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Io non
pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un
così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il
documento che siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal
dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e
rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola
conciliazione dell’interno tumulto passionale.
Noi
italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta ‹‹tutti››,
anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro
che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro
che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come
eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria,
impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci
dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle
sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.
Sennonché
il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di
quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e
prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la
pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi
o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano,
coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del Continente nero.
E qui mi
duole di dovere rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una
legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento
giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando
libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte intesi
unicamente alla vittoria, dall’una e dall’altra parte biasimati o
considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata
come necessaria o conducente alla vittoria. Chi sottopone questa materia
a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo sa troppo bene, e
cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la
maschera del giudice imparziale.
Segno
inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure
avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di
legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e
impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali
dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia,
onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro
uomini, e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo
e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a un
tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma,
esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita
e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per
le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece
strozzare nel carcere.
Parimenti
si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del
tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto
una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle
loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi:
che è tale pretesa che neppure Dio, il quale permette nei suoi ascosi
consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le
azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di
volta in volta loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non
hanno segreti per lui, dei singoli individui.
Un’infrazione
della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, si
piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi
giudici. Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una
severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la
nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato, perché
dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria
malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere.
Ma
altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di
dettato internazionale, che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i
popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il
rinnovarsi delle guerre. Il tema che qui si tocca è così vasto e
complesso che io non posso se non lumeggiarlo sommariamente e in
rapporto al solo caso dell’Italia, e nelle particolarità di questo caso.
L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di
questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella parità di
collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia
possibile, se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua
dignità e il suo legittimo orgoglio, e voi o sapienti uomini del
tripartito, o quadripartito internazionale, l’offendete nel fondo più
geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non
appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva,
avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della
guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa
dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali
interessi, impedendole di fare udire le sue ragioni e la sua voce e di
suscitare a sé spontanei difensori in voi stessi o tra voi? E ciò avete
fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per
equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne
prepotenze, attingendo ad un fondo comune, che era a disposizione. Così
all’Italia avete ridotto a poco più che forza di polizia interna
l’esercito, diviso tra voi la flotta che con voi e per voi aveva
combattuto, aperto le sue frontiere vietandole di armarle a difesa,
toltole popolazioni italiane contro gli impegni della cosiddetta Carta
atlantica, introdotto clausole che violano la sua sovranità sulla
popolazioni che le rimangono, trattatala in più cose assai più duramente
che altri Stati ex nemici, che avevano tra voi interessati patroni,
toltole o chiesta una rinunzia preventiva alle colonie che essa aveva
acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed
europea col suo ingegno e con dispendio delle sue tutt’altro che ricche
finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati
dal suo dominio grandemente avvantaggiati; e perfino le avete come ad
obbrobrio, strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli
a lei congiunti e carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto
di trovare in quel possesso la garanzia contro una possibile irruzione
italiana, quella garanzia che una assai lunga e assai fortificata e
assai vantata linea Maginot non seppe dare.
Non continuo nel compendiare gli innumeri danni ed onte inflitte
all’Italia e consegnati in questo documento, perché sono incisi e
bruciano nell’anima di tutti gli italiani; e domando se, tornando in voi
stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile
di avere acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienza per lo
sperato nuovo assetto europeo. Il proposito doveroso di questa
collaborazione permane e rimarrà saldo in noi e lo eseguiremo, perché
corrisponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora comprovato col
fatto: ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già aspro suo
dovere, né dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli recano
l’entusiasmo, gli spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi
di torti ricevuti, la fiducia scambievole, che presta impeto ed ali.
Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché
contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non
possiamo sotto questo secondo aspetto dei rapporti fra i Popoli,
accettarlo, né come italiani curanti dell’onore della loro Patria, né
come europei: due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è
tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea, e
per oltre un secolo ha lottato per la libertà e l’indipendenza sua, e,
ottenutala, si era per molti decenni adoperata a serbare con le sue
alleanze e intese difensive la pace in Europa. E cosa affatto estranea
alla costante sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe
origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta ma da competizioni di
altre potenze; la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel
collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada
in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri
stranieri hanno testé favoleggiato la sua storia nei secoli come una
incessante aspirazione all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta
fu imperiale, e non propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro
valse a creare la comunità che si chiamò poi l’Europa e, tramontata
quell’egemonia, per la sua posizione geografica divenne campo di
continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli e stati. Quei libri,
dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di guerra, vere e
proprie falsificazioni. Nel 1900 un ben più sereno scrittore inglese,
Bolton King, che con grande dottrina narrò la storia della nostra unità,
nel ritrarre l’opera politica dei governi italiani nel tempo seguito
all’unità, riconosceva nella conclusione del suo libro che, al confronto
degli altri popoli d’Europa, l’Italia “possedeva un ideale umano e
conduceva una politica estera comparativamente generosa”. Ma se noi non
approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci
cacceremo? Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o
parecchi di voi, i quali, nel giudizio di sopra esposto e ragionato del
cosiddetto Trattato, so che siete tutti e del tutto concordi con me ed
unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente di una
formalistica ratifica. Ora non dirò ciò che voi ben conoscete; che vi
sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità e
appartengono a quella inopportunità opportuna o a quella opportunità
superiore che non è del contingente ma del necessario; e necessaria e
sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio
affidatoci dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni
sacrificio. Ma qui posso stornare per un istante il pensiero da questa
alta sfera che mi sta sempre presente e, scendendo anch’io nel campo del
contingente, alla domanda su quel che sarà per accadere, risponderei,
dopo avervi ben meditato, che non accadrà niente, perché in questo
documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche
senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile
di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona
ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire
peggiorati per spirito di vendetta, ma non credo che si vorrà dare al
mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di
nuova cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché
non si riesce a immaginarli peggiori e più duri. Il governo italiano
certamente non si opporrà alla esecuzione del dettato; se sarà
necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento
legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione,
considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente
nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no!
Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una
cosa che esso sente come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e
di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile ad un
popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e
dalla corruttela. Del resto, se prima eravamo soli nel giudizio dato di
sopra del trattamento usato all’Italia, ora spiritualmente non siamo più
soli: quel giudizio si avvia a diventare un’opinio communis e ci viene
incontro da molti altri popoli e perfino da quelli vincitori, e da
minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni molteplici non facessero
per ora impedimento, diventerebbero maggioranze, E fin da ora ci si
esorta a ratificare sollecitamente il Trattato per entrare negli
aeropaghi internazionali, da cui siamo esclusi e nei quali saremmo
accolti a festa, se anche come scolaretti pentiti, e ci si fa
lampeggiare l’incoraggiante visione che le clausole di esso più gravi e
più oppressive non saranno eseguite e tutto sarà sottoposto a revisione.
Noi non dobbiamo cullarci nelle facili speranze e nelle pericolose
illusioni e nelle promesse più volte trovate fittizie, ma contare
anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo confidare che
molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione,
e l’interpreteranno per quello che esso è: non un’ostilità contro il
riassetto pacifico dell’Europa, ma, per contrario un ammonimento e un
contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può
ottenersi; non una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà
di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni
dell’odio. Signori deputati, l’atto che oggi siamo chiamati a compiere,
non è una deliberazione su qualche oggetto secondario e particolare,
dove l’errore può essere sempre riparato e compensato; ma ha carattere
solenne, e perciò non bisogna guardarlo unicamente nella difficoltà e
nella opportunità del momento, ma portarvi sopra quell’occhio storico
che abbraccia la grande distesa del passato e si volge riverente e
trepido all’avvenire. E non vi dirò che coloro che questi tempi
chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i
nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la
generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e
inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessaménte un iniquo
castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama
è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole
evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future
generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che
l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana,
fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel
chiudere il mio discorso angoscioso. Lamentele, rinfacci, proteste, che
prorompono dai petti di tutti, qui non sono sufficienti. Occorre un atto
di volontà, un esplicito ‹‹ no ››. Ricordare che, dopo che la nostra
flotta, ubbidendo all’ordine del re ed al dovere di servire la Patria,
si fu portata a raggiungere la flotta degli alleati e a combattere al
loro fianco, in qualche loro giornale si lesse che tal cosa le loro
flotte non avrebbero mai fatto. Noi siamo stati vinti, ma noi siamo
pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo
della terra. (Applausi – Congratulazioni).
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giovedì 27 dicembre 2018
DISCORSO PRONUNCIATO DA BENEDETTO CROCE IL 24 LUGLIO 1947 ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE
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