdieu, Le strutture sociali dell’economia, Asterios, Trieste 2004, pag. 17
[7] A. O. Hirschman, Autosovversione, il Mulino, Bologna 1997, pag. 171
[8] K. Polanyi, Per un nuovo Occidente, pag. 60
[9] K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pag. 319
[10] K. Polanyi, Per un nuovo Occidente, cit., pag. 274

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