Un film da non perdere che ci porta a riflettere, attraverso tragici eventi del passato, sulla situazione sempre più drammatica che si sta producendo nel nostro paese.
- di Renato Caputo 15/12/2018
Credits: https://www.nonsolocinema.com/santiago-italia-di-nanni-moretti.html
Santiago, Italia è indubbiamente il miglior film italiano uscito quest’anno nelle sale e nella top five dei migliori film dell’anno. Nanni Moretti conferma di aver raggiunto, dopo la buona prova di Mia madre, la piena maturità, per quanto in ritardo. Finalmente il suo infantile soggettivismo romantico dei primi film, il continuo mettere in primo piano il proprio spropositato ego e le proprie fissazioni, lascia il posto alla rappresentazione filmica della cosa stessa.
Il regista non compare mai in scena, se non in due brevissime scene,
lo sguardo iniziale su Santiago – importante per sottolineare il
necessario effetto di straniamento che lo spettatore
dovrà mantenere rispetto a quanto gli verrà mostrato, indispensabile ad
assumere un’attitudine critica – e una ottima scena in cui riappare
per sottolineare e rivendicare – dinanzi alle rimostranze del militare
in carcere per i delitti compiuti durante la dittatura di Pinochet, che
pretenderebbe una impossibile documentazione imparziale dei fatti – il suo essere di parte, ovvero lo schierarsi per l’emancipazione del genere umano nei confronti di chi cerca di impedirlo, battendosi per le de-emancipazione.
Abbiamo così finalmente un artista maturo che si realizza pienamente nella sua opera, nella sostanzialità del contenuto trattato e della compiuta pertinenza della forma espressiva cinematografica, senza però portare lo spettatore a immedesimarsi compiutamente in quanto vede, perdendo la capacità di portare davanti al tribunale della propria ragione quanto viene presentato da un punto di vista necessariamente partigiano, che sottolinea il proprio odio gramsciano per gli indifferenti.
Il salto di qualità di questo film, rispetto ai precedenti, è dovuto anche alla geniale elaborazione del plot, ovvero un raffronto estremamente significativo e che non può che lasciare molto da pensare allo spettatore,
in funzione, ci si augura, che tale riflessione possa tramutarsi in
un’azione volta a contrastare il rapido affermarsi nel nostro paese di
quella restaurazione neoliberista che, per sperimentarla per la prima volta in Cile, vi è stato bisogno di un colpo di Stato militare che, dopo aver bombardato con l’aviazione il palazzo del governo democraticamente eletto, è passato allo sterminio e alla reclusione in campi di concentramento di chiunque potesse opporsi a questa terapia shock.
Non può, dunque, che apparire inquietante lo sguardo straniante di un rifugiato politico cileno
che ci ammonisce degli effetti nefasti prodotti nel nostro paese dalla
restaurazione liberista, non solo dal punto di vista economico e
sociale, ma persino antropologico. Essa ha portato allo sviluppo in una parte crescente della popolazione italiana di uni spietato egoismo individualista,
incapace di riconoscersi nemmeno nelle sofferenze del prossimo.
Ancora più significativo è il raffronto, anch’esso indubbiamente
straniante, fra lo scenario dell’Italia del 1974 che accoglie e integra i rifugiati politici di un paese extra-europeo,
il senso di solidarietà e il compiuto riconoscimento nelle sofferenze
del proprio prossimo, che ricorda ai cileni i magici anni del governo dell’Unidad popular,
e le aberranti analogie fra il nostro presente e la dittatura
militare di estrema destra imposta al Cile dall’imperialismo
statunitense, per farne la cavia su cui sperimentare gli effetti devastanti delle politiche neoliberiste.
Mentre 35 anni fa i rifugiati politici cileni,
allora come oggi vittime delle politiche neoliberiste, erano accolti
nella ambasciata italiana a Santiago e da lì trasportati nel nostro
paese, dove venivano inseriti appena possibile nel mondo del lavoro,
con contratti in regola e a tempo indeterminato, cercando anzi di valorizzarne al meglio le competenze, gli odierni rifugiati sono divenuti il capro espiatorio su cui scaricare la rabbia repressa di un proletariato ormai privo di coscienza di classe, ridotto a plebe arruolata nella guerra al lavoratore più povero e indifeso, lasciando così campo libero alla lotta di classe condotta unilateralmente dall’alto dalla classe dominante.
Dunque, se per creare un analogo scenario trentacinque anni fa in Cile c’era ancora bisogno di un surplus di violenza
– l’aperto sostegno della massima potenza imperialista mondiale e
l’intervento diretto di esercito e degli altri apparati repressivi
dello Stato – oggi si raggiungono risultati analoghi nel nostro paese,
che pure ha avuto il più importante Partito comunista dei paesi a
capitalismo avanzato, con la sola egemonia della classe dominante che, controllando tutte le casematte della società civile, ossia tutti gli strumenti per imporre il proprio dominio con il consenso attivo o quantomeno passivo dei ceti subalterni.
Non può che colpire come fosse migliore, più
vivibile e preferibile quel mondo di appena trentacinque anni fa, in
cui si respirava un clima di reale potenziale democrazia nel nostro paese, per molti aspetti assimilabile alla parentesi democratica vissuta in Cile nei tre anni di governo di socialisti e comunisti. Democrazia nel vero senso del termine, nel senso originario ed etimologico di potere delle classi popolari, dei subalterni di contro agli oligarchi.
Anzi nel film, in riferimento agli stessi documenti statunitensi
de-secretati, si evidenzia come l’intervento degli Stati Uniti contro
il governo democraticamente eletto in Cile, fosse in buona parte
diretto a impedire che tale eccezione, ovvero un governo realmente schierato dalla parte delle classi subalterne eletto con il pieno rispetto del sistema parlamentare borghese, potesse divenire un modello per altri paesi, quasi che appunto una singola eccezione potesse divenire una regola.
In particolare, si temeva che tale modello realmente democratico
potesse ripetersi in due dei principali paesi imperialisti, ovvero la
Francia e l’Italia, dove nonostante tutte le persecuzioni erano attivi
due imponenti partiti comunisti.
Non è un caso, anche se il film di un democratico come Moretti non può certo sottolinearlo, che proprio tale esemplare colpo di Stato abbia favorito il prevalere nei partiti comunisti italiano e francese delle forze revisioniste, che intendevano abbandonare la stessa strategia di una via parlamentare al socialismo, in nome prima del compromesso storico con la Democrazia cristiana, allora principale espressione politica della classe dominante, e poi dell’eurocomunismo,
ossia il definitivo passaggio di campo dall’alleanza con i paesi in
transizione al socialismo, a quella con i paesi imperialisti,
sentendosi più sicuri sotto l’“ombrello protettivo della Nato”.
In tal modo queste due significative eccezioni, di un potenziale
raggiungimento della democrazia anche per via parlamentare, gettavano
progressivamente la spugna, fino alla sostanziale auto-eutanasia, in primo luogo, del Pci.
Altro aspetto, che non poteva che sfuggire completamente all’ultrariformista regista del film, è l’aspetto tragico del colpo di Stato in Cile, ossia manca del tutto la capacità di un superamento catartico, da parte degli stessi protagonisti intervistati che hanno patito
questa terribile tragedia storica. In pratica tutti i protagonisti
intervistati e, di conseguenza, lo stesso regista non si rendono
minimamente conto che la spaventosa sofferenza che hanno patito non
possa essere il prodotto di un destino cinico e baro, ma sia una necessaria conseguenza di quell’ossimoro definito democrazia borghese.
In altri termini, questo Stato è accettato dalle classi dominanti
solo quando è funzionale alla propria egemonia sulle classi subalterne,
ma appena rischia di divenire uno strumento di emancipazione di quest’ultime, i primi a non rispettarne più le regole sono proprio i rappresentanti della grande borghesia.
Ancora di più né i protagonisti intervistati e, tantomeno, il regista
sono in grado di comprendere che proprio le terribili sofferenze
patite dovrebbero catarticamente fargli comprendere che, dal momento
che ognuno è in ultima istanza responsabile del proprio destino, esse derivano necessariamente da una tragica hybris. L’ingenua tracotanza
che li porta alla convinzione che rispettando le regole del sistema
dell’avversario quest’ultimo non potrà che fare lo stesso. Così il
governo di Unidad popular procede ingenuamente sulla propria strada democratica, dimenticando che in uno Stato essa è realmente realizzabile solo all’interno del blocco sociale dominante. In tal modo, nonostante tutti i segnali che indicavano l’inevitabilità del golpe
– visto che dal punto di vista della classe dominante a violare le
regole è proprio chi pensa di rendere effettivamente valida la
democrazia per tutta la popolazione, comprese le classi subalterne,
come osservano candidamente i generali golpisti intervistati – non si
organizza nessuna contromisura.
Tale tragica hybris appare nel modo più
evidente nel comportamento dello stesso presidente Allende che, anche
quando il golpe è in atto e il suo stesso palazzo è bombardato
dall’aviazione, accetta stoicamente la tragedia in corso,
dando a intendere ai lavoratori che essa è ormai un dato di fatto, un
qualcosa di necessario, a cui è sostanzialmente impossibile nello
stato attuale opporsi. Tanto che lo stesso presidente decide,
altrettanto stoicamente, di suicidarsi, lasciando le classi subalterne
e, in primo luogo, le sue avanguardie alla mercé degli apparati
repressivi delle classi dominanti che, gettata la maschera
liberal-democratica, mostrano apertamente come la “democrazia” borghese
non sia altro che una dittatura oligarchica di contro alle masse popolari.
Se tale incomprensione da parte di un regista
borghese di sinistra non potevamo che darla per scontata, colpisce
invece negativamente il suo dare a intendere che l’unica reale
opposizione possibile, dinanzi alla dittatura di classe neoliberista
sia l’opera di quelli esponenti, realmente cristiani, della chiesa che
chiedono alle classi dominanti di non infierire sulle classi dominate.
Al di là di questa pesante caduta di tono, per il
resto il film riesce a far ragionare su avvenimenti così tragici e
attuali senza mai rinunciare al godimento estetico che ogni reale opera d’arte
non può non provocare, di contro alle tendenze iconoclaste che
considerano irrappresentabile da parte di un’opera d’arte, proprio per
questo motivo, il male radicale, incarnato dal fascismo.
Altro aspetto significativo del film è l’evidenziare la penosa banalità del male
che caratterizza gli autori materiali degli atroci crimini contro
l’umanità prodotti dal regime di Pinochet. Costoro non hanno per niente
la presunta statura del grande criminale, ma appaiono per ciò che
realmente sono, ossia disumani assassini proprio perché non sono
minimamente in grado di rendersi conto del male che hanno prodotto,
convinti di aver semplicemente fatto il proprio dovere. Dimostrando
ancora una volta che i fascisti non sono altro che manovalanza destinata a fare, strumentalmente, il lavoro sporco per la classe dominante. Tanto che mentre quest’ultima non ha pagato nulla per quanto accaduto, continuando a godere degli assurdi privilegi prodotti dallo sfruttamento della forza-lavoro altrui, alcuni fascisti che si sono addossati il lavoro sporco possono anche essere sacrificati, quali presunte mele marce, che consentono di mantenere in vita il sistema che li ha prodotti e la sua egemonia sui subalterni.
15/12/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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