George Herbert Bush è morto e, nella nostra tradizione, ci guardiamo bene dal rispettare il comandamento ipocrita del parce sepulto. Una carogna è una carogna è una carogna, e l’essere andato all’altro mondo – destino comune di tutti i viventi – non cancella le infamie commesse in vita.
Media mainstream e telegiornali ne hanno tessuto le lodi come guerriero, petroliere, capo della Cia (!), ambasciatore, presidente degli Stati Uniti “purtroppo” per un solo andato, causa la crisi che lo costrinse ad infrangere la sua unica – e perciò famosa – promessa elettorale: “basta aumenti delle tasse”. Omettono di ricordare che fin lì, nella tradizione anglosassone, in campagna elettorale non era “appropriato” parlare di tasse, per il buon motivo che tutti sono capaci di prometterne la diminuzione, ma è poi la congiuntura economica che ti obbliga a fare quel che si può.
Il tono mieloso e vagamente infame con cui viene ricordata la prima guerra del Golfo (una trappola fatta scattare per Saddam – storico alleato Usa nella guerra per procura contro l’Iran – che aveva praticamente ricevuto il via libera da Washington per l’invasione del Kuwait, reo di fregargli il petrolio dai giacimenti sul confine), il ruolo giocato nella “fine della guerra fredda” e successiva caduta dell’Urss, ha messo sullo sfondo altre imprese del fu presidente amerikano.
Una su tutto merita di essere ricordata nel giorno della morte, perché sia è trattato della sua sconfitta più dura contro il nemico sulla carte più debole. Cuba.
Nessuno degli zerbini redazionali che hanno riempito colonne di piombo in queste ore ha infatti ritenuto opportuno di ricordare diverse “imprese” che ne avrebbero ridimensionato non poco la “grandezza”.E magari sollevato qualche dubbio sulla sua rapidissima santificazione.
Ci sembra perciò obbligatorio ricordarne alcune.
Quella più indicativa riguarda il suolo ruolo come co-organizzatore del fatllico attacco a Cuba passato alla storia come Baia dei Porci. Uno sbarco messo in atto da cubani anticastristi addestrati, finanziati, e supportati dalla Cia (di cui era ai vertici, pur gestendo già una propria compagnia petrolifera denominata “Zapata”). L’attacco avvenne utilizzando truppe “terze” per non scatenare la reazione sovietica (allora infatti c’era l’Urss, e vigeva “l’equilibrio del terrore”).
Cuba rimase un suo incubo, ma per quanto si sia ingegnato sta ancora lì.
La seconda concerne invece il suo ruolo nel consolidamento dei rapporti economici e politici con la famiglia saudita Bin Laden (di seguito, in fondo a questo articolo), un cui rampollo divenne decisamente famoso all’alba del nuovo millennio come fondatore e capo di Al Qaeda, organizzazione terroristica messa su insieme alla Cia per combattere – con successo, stavolta – l’Urss in Afghanistan e poi “rivoltatasi” contro i vecchi padrini.
La storia dei Bush è parzialmente ma istruttivamente ricostruita in quest’altro reportage. E, nel momento in cui tutti ricordano che, pur essendo un repubblicano di destra, non ha mai sopportato Donald Trump, sembra utile ricordare anche le non poche ombre che lo hanno circondato a proposito dell’omicidio di John Fitzgerald Kennedy (suo presidente proprio all’epoca della Baia dei Porci).
Un “personaggetto” niente male, insomma, difficile da santificare…
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Bush e Bin Laden, soci d’affari e amici per la pelle
di Francesco Piccioni
Quel vecchio pirata di Prescott Bush sarebbe veramente contento di vedere fino a che punto i suoi discendenti hanno assimilato il suo spirito. Lui che nel 1918 guidò un’incursione in un cimitero Apache per prendersi il teschio di Geronimo e farne il trofeo della sua società di studenti, la Skull & Bones (teschio e ossa). Lui che negli anni ’30 – e nei primi ’40 – trafficava con la Luftwaffe fino a vedere tre società di cui era azionista importante sanzionate per aver commerciato col nemico (violando il Trading with Enemy Act). Lui che pranzava quotidianamente con Allen e Foster Dulles (capo della Cia al momento dell’assassinio di John Kennedy) e che aveva convocato il capo della nazione Apache per una cerimonia di restituzione del teschio di Geronimo; finita male, perché provò ad affibbiargli un teschio qualsiasi, offendendolo a morte.
Era certamente contento del primogenito George Herbert, petroliere di scarsa fortuna ma agente della Cia in grado di scalarne la vetta (fu nominato direttore nel ’76) nonostante il non esaltante risultato dello sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba, di cui era il coordinatore. Però dimostrò di tenere alle radici texane, al petrolio e alla famiglia, chiamando le tre navi da sbarco Houston, Zapata (la sua prima e scalognata società petrolifera) e Barbara (la moglie). Deve aver sorvolato su quella strana liason del figlio, negli anni ’60, con un costruttore arabo che ogni tanto veniva in Texas e cercava di introdursi nell’alta società locale. In fondo, quel Muhammad Bin Laden lì, non durò poi molto: cadde col suo aereo mentre attraversava il cielo sopra i pozzi che così poca soddisfazione davano al suo prediletto. Era il ’68, il mondo pensava ad altro.
George W., all’inizio, deve avergli dato parecchi grattacapi. Un asino a scuola (la media del “C”, a un passo dalla bocciatura), ultimo all’esame di ammissione alle forze aeree della Guardia Nazionale (giusto per schivare il Vietnam), assiduo frequentatore di bottiglie di bourbon e piste di cocaina. Ma finalmente, anche lui, si lanciava nel business del petrolio. A metà degli anni ’70 fonda la Arbusto (bush, in spagnolo) Energy, raccogliendo come soci un po’ di amici paterni (la Cia ha molti amici). Il suo compagno di scuola e di servizio militare, James Bath, gli procura investimenti da parte di Khaled Bin Mafouz e Salem Bin Laden, il figlio maggiore di Muhammad e nuovo capo della famiglia. Personaggio notevole, il Mafouz. Banchiere della famiglia reale saudita, sposo felice di una sorella di Salem e Osama, gran capo di Relief e Blessed Relief, le due “ong” arabe accusate di essere una copertura per l’organizzazione di Osama.
George, negli affari, è sfortunato. La Arbusto fallisce, si trasforma in Bush Exploration, poi in Spectrum 7. Immancabile arriva sempre la bancarotta. Ma Salem non gli fa mai mancare il suo generoso appoggio. Il successo pare arridergli quando la Harken Energy rileva la Spectrum pagando la sua quota azionaria ben 600.000 dollari. Che corrobora con un contratto di consulenza da 120.000 dollari l’anno. In breve si mette in tasca un milione, mentre la Harken ne perde decine. Ma procura un contratto di trivellazione in mare da parte del Bahrein, battendo Amoco e Esso. E’ il ’91, la guerra del Golfo sta per scoppiare, Bush padre è il presidente; e lo sceicco locale, Khalifa, preferisce non rischiare. Del resto sono anche vecchi amici di famiglia. Khalifa, Bin Mafouz, Salem Bin Laden erano nel board della Bcci quando passavano immensi movimenti di denaro per l’affare Iran-Contra.
Del resto quando, alla fine dell’80, i repubblicani si incontrano segretamente a Parigi con i khomeinisti moderati per ritardare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e fregare così Jimmy Carter alle elezioni, George padre raggiunge di corsa il summit a bordo dell’aereo di Salem Bin Laden. George W. è sfortunato, con i suoi soci. Su quello stesso aereo, nell”88, Salem trova la morte (anche lui) mentre attraversa il cielo sopra i pozzi del Texas. La coincidenza sembra a molti eccessiva, ma l’inchiesta fu molto accurata. Le conclusioni, infatti, non furono mai rese note. Nel frattempo un altro protagonista dell’incontro di Parigi, Amiram Nir – agente del Mossad – muore in un incidente aereo. Nessun sospetto, però: cade in Messico, mica in Texas.
La sfortuna perseguita anche i giornalisti che si occupano dei Bush. Danny Casolaro sta lavorando a un libro (“Untanglig the Octopus”) che ricostruisce la rete degli scandali grandi e piccoli della presidenza paterna. Prima di finirlo, però, decide di suicidarsi “come un incapace”, racconta Steve Mizrach. Stessa sorte per James H. Hatfield, 43 anni, che è riuscito a pubblicare “A fortunate Son: George W. Bush and the making of an American President“. Una biografia non autorizzata che, nel ’99, rivela come George abbia tenuto nascoste le sue frequentazioni con la cocaina. Per la legge del contrappasso, viene trovato morto per overdose in un albergo di Springdale, Arkansas, il 18 luglio di quest’anno.
Ora tocca a Osama, naturalmente. Sodale non d’affari, ma di operazioni targate Cia. Forse gli altri 52 fratelli avranno qualcosa da obiettare. Ma, direbbe Prescott, in una guerra mondiale c’è spazio a sufficienza per risolvere le beghe tra vecchi soci.
Da “il manifesto”, 25 settembre 2001
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