Continuano
ad essere agitatissimi questi ultimi giorni del 2018 per le aree del
nord-est della Siria, controllate dalle Forze Democratiche Siriane,
costituite a maggioranza dalle milizie curde Ypg-Ypj, di “derivazione”
Pkk.
Dopo
l’improvviso, annunciato, ritiro del contingente USA, che garantisce
protezione a tali milizie, avvenuto attraverso l’ormai famosissimo tweet
del Presidente Trump (“Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica unica ragione per rimanere lì durante la presidenza Trump”),
sia il Capo del Pentagono Mattis, sia il responsabile della cosiddetta
coalizione anti-Isis, McGurk, hanno lasciato il rispettivo incarico.
Ciò
è indice del fatto che questa decisione presidenziale è molto
contrastata negli apparati politico-militari yankee; i principali organi
d’informazione mainstream d’oltreoceano, infatti, assieme ai principali
esponenti di entrambi i “partiti” (se così possiamo definirli), stanno
riempendo lo spazio mediatico con articoli e dichiarazioni che segnalano
con preoccupazione come tale decisioni significhino fare un passo
indietro nelle politiche imperialiste d’intervento in Medio-Oriente,
lasciando spazio alle potenze nemiche Russia e Iran.
Tuttavia
vi sono diversi segnali ad indicare che, almeno per il momento,
l’impostazione del Presidente stia prevalendo: i primi movimenti di
ritiro di truppe, che già si segnalano sul terreno e, soprattutto, la
veemenza del governo turco nell’annunciare un’imminente azione militare
contro le milizie curde filo-Pkk.
Come dimostrano le passate campagne
militari dirette dell’esercito turco in territorio siriano, ossia la
cosiddetta operazione “scudo dell’Eufrate” e quella “ramoscello d’ulivo”
nella parte nord-occidentale del paese, infatti, una volta che Ankara
si spinge molto in là con gli annunci guerrafondai, poi non torna più
indietro.
La
moneta di scambio proposta dai turchi, in cambio del via libera ad
un’ulteriore operazione militare sarebbe la rinuncia all’acquisto dei
lanciarazzi S-400 dalla Russia per rimanere nel programma di forniture
degli F-35 americani; pertanto, da parte di Washington, ci sarebbe un
passo indietro nell’imposizione della propria egemonia politico-militare
a favore di benefici a breve termine per l’industria bellica.
Al
momento, dunque, l’ipotesi peggiore, ma molto concreta, per le milizie
curde vede prefigurarsi uno scenario simile a quello di Afrin, dove sono
rimaste completamente isolate in fatto di alleanze sul terreno e sono
state vittima abbastanza “facile” dell’esercito turco, che ha utilizzo
come “carne da cannone” un coacervo di gruppi armati fondamentalisti
sunniti, attraverso i quali ha creato un semi-stato nell’area, nel quale
alloca le famiglie delle decine di migliaia di miliziani propri alleati
in ritirata da altre aree della Siria nonché i profughi siriani
presenti sul proprio territorio. Ciò, ovviamente a discapito della
popolazione autoctona (composta da molte etnie, con prevalenza curda),
che è quotidianamente vittima di confische o è stata costretta ad
emigrare nelle aree controllate dal Governo di Damasco, dove è sistemata
in campi profughi.
Anche
in questo caso, dunque, le Ypg-Ypj, da un lato si trovano “vendute”
alla Turchia dall’“alleato” americano, da un altro lato devono
confrontarsi con il sostanziale disinteresse della Russia, la quale
preferisce senz’altro la coabitazione con l’esercito turco rispetto a
quella con i marines americani.
Ad
essere onesti, tale susseguirsi di eventi mette il Pyd (braccio
politico delle Ypg-Ypj) di fronte ad una resa dei conti complessiva
rispetto alla strategia seguita sin dall’inizio della crisi siriana, che
lo ha visto di volta in volta allearsi o provare a farlo con tutte le
potenze straniere, USA, Francia, Arabia Saudita, Russia e finanche la
stessa Turchia (quando, fra il 2011 e il 2013 il negoziato fra Ankara e
il Pkk era in fase avanzata), per poi rimanere isolato in momenti
topici.
Come
accaduto anche nelle altre occasioni in cui gli USA hanno lanciato
segnali negativi, i dirigenti curdi si muovono in due direzioni; cercano
da un lato, con gli esponenti più di primo piano, di richiamare la
cosiddetta coalizione anti-Isis a guida americana a rispettare i propri
doveri, mantenendo il proprio supporto e la propria presenza militare in
Siria e chiedendo eventualmente alle altre potenze (Francia in primis,
ma anche l’Arabia Saudita) di rimpiazzare i marines in ritirata; da un
altro lato, con i media e gli esponenti meno in vista e più legati agli
apparati militari, cercano di richiamare il Governo di Damasco, di cui
in altre circostanze si negano l’autorità e il ruolo, a perseguire “il
proprio dovere di difesa dei confini”.
Da
Damasco, invece, le dichiarazioni vengono rilasciate con il contagocce,
segno evidente che si attende l’evolversi degli eventi, evitando
eccessive esposizioni: il rappresentante del governo alle Nazioni Unite
ha fatto sapere che da parte di Damasco si dubita fortemente
sull’effettività del ritiro americano, mentre nulla di rilevante ha
dichiarato sul destino delle aree sotto minaccia turca, se non le
dichiarazioni di circostanza.
Tuttavia,
anche in questo caso sono sicuramente in corso trattative sotterranee
fra le parti per evitare l’invasione turca, mediante la Russia la cui.
per ora, poco probabile attivazione diplomatica massiccia sembra l’unica
speranza per trovare un compromesso ed evitare l’escalation militare.
Alcune fonti parlano della consegna da parte delle milizie curde, al
governo di Damasco, delle aree petrolifere nella provincia di Deir
ez-Zor (la cui conquista fra il 2017 e il 2018, avvenuta precedendo
l’esercito siriano grazie ai pressanti bombardamenti americani è stata
una dei principali motivi di dissapore fra l’alleanza russo-siriana e i
curdi, che ha determinato l’isolamento politico di questi ultimi ad
Afrin), in cambio del dispiegamento dell’esercito siriano sul confine
con la Turchia in funzione di deterrenza nei confronti di un’invasione
neo-ottomana.
Tuttavia
tale piano, se pure venisse concordato, è di difficile attuazione, dal
momento che il ritiro dei soldati americani, nella migliore delle
ipotesi circolate, non avverrà prima di due o tre mesi e la Turchia
intende proprio sfruttare tale finestra temporale per agire; in più,
come detto, da parte curda, si ha ancora qualche fiducia nel ruolo che
può giocare la Francia.
Parallelamente
a questo scenario riguardante il nord-est della Siria, si evolvono, in
maniera non slegata, i colloqui diplomatici per dare un riassetto
politico definitivo al paese, dopo la fine ipotetica del conflitto; gli
sponsor principali di tali passaggi diplomatici sono Russia, Iran e
Turchia, che hanno portato, per il momento, alla nomina da una parte
(governo siriano) e dall’altra (milizie di opposizione) di alcuni
rappresentanti per riscrivere la Costituzione e soprattutto, hanno
portato il Ministro degli esteri turco a rinunciare alla rimozione della
pregiudiziale anti-Assad: ”Se Assad vincesse elezioni democratiche, la Turchia e ad altre potenze considererebbero l’ipotesi di lavorare con lui”,
ha dichiarato Cavusoglu. A mettersi di traverso, però, in questo caso è
Damasco, che prende in considerazione unicamente l’eventualità di
apportare emendamenti alla propria Costituzione, non di riscriverla in
toto.
Per
tirare le somme di tali discorsi, al momento, l’ipotesi più probabile
vede l’inizio a breve termine di un attacco turco (sempre in appoggio ai
propri proxies fondamentalisti) nei confronti principalmente
delle città di Manbij e Kobane/Ain-al-Arab in mano alle Ypg, che non
dovrebbe trovare alcun ostacolo da parte degli USA; più complicato
appare fare altre ipotesi sulla risposta degli altri “attori”, stranieri
e non, in campo.
In
particolare appare difficile fare previsioni sulla completezza del
ritiro americano e l’effettiva “profondità” di un eventuale attacco
turco. In tutto ciò non deve sfuggire che l’Isis controlla ancora una
striscia di terra a est dell’Eufrate nei pressi della città di Hajin e
possiede ancora molte cellule dormienti pronte a colpire.
In
questo quadro complesso, gli spunti di riflessione sono molteplici.
Sicuramente va visto molto positivamente il ritiro eventuale della
principale potenza imperialista dall’area, in quanto sarebbe la prima
volta, dalla prima guerra del golfo, che un paese aggredito riesce in
qualche modo a sfuggire al “regime change” confezionato a
Washington, consentendo, in questo caso, la sopravvivenza di un tassello
dell’asse di Resistenza che contrasta le ambizioni di Israele e Arabia
Saudita nell’area.
Va,
inoltre, tenuto d’occhio il ruolo della Francia, braccio armato
dell’imperialismo europeo, che potrebbe approfittare del parziale o
totale ritiro statunitense per rilevarne la funzione politica ed imporre
i propri autonomi interessi nell’area, approfondendo, così la funzione
imperialista dell’Unione Europea; in questo senso, vanno respinti gli
appelli dei media strumentalmente “filo-Ypg”, i quali invitano a
scendere in piazza per chiedere ai membri della coalizione anti-Isis di
continuare a perpetuare la propria presenza militare nell’area.
Sicuramente
la sostituzione della presenza militare USA con l’invasione della
Turchia e dei propri satelliti creerebbe una situazione di distruzione e
di caos, specie per le popolazioni non arabo-sunnite, che avevano
sperimentato una fase di relativa quiete, dalle prime sconfitte
dell’Isis nel 2015 ad oggi. Tuttavia va denunciato chiaramente che
questa è la moneta con cui l’imperialismo americano ripaga da sempre i
propri “alleati” locali nelle aggressioni imperialiste, a prescindere
dalla loro impostazione ideologica e dai loro particolari obiettivi.
Quindi, occorre sperare che una particolare “combinazione diplomatica”,
la quale non può che essere a trazione russa in questo momento,
scongiuri l’escalation miliare.
In
ogni caso, l’evidenza dei fatti dice che l’esperimento politico
dell’entità semi-statale conosciuta come Rojava, la quale in alcuni
aree, come Afrin e Kobane, ha consentito l’effettiva sperimentazione di
un modello sociale municipalista, mentre in altre aree ha semplicemente
eseguito quelli che erano gli obiettivi bellici statunitensi di fase ed
ha completamento fallito nel ristabilire i servizi minimi per la
popolazione (Raqqa in primis), in queste circostanze complesse vede
seriamente messa a rischio la propria esistenza.
A
conferma del fatto che gli obiettivi di smembramento e di
destabilizzazione nei confronti di alcuni stati nazionali perseguiti
dagli imperialismi sono inconciliabili con le legittime aspirazioni dei
popoli oppressi; tali istanze opposte non possono trovare alcun punto di
incontro, né in Siria, né altrove.
Nessun commento:
Posta un commento