La timé è il meccanismo fondamentale attraverso il quale i greci descrivono l’interazione sociale, ed è centrale alle istituzioni che legano l’individuo alla comunità. A differenza di quanto sostenuto da Thatcher, esiste però nella negoziazione tra il valore che mi attribuisco, quello che mi attribuisce la società, e quello che mi è attribuito dagli individui con cui interagisco: diritti e doveri emergerebbero da questa negoziazione, per cui è precisamente l’interazione con gli altri che la legge va a garantire e oliare.
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micromega Mirko Canevaro
Nell’estate 1989, nel contesto del bicentenario
della Rivoluzione Francese e della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e
del Cittadino (l’antecedente vero della Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo che oggi festeggiamo e su cui vogliamo riflettere),
Margaret Thatcher, ospite di Francois Mitterrand, pensò bene di
affermare che non è vero che i diritti umani siano stati per la prima
volta formalizzati, in un documento, con la Rivoluzione. I diritti
soggettivi, sosteneva Thatcher, li avevano già inventati i Greci – erano
già fondamento della democrazia ateniese. La Lady di Ferro faceva della
polemica, ma è ben vero che basta aprire un libro qualsiasi su Atene
per imbattersi immediatamente in espressioni come “i diritti del
cittadino”. Non è però chiarissimo se queste nozioni fossero
concettualizzate come tali dagli Ateniesi stessi, o siano invece
proiettate sulle fonti dal lettore moderno. Per molti studiosi del pensiero greco si tratta appunto di una interpolazione concettuale moderna. M. F. Burneyat, per dire, ha sostenuto che la priorità nel pensiero greco l’avessero non i diritti, ma i doveri, e Malcolm Schofield che se effettivamente esisteva una protezione dei diritti, questa era conseguenza indiretta della disciplina degli obblighi reciproci. Qui va chiarito che se è pur vero che a ogni dovere corrisponde in ultima analisi un diritto, e ad ogni diritto un dovere, non è però indifferente da dove si parta: se cioè siano i diritti o i doveri ad avere priorità. Lo spiegava Ronald Dworkin: i diritti appartengono all’individuo e portano beneficio all’individuo; i doveri sono invece imposti sull’individuo e restringono la sua libertà. Per questo, “una teoria che abbia a fondamento i diritti ha un carattere completamente diverso da una teoria che prenda a fondamento i doveri”.
Questa alternativa fondamentale la si ritrova ad ogni passo dell’avanzata dei diritti. Già nel 1789 il Vescovo di Chartres propose una Dichiarazione dei Doveri dell’Uomo e del Cittadino, perché concentrarsi sui diritti soltanto avrebbe favorito l’egoismo. Chartres ebbe la peggio e la Dichiarazione del 1789 dichiara che “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo”. La priorità è dei diritti soltanto – della libertà dell’individuo prima degli interessi della comunità. E il dibattito che portò alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del ‘48 non fu esente da simili contese: Simon Weil nel ’43 sottotitolò il suo ultimo libro “Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano”, e affermò che “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata”. Persino Gandhi affermò nel ‘47: “la domanda più corretta non è quali siano i diritti del cittadino, ma piuttosto quali siano i doveri del cittadino”. Persino Norberto Bobbio, autore del fondamentale “L’età dei diritti”, in un dialogo del 2001 con Maurizio Viroli affermò che, se avesse avuto ancora tempo ed energia, avrebbe scritto piuttosto “L’età dei doveri”.
Ora, per stabilire se gli Ateniesi fondassero il loro sistema giuridico ed etico intorno alla definizione e alla difesa dei diritti soggettivi, o piuttosto all’imposizione di doveri, il primo problema è terminologico: qual è il termine, o la costellazione di termini, che serviva a indicare la sostanza dei diritti soggettivi? La difficoltà a trovare un buon candidato è una delle ragioni principali per cui si è spesso negato che una nozione di diritti esistesse nella Grecia antica, e fosse fondamento del sistema etico-giuridico. Ma, a ben guardare, esisteva un termine capace di coprire il campo semantico della nostra nozione di “diritti soggettivi”: timé.
Questa è già un’affermazione controversa, perché sebbene tutti riconoscano la centralità della timé nelle società riflesse nei capolavori della letteratura e del pensiero greco, il concetto di timé è di solito frainteso. Timé è generalmente tradotto con “onore” ed associato più a un mondo primitivo, aristocratico o mafioso, di duelli, affronti, vendette, che non a un’etica e di un diritto fondati sulla protezione dei diritti. Secondo l’interpretazione tradizionale, l’onore (e la timé) era un bene conteso, in disponibilità limitata, oggetto di competizione, soprattutto maschile, in piccole comunità tradizionali – era un gioco a somma zero: si accumula onore disonorando il prossimo. Per gli uomini, poi, l’onore era legato a doppio filo a forme violente e patriarcali di mascolinità, e dipendente dalla castità femminile, unica vera fonte di onore per la donna, nonché fonte di vulnerabilità per l’onore maschile. Questo modello è presentato come tipico delle società tradizionali sviluppatesi nei secoli attorno al Mediterraneo, e la Grecia antica ne è descritta come il prototipo. Se questo è il referente del termine timé, pare che abbia davvero poco a che fare con i diritti soggettivi.
E tuttavia sempre più studi stanno dimostrando che questa nozione “mediterranea” di onore è frutto di un pregiudizio. Kwame Anthony Appiah, per esempio, ha mostrato che gli attori sociali, in ogni società, mantengono il loro “onore” non disonorando il prossimo, ma piuttosto rispettando specifici codici d’onore: comportandosi in modo socialmente accettabile e rispettoso e trattando il prossimo secondo il suo rango e la sua dignità. I codici d’onore sono culturalmente variabili ma, che si tratti della Cina del XIX secolo, del Pakistan contemporaneo, del mondo omerico o del Rinascimento, hanno in comune l’obiettivo di assicurare l’armonia sociale, o quantomeno di limitare il conflitto. In nessuna società l’onore crea un bellum omnium contra omnes, e quando questo si manifesta, è il risultato del fallimento delle dinamiche dell’onore, non il loro effetto naturale.
Così reinterpretato, il concetto di onore non è alieno al dominio dell’etica e del diritto, che siano fondati sui diritti o sui doveri. La timé, nella letteratura e nel pensiero greco, non è solo alla base dell’affermazione individuale, per dire, dell’eroe omerico, ma anche degli strumenti messi in campo dalla comunità per regolarne l’affermazione; non ha a che fare solo con la massimizzazione del prestigio individuale in competizione col prossimo, ma anche con la giustizia, l’autocontrollo, gli interessi della comunità. La timé è il meccanismo fondamentale attraverso il quale i Greci descrivono l’interazione sociale, ed è centrale alle istituzioni che legano l’individuo alla comunità. Per questo la timé compare sistematicamente ad articolare concetti analoghi ai diritti soggettivi. Se guardiamo alla democrazia ateniese, scopriamo che tutte le accezioni del termine “diritti”, come identificate nello studio classico di W. M. Hohfeld, erano normalmente espresse con timé o termini affini. Il diritto come “pretesa”: quando qualcuno è tenuto ad un comportamento attivo od omissivo nei confronti del titolare della pretesa stessa – per esempio il mio diritto all’integrità fisica, o alla proprietà, richiede che nessuno mi usi violenza, o mi privi della proprietà, e questi diritti, ad Atene, sono descritti come timai il cui mancato rispetto è punito dalle leggi. Il diritto come “privilegio” (o “libertà”): la possibilità̀ da parte del titolare del privilegio di fare qualcosa, oppure di non farla – per dire, il mio diritto ad usufruire liberamente della mia proprietà è difeso in quanto timé da un’azione privata per danni; quello a parlare liberamente è anch’esso una timé protetta dalla legge. Il diritto come potere: la possibilità, da parte del suo titolare, di modificare una posizione giuridica altrui, o la propria – qui emblematico è il potere del pubblico ufficiale, e le prerogative che vi derivano, e ad Atene tanto le magistrature quanto le loro prerogative erano descritte come timai. Anche il potere del cittadino legiferante in Assemblea è timé. Infine, il diritto come immunità: l’impossibilità, da parte di terzi, di incidere su una posizione soggettiva del titolare dell’immunità stessa – è il caso dell’esenzione dalle tasse (onorifica o per basso reddito), l’ateleia, che è appunto una timé.
Dalla varietà del suo campo semantico è anche chiaro che la timé non è necessariamente, come è spesso intesa, un diritto al rispetto fondato su qualità eccezionali, su una superiorità – quella che Stephen Darwall chiama “stima”. Non è cioè necessariamente privilegio differenziale, verticale per definizione. Al contrario, è spesso diritto al “rispetto come riconoscimento” di una comunanza – come cittadino o come libero – a prescindere da differenze di qualità personali o di posizione sociale. Insomma, la timé può essere distribuita verticalmente, in modo differenziale (per qualità fuori dal comune), ma anche orizzontalmente, in modo egalitario, come i diritti del libero o del cittadino, che afferiscono al libero o al cittadino in quanto, appunto, libero o cittadino.
Se timé copre dunque effettivamente il campo semantico dei moderni “diritti”, protetti dalla legge, se ne può allora concludere che l’ordinamento ateniese si fondasse sulla tutela dei diritti di liberi e cittadini, piuttosto che sulla definizione dei loro doveri? Aveva ragione la Thatcher? Non è così semplice. Basta guardare all’azione legale che più di tutte è stata letta come centrale alla protezione della dignità – dei diritti – del cittadino ateniese contro umiliazioni e soprusi: l’accusa pubblica per hybris. L’hybris, tradotta con termini che vanno da “arroganza”, “tracotanza”, a “oltraggio”, sarebbe appunto la negazione della dignità del cittadino. Ma non è così che l’hybris come crimine è in realtà concettualizzata nelle fonti – nei discorsi giudiziari. Al contrario, sembra avere più a che fare con la condotta, il carattere del reo che non con gli effetti sulla vittima. Nella Contro Conone demostenica il pestaggio della vittima può essere perseguito con un’azione per violenza privata, ma, per essere perseguito e punito in quanto hybris, deve provenire da qualcuno che, per condotta e carattere, è riconosciuto come prono ad arrogarsi più diritti, più timé di quanto gli spetti secondo giustizia. È il comportamento del colpevole ad essere qui regolato e sanzionato dalla legge, tant’è che si può commettere hybris, come vedremo, anche nei confronti di chi diritti non ne ha – gli schiavi. E infatti nella Contro Midia, discorso d’accusa in un’azione pubblica per hybris, Demostene vuole dimostrare non tanto la violazione dei suoi diritti come vittima, ma piuttosto si concentra della condotta di Midia – la sua arroganza, la sua tendenza ad arrogarsi più timé di quanto gli spetti per meriti e status. Nell’arrogarsi troppa timé, Midia sistematicamente manca di rispetto agli altri, ne lede i diritti, ma questi sono protetti dalla legge solo come effetto della disciplina della timé di Midia stesso, non prioritariamente.
Questo è il punto chiave: non c’è nel diritto attico una priorità assoluta di diritti o doveri. Se alcune norme impongono un dovere attraverso la definizione di un diritto, altre garantiscono una serie di diritti attraverso la definizione del dovere di una condotta onorevole. Questa ambivalenza è radicata nel concetto stesso di timé, che indica tanto il rispetto che viene dagli altri quanto il valore del soggetto destinatario di quel rispetto, e dunque le sue pretese di rispetto. Tanto la dignità del soggetto, e i diritti che gli derivano da quella dignità, quanto le manifestazioni esteriori di rispetto verso questa dignità da parte del prossimo. Così, la dignità del cittadino Filocleone in quanto cittadino, dello stratego Pericle in quanto stratego, o dell’individuo Pasione in quanto pubblico benefattore o amico fidato, è la sua timé – il suo valore, legato all’appartenenza a un gruppo (i cittadini), a una carica (stratego), o a particolari prestazioni pubbliche o private. E timai sono anche i diritti che derivano da questa timé, da questa dignità – il diritto all’integrità fisica, alla proprietà, alla partecipazione politica, e pure i diritti speciali che derivano da status esclusivi, come quello a non pagare le tasse. Timé è usato, infine, per indicare anche i segni esteriori della deferenza mostrata dal prossimo verso questi diritti.
Insomma, il campo semantico di timé non comprende solo la moderna nozione di diritti – comprende ogni aspetto delle interazioni sociali in cui questi diritti si manifestano, la dignità su cui si fondano, e le prestazioni che esigono. E li rappresenta come interdipendenti, parte di un’unica dinamica interazionale. Erving Goffman parlava di rituale sociale dell’interazione, composto di due aspetti speculari e inseparabili: la deferenza degli altri verso il soggetto sociale, e il contegno del soggetto sociale stesso, che si fondano e giustificano a vicenda. Per Goffman, le norme dell’interazione sociale regolano tanto il contegno quanto la deferenza: nel regolare il contegno del soggetto, ne definiscono i doveri; nel regolare la deferenza verso il soggetto, ne definiscono i diritti. Allo stesso modo, la legge di Atene nel regolare e proteggere la timé regolava tanto il contegno quanto la deferenza, nella loro interrelazione.
Margaret Thatcher aveva quindi metà ragione e metà torto. Metà ragione perché esiste un concetto centrale al diritto e all’etica greci – quello di timé – che copre le sfumature della moderna nozione di diritti soggettivi. Metà torto perché i due concetti non si accavallano interamente. Il diritto soggettivo è fondamento di un’etica centrata sull’individuo e sulla sua autonomia – crea cioè, come spiega Axel Honneth, uno spazio di libertà indipendente dalla socialità, di cui posso fruire con sicurezza garantita dalle istituzioni, senza bisogno di negoziare di volta in volta pretese e doveri col prossimo e con la comunità.
Il concetto di timé, al contrario, è centrato sulla socialità. La timé esiste cioè nella negoziazione tra il valore che mi attribuisco, quello che mi attribuisce la società, e quello che mi è attribuito dagli individui con cui interagisco in ogni dato momento. Per l’Ateniese, diritti e doveri emergono da questa negoziazione, per cui è precisamente l’interazione con gli altri, nella socialità, che la legge va a garantire e oliare. Questa centralità della timé fa sì, dunque, che né i diritti emergano semplicemente come contraltari dei doveri – come in certe etiche comunitariste, o in certi ordinamenti totalitari – né che i doveri emergano semplicemente come contraltari dei diritti – come nel nostro moderno regime dei diritti umani. Al contrario, etica e legislazione legano gli uni e gli altri a doppio filo nella definizione del soggetto giuridico e sociale, senza privilegiare né l’autonomia dell’individuo atomizzato né l’interesse della comunità, ma piuttosto le condizioni della socialità. Ho parlato finora di diritti e doveri – di timé come grimaldello concettuale per comprendere come fossero strutturati il diritto e l’etica ateniesi. Ma quale ne era il fondamento? Ne era mai giustificazione, come per i nostri diritti umani, l’universalità della condizione umana, la dignità dell’essere umano? Abbiamo già detto che il concetto di timé accomoda agevolmente quello che Stephen Darwall chiama “rispetto come riconoscimento”: siamo tutti cittadini, o liberi, e condividiamo per questo un certo livello base di timé e una certa gamma di timai – prerogative, diritti – che ci vengono dal fatto stesso di essere cittadini, o liberi. Ma a questa timé abbiamo accesso appunto in quanto liberi, o cittadini, non in quanto esseri umani. E quindi, per definizione, questo riconoscimento non è universale ma dipende da un certo status. Non solo, ma nel riassumere tanto il nostro valore individuale e il nostro contegno, con le relative norme comportamentali, quanto la nostra pretesa di rispetto da parte del prossimo, il concetto di timé tende a creare “diritti” che non sono mai inalienabili, ma dipendono da una performance: il cittadino mantiene la timé di cittadino finché si comporta come tale. Tant’è che vari crimini e comportamenti considerati indegni di un cittadino erano puniti ad Atene appunto con l’atimia: disonore che era insieme negazione del valore di cittadino e privazione dei diritti che derivano da quel valore. La time è dunque legata a uno status e vincolata al mantenimento di un certo contegno, per cui c’è sempre chi ne è escluso.
Questo non significa che non ci fu mai un ideale assoluto di mitezza e umanità di trattamento allargato anche a barbari e schiavi. Qui entra in gioco il concetto di philanthropia, un’idea di amore per gli esseri umani (a prescindere dalla condizione) che troviamo già ad Atene e che diventa fondamentale nello Stoicismo tardo-ellenistico. È a questo concetto che ci si è spesso appellati per identificare un’idea greca di diritti e doveri universali e incondizionati, ed è questo concetto che voglio ora discutere, nel suo rapporto con la timé e i diritti. Torniamo per un istante al discorso d’accusa, per hybris, di Demostene contro Midia. Demostene sostiene che in una causa per hybris l’identità della vittima sia in fondo irrilevante – conta il comportamento dell’hybristes, il suo carattere – e cita una particolare clausola della legge a supporto di questa interpretazione: essa vietava anche l’hybris commessa contro gli schiavi. È impossibile dunque, sostiene Demostene, che il punto della legge fosse proteggere i diritti della vittima – essa voleva vietare comportamenti disonorevoli tout court. È qui che spunta la philanthropia: la legge protegge dall’hybris persino gli schiavi per via della sua philanthropia. Ora, l’etimologia stessa di philanthropia (un “amore per gli esseri umani”) pare implicare il riconoscimento di un’umanità comune di cui anche gli schiavi partecipano. Se, in virtù della philanthropia della legge, gli Ateniesi devono comportarsi in modo “umano” verso gli schiavi, e in caso contrario possono essere sanzionati severamente in tribunale, questo non significa forse che la legge implicitamente riconosce dei diritti agli schiavi, proprio in virtù della loro umanità? Mi tocca forse dar ragione a Margaret Thatcher?
Non proprio, perché la philanthropia è concetto bizzarro: è cioè in genere alla base della scelta di trattare con umanità precisamente chi non ha alcun diritto a un trattamento umano, chi non lo “merita”. Per Aristotele, nella Poetica, to philanthropon è una reazione emozionale di simpatia verso il malvagio colpito da sventura, nonostante il malvagio, in quanto malvagio, se la meriti la sventura. Al contrario dei comportamenti governati dalla timé, che si compongono di giuste pretese e di giusti obblighi reciproci, la philanthropia è per definizione un dono a cui non corrisponde alcun diritto, non un dovere speculare a una pretesa giustificata. Non è un caso che nella Historia animalium Aristotele descriva come philanthropia persino la gentilezza verso gli animali: chi tratta bene il suo cane è philanthropos, ma questa gentilezza verso il cane non è certo radicata nel riconoscimento dell’“umanità” del cane, no? Allo stesso modo, nella Contro Midia il termine non vuole evidenziare un diritto dello schiavo, ma piuttosto sottolinearne l’assenza – per via dell’antica e “naturale” inimicizia tra barbari e Greci, Demostene sostiene che gli schiavi non possono avanzare pretese giustificate verso i Greci. Il divieto di hybris contro gli schiavi non è radicato nel riconoscimento di un diritto degli schiavi, in virtù della loro umanità; è invece indipendente da qualsiasi loro merito, pretesa o diritto a un trattamento dignitoso in quanto esseri umani. Se vengono trattati dignitosamente, questo è dovuto al fatto che crudeltà gratuita e hybris sono vietati in assoluto, in quanto disonorevoli e inaccettabili per il libero e il cittadino.
Ho voluto evidenziare l’insistenza – concettuale e retorica – nel negare ogni pretesa giustificata allo schiavo in parte per non cadere nel tranello, in cui non classicisti cadiamo troppo spesso, di presentare l’antichità – e la democrazia ateniese in particolare – come modello a tutti i costi. Quella ateniese era una società schiavile, con leggi e istituzioni che negavano ogni diritto allo schiavo – ne negavano l’inclusione nelle normali dinamiche intersoggettive della timé. La legge proteggeva il padrone e i suoi diritti – la sua timé, non quella dello schiavo. Per questo l’idea stessa di diritti umani universali è aliena al diritto e all’etica greci. E tuttavia, nel negare allo schiavo ogni pretesa di timé, la legge riesce, senza contraddizione, a proibire e sanzionare comportamenti disonorevoli e antisociali, anche contro gli schiavi, lesivi del funzionamento degli spazi sociali ed economici nei quali gli schiavi interagivano coi liberi, punendo gli eccessi del libero che si arrogava pretese e diritti (timé) che non gli appartenevano. I diritti stessi del libero erano fondati sulla performance corretta dei suoi doveri. Di nuovo, al centro dell’ordine normativo c’era la socialità.
Ed è qui che Atene può offrire un contributo alla riflessione contemporanea su diritti e doveri. Le sfide del nostro tempo stanno mettendo pressione al moderno sistema dei diritti umani, universali e inalienabili: come nota Gustavo Zagrebelsky nel suo “Diritti per forza”, il nostro è un mondo saturo, gli spazi di espansione dell’autonomia individuale sono ridotti, e all’affermazione di un diritto sempre più spesso corrisponde l’erosione di un altro diritto. Roberto Bin, descrive nella sua “Critica della teoria dei diritti” quello dei diritti, ormai, come un gioco a somma zero – quanto si assegna da una parte, si sottrae dall’altra. Non solo, ma in questo mondo saturo l’espansione dei diritti tradizionali, e la formulazione di sempre nuovi diritti, si scontra con le risorse limitate a disposizione, con la realtà di un pianeta sempre più vicino al collasso ambientale.
Come queste dinamiche imbarazzino un’eticità e un diritto fondati sui diritti soggettivi mi è stato chiarito in conversazione da un brillante ex-studente, ora collega, cinese. Si parlava di politiche ambientali, della storica resistenza di Cina e India a sottoscrivere accordi volti a ridurre le emissioni di gas serra. Io mi appellavo, con sicumera occidentale, al diritto a vivere in un ambiente salubre. Lui vi contrastava il diritto dei paesi in via di sviluppo a crescere, a portare fette crescenti delle popolazioni fuori dalla povertà – il diritto al benessere e all’iniziativa economica di cui l’occidente si è a lungo giovato, inquinando, arricchendosi senza ritegno e causando l’odierna situazione di disastro ambientale imminente. Noi sì e loro no? Parlammo allora dei diritti delle generazioni future, italiane e cinesi, a ereditare risorse sufficienti a crescere e fiorire. Ma quali diritti possono effettivamente pretendere dei non soggetti – generazioni ancora non nate, che ancora non esistono, che potrebbero persino, se continua così, non esistere mai. I diritti umani richiedono soggetti giuridici, umani. Non per nulla i diritti delle nuove generazioni sono stati finora bellamente ignorati dalle generazioni precedenti. Ma un’etica e un diritto dei doveri si scontrano con difficoltà analoghe: i doveri, per non essere sopruso, devono essere reciproci, e quale presa può avere un’etica e un diritto internazionali fondati sui doveri dei vivi verso le generazioni future, quando i vivi sempre più si ritrovano vittime del sopruso delle generazioni precedenti, della loro inadempienza a quegli stessi doveri. Problematiche analoghe sorgono se riflettiamo sulle dinamiche delle migrazioni di massa in un mondo di diseguaglianze vertiginose: il diritto al benessere, al movimento, contro il diritto alla preservazione di tradizioni, stili di vita. Anche qui si tratta dei diritti di individui sempre più giuridicamente e ancor più culturalmente costruiti come non-soggetti, e dei nostri nebulosi doveri nei loro confronti. Il tramonto (eventuale) dell’età dei diritti non vedrà l’alba di un’età dei doveri – io, almeno, non ci credo. Quello in cui ci troviamo non è un circolo virtuoso di doveri e diritti intergenerazionali, interculturali, intraplanetari, ma piuttosto un circolo vizioso di soprusi e inadempienze.
Di fronte a queste difficoltà, concettuali e reali, la centralità della timé nell’etica e nel diritto greci può essere – ed è almeno per me – un invito all’affinamento della nostra concezione di diritti e doveri, che rifiuti la priorità degli uni sugli altri, ma ne accetti invece, nel soggetto sociale stesso, il legame indissolubile. I nostri Ateniesi usarono questa concezione per fondarvi i diritti del cittadino democratico e suoi doveri verso il prossimo, la comunità, gli antenati e i posteri – gli uni dipendenti dagli altri, e viceversa. Vi giustificarono però anche l’atimia dello schiavo e il diritto del libero al suo sfruttamento, ma al contempo anche il dovere del libero e del cittadino di trattare lo schiavo – il non soggetto per eccellenza – con responsabilità e mitezza, nell’interesse appunto della socialità. Quanto a noi, sperando di fare meglio, se non altro potremmo tentare di riconoscere che la nostra dignità di esseri umani – la nostra timé come valore individuale – per essere fondamento, nella realtà sociale, dei nostri diritti di esseri umani – della timé come rispetto e deferenza del prossimo nei nostri confronti – deve implicare un dovere parallelo di responsabilità, di umanità, nelle nostre condotte di attori sociali e politici. Non c’è l’una senza l’altra. Se li facciamo un po’ greci, se li interpretiamo cioè come timai, i diritti cessano di essere spazi di autonomia atomizzata e diventano spazi di socialità, il cui fine ultimo è la preservazione nel tempo delle condizioni per lo sviluppo di questa socialità, e la produzione di soggetti che in questa socialità possano aiutarsi reciprocamente a fiorire. E, su questa nota molto aristotelica, chiudo e vi ringrazio per l’attenzione.
(21 dicembre 2018)
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