«L’economia europea sta crescendo al ritmo più elevato del decennio,
con un’occupazione record, recuperando investimenti e migliorando la
finanza pubblica».
jacobinitalia.it Teresa Battista, giacobina.
Così il comunicato stampa della Commissione Europea del maggio di quest’anno. Tutto bene quel che finisce bene insomma. La crisi è solo un brutto ricordo a cui fortunatamente le istituzioni europee hanno saputo reagire riportando i paesi sul binario virtuoso. Virtuoso però per il 10% più ricco della società, che accumula profitti e rendite, non per la maggioranza che vive di lavoro. Per i lavoratori e le lavoratrici il binario della flessibilità coincide solo con maggiore sfruttamento e un impoverimento generalizzato.
Secondo l’idea della Commissione, del Fondo Monetario Internazionale, ma anche dell’Ocse, ispirata alle teorie neoclassiche (o marginaliste), gli elevati tassi di disoccupazione sono dovuti principalmente e prioritariamente alle norme, istituzioni, che regolano il mercato del lavoro. In particolare, la protezione contro i licenziamenti, i sussidi di disoccupazione, i sindacati, la contrattazione collettiva di salari e diritti nei luoghi di lavoro. L’esistenza di queste regole, nate nel Novecento a garanzia dei lavoratori e dei loro diritti sono considerate delle rigidità che impediscono alle forze di mercato di operare al meglio, raggiungere un equilibrio tra domanda e offerta di lavoro che sia efficiente, cioè che non sprechi nulla. Senza queste regole, imprenditori e lavoratori sono liberi di contrattare domanda e offerta, mettersi d’accordo. Quando esiste disoccupazione ridurre i sussidi stimolerà i lavoratori a cercare un impiego più in fretta e abbassare il livello di salario accettabile, finora mantenuto alto proprio dall’esistenza dei sussidi, considerati una garanzia di troppo. Allo stesso modo le imprese soprattutto durante le crisi potranno aggiustare la domanda di lavoro rispetto alle oscillazioni del ciclo economico, licenziando o pagando minori salari.
Una visione che non produce gli effetti sperati né dal punto di vista teorico né da quello empirico, dei fatti. Sul piano teorico, la Controversia del Capitale tra le due Cambridge aveva già impresso una definitiva smentita della teoria neoclassica sulla quale si basano le previsioni di cui sopra. Non bastò, il dibattito e i suoi esiti rimasero, nel migliore dei casi, circoscritti al mondo accademico che non riuscì a riconquistare egemonia nella società e nel suo governo. Era un tentativo di andare oltre l’impostazione keynesiana, affermando la necessità di riconquistare non tanto e non solo il controllo del ciclo economico per salvare il capitalismo, ma il governo dei processi economici: il cosa come e quanto si produce in una società intrinsecamente conflittuale.
Così nel 1994, l’Ocse in un copioso rapporto, il Job Study, suggerisce ai paesi europei di mettere mano al diritto del lavoro e alle relazioni industriali in questa direzione, l’unica in grado di colmare il divario di disoccupazione tra Europa e Stati Uniti, dove è strutturalmente più basso, incarnando i precetti neoliberali.
La stessa istituzione cominciò allora a usare un indicatore per esprimere il grado di rigidità del mercato del lavoro, l’Employment Protection Legislation (Epl), e quindi sue variazioni in base alle riforme via via adottate dai paesi. Non convinti, a buona ragione, di questa teoria e tendenza politica, molti ricercatori hanno studiato negli anni il legame tra questo indice e i livelli di disoccupazione, prodigandosi anche a replicare gli esperimenti condotti da chi invece ne sosteneva una forte correlazione positiva: maggiore rigidità è associata a maggiore disoccupazione. In Disoccupazione e istituzioni del mercato del lavoro: Il fallimento del caso empirico per la deregolamentazione, Dean Baker, Andrew Glyn, David Howell, and John Schmitt concludono «i risultati empirici sono in gran parte inconcludenti, mostrando spesso stime di segno opposto», soprattutto – aggiungono «le relazioni più solide che si trovano in questa letteratura suggeriscono che istituzioni del mercato del lavoro più forti sono associate a livelli più bassi disoccupazione».
Game, set, match si potrebbe dire.
E invece no, per tutto il periodo prima durante e dopo la crisi, le istituzioni sovranazionali e internazionali hanno imposto agli stati misure di liberalizzazione sempre più pervasive.
Si dirà che sì l’occupazione è aumentata, ma di nuovo quanto pesa? Tutto il paternalismo insito nelle riforme volte a liberalizzare i contratti per dare un’opportunità ai giovani non ha fatto altro che costringerli a vivere in uno stato di precarietà permanente, peggiorando notevolmente le loro condizioni occupazionali. Più della metà dei giovani under 25 francesi, spagnoli, portoghesi, tedeschi e italiani hanno un’occupazione a termine, un’incidenza che in alcuni casi è addirittura raddoppiata dal 2000 a oggi. È il caso dell’Italia dove la quota passa dal 26 al 62%, ma non solo. Precarizzazione che non coinvolge soltanto i giovani ma tutti i lavoratori. Da quelli che subiscono le esternalizzazioni del settore pubblico e del settore privato, costretti a regimi salariali al di sotto dei minimi contrattuali e/o del salario minimo: sono uomini e donne, facchini e lavoratrici delle pulizie, della grande distribuzione. Sono tutti quei lavoratori a cui è stato posticipato il diritto alla pensione e che si ritrovano oltre i sessant’anni o i sessantacinque nei luoghi di lavoro o alle prese con un mini-job perché non più produttivi abbastanza per ricevere un salario dignitoso. Sono tutte quelle donne che dovevano essere avvicinate e incluse in questo mondo del lavoro ma a cui è stato offerto solo un lavoro part-time, spesso involontario.
E ancora coloro a cui è stato eliminato il diritto al lavoro potendo essere licenziati anche soltanto perché i profitti diminuiscono (pur in assenza di una crisi aziendale). Eccolo spiegato l’obiettivo di fondo sancito nell’introduzione del Jobs Act, la summa riforma approvata dal governo Renzi, «allo scopo […] di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Da qui bisogna ripartire per rimettere insieme i pezzi e aggiungere seppure sinteticamente quelli mancanti.
Come raccomandò l’Ocse, per ridurre la disoccupazione strutturale e far convergere il mercato del lavoro dei diversi paesi Ocse verso livelli simili a quelli degli Stati Uniti, bisognava rendere flessibili i salari adeguandoli alle esigenze del mercato. In quelle pagine non poteva ancora emergere quanto il Bureau of Labor Statistics (Bls) avrebbe dichiarato due anni dopo: delle persone attive nel mercato del lavoro per almeno 27 settimane, disoccupate o con un’occupazione, il 5,8% era povero. In particolare, «la maggioranza dei working poor (58%) lavoravano a tempo pieno». Erano i lontani anni Novanta, poi arrivò la crisi e di nuovo la piena occupazione d’Oltreoceano apparve un miraggio per i tanti che contano gli occupati invece di pesarli.
Infatti, a guardare i dati del censimento sulla popolazione del 2016 si nota come il 6,3% dei lavoratori risulta povero, sono 9,4 milioni in valore assoluto, ma sono soprattutto lavoratori atipici e part-time, per non parlare dei part-time involontari per cui l’incidenza della povertà arriva al 22%.
Un modello che restituisce flessibilità e povertà sulla pelle dei lavoratori non poteva non essere esportato. Così anche al di qua dell’Atlantico, dopo due decenni di riforme, la situazione pare deteriorarsi di anno in anno. In paesi del Sud Europa come Italia e Spagna il tasso di lavoratori a rischio povertà passa dal 9% del 2008 al 12,3% del 2017, in Spagna dal 12,8 al 19%. Si ricorderà il monito dell’ex-rettore dell’Università Bocconi di Milano, l’economista Guido Tabellini, per cui l’Italia avrebbe dovuto seguire come “modello” le riforme del lavoro spagnole che avevano permesso di recuperare occupazione riducendo i salari. A qual fine? Permettere anche alle imprese meno produttive di stare sul mercato e fare profitti, non ai lavoratori, che letteralmente potevano pure morire di fame. E così fu anche in Italia. Non fa eccezione la Germania, locomotiva d’Europa dove la svalutazione interna rimane uno dei pilastri del suo successo: il tasso di povertà nel lavoro è aumentato del 178% 1989-2013, secondo uno studio del The German Socio-Economic Panel study. Nel 2017, i working poor sono il 9% della forza lavoro, erano il 4,8% nel 2005, quando la riforma Hartz – di cui i tratti più salienti possono essere riassunti nella liberalizzazione del lavoro in somministrazione e l’introduzione dei mini jobs – fu completata.
C’entra o no la precarietà lavorativa (chiamata flessibilità dai suoi promotori) con questi risultati? Sì eccome e a dirlo sono istituzionali come l’Eurofound, un’agenzia indipendente della Commissione Europea: «l’aumento dell’occupazione atipica [precaria nda] ha contribuito alla crescita della povertà lavorativa». Parole scritte nel 2017, che confermano quanto detto già nel 2010, a crisi già avviata e prima che la Commissione raccomandasse – si legga imponesse – le riforme volte a precarizzare ulteriormente il mondo del lavoro di praticamente tutta Europa.
Va inoltre aggiunto che data la crisi e l’impoverimento generalizzato della maggioranza della popolazione, i redditi mediani – relativi al 50% più povero della popolazione – su cui si basano le misure di povertà lavorativa sono diminuiti a loro volta. Ciò implica che se valutassimo i redditi da lavoro di oggi rispetto alla soglia di povertà relativa a valori pre-crisi, avremmo dinamiche ben peggiori. Quanto appena detto non è un vezzo tecnico ma apre forse il punto più dirimente, quello relativo alle diseguaglianze dei redditi, esacerbate proprio da questo lungo processo di riforma. Precarizzare i contratti di lavoro, disinnescare legalmente il potere dei sindacati aumenta le diseguaglianze, parole dei ricercatori del Fondo Monetario Internazionale. Al contrario, introdurre meccanismi di protezione per i salari come il salario minimo riducono le disuguaglianze, perché aiutano proprio le fasce più vulnerabili a sfuggire alla morsa del lavoro sottopagato quando non addirittura gratuito. Un esempio è proprio il caso tedesco: aver introdotto nel 2015 il salario minimo ha ridotto i divari di reddito di mercato tra i lavoratori. Alfred Garloff in un recente lavoro dimostra, nonostante il suo stesso stupore, che l’introduzione del salario minimo migliora l’occupazione regolare e riduce il ricorso ai maledetti mini-jobs! Proprio nell’anno di implementazione, era stato il centro studi del Fondo Monetario Internazionale a sostenere che «l’erosione dei salari minimi aumenta i livelli di disuguaglianza». Diseguaglianza che esplode non solo e non tanto nei salari individuali e/o di questo o quel settore, ma che abbraccia l’intero sistema di produzione. Sul totale del reddito nazionale, la quota spettante alla classe lavoratrice cede il passo ai redditi da capitale e ciò comporta maggiore diseguaglianza economica, sociale e politica. E se è vero com’è vero quanto scrisse Tony Atkinson nel 2009 e cioè che la distribuzione del reddito tra fattori di produzione (capitale e lavoro) «dovrebbe essere il tema principale della politica economica», è altrettanto vero che la dinamica in atto altro non è che l’esempio plastico delle tensioni interne ai processi di produzione. Infatti i famigerati aumenti di produttività non vengono distribuiti equamente tra salari e profitti, privilegiando di gran lunga i secondi. Lo riporta chiaramente uno studio dell’Ocse sui paesi del G20 secondo cui tra il 2000 e il 2013 mentre l’indice della produttività passa da 102 a 117, quello relativo ai salari passa appena da 101 a 105. In particolare, nel 2014, in tutti questi paesi i profitti si sono accaparrati circa il 10% in più del reddito totale rispetto al 1970, in termini meramente quantitativi il furto operato dal capitale sul lavoro. Qualcuno potrebbe ancora obiettare che tutto ciò dipende dai cambiamenti tecnologici in atto e che questa distribuzione sia giusta, dove però l’assunto di fondo rimane sempre lo stesso: i meritevoli sono sempre gli altri, non la classe lavoratrice.
*Teresa Battista, giacobina.
jacobinitalia.it Teresa Battista, giacobina.
Così il comunicato stampa della Commissione Europea del maggio di quest’anno. Tutto bene quel che finisce bene insomma. La crisi è solo un brutto ricordo a cui fortunatamente le istituzioni europee hanno saputo reagire riportando i paesi sul binario virtuoso. Virtuoso però per il 10% più ricco della società, che accumula profitti e rendite, non per la maggioranza che vive di lavoro. Per i lavoratori e le lavoratrici il binario della flessibilità coincide solo con maggiore sfruttamento e un impoverimento generalizzato.
Ideologia neoliberale
Il travagliato cammino per tornare in carreggiata è stato quello delle riforme strutturali tra cui quella del mercato del lavoro, verso una sua maggiore flessibilità per permettere al mercato di gestire al meglio, come lui solo sa fare, le risorse a disposizione. Ma le riforme del mercato del lavoro adottate e/o imposte dal 2008 non costituiscono che l’ultimo tassello di un processo ben più lungo e duraturo, che a livello internazionale si manifesta e prende piede da metà anni Settanta, quando bisognava gestire la crisi precedente. Se fino ai primi anni Novanta, il coordinamento sovranazionale era stato poco coercitivo, la direzione auspicata dalle istituzioni internazionali fu fin da subito tassativa.Secondo l’idea della Commissione, del Fondo Monetario Internazionale, ma anche dell’Ocse, ispirata alle teorie neoclassiche (o marginaliste), gli elevati tassi di disoccupazione sono dovuti principalmente e prioritariamente alle norme, istituzioni, che regolano il mercato del lavoro. In particolare, la protezione contro i licenziamenti, i sussidi di disoccupazione, i sindacati, la contrattazione collettiva di salari e diritti nei luoghi di lavoro. L’esistenza di queste regole, nate nel Novecento a garanzia dei lavoratori e dei loro diritti sono considerate delle rigidità che impediscono alle forze di mercato di operare al meglio, raggiungere un equilibrio tra domanda e offerta di lavoro che sia efficiente, cioè che non sprechi nulla. Senza queste regole, imprenditori e lavoratori sono liberi di contrattare domanda e offerta, mettersi d’accordo. Quando esiste disoccupazione ridurre i sussidi stimolerà i lavoratori a cercare un impiego più in fretta e abbassare il livello di salario accettabile, finora mantenuto alto proprio dall’esistenza dei sussidi, considerati una garanzia di troppo. Allo stesso modo le imprese soprattutto durante le crisi potranno aggiustare la domanda di lavoro rispetto alle oscillazioni del ciclo economico, licenziando o pagando minori salari.
Una visione che non produce gli effetti sperati né dal punto di vista teorico né da quello empirico, dei fatti. Sul piano teorico, la Controversia del Capitale tra le due Cambridge aveva già impresso una definitiva smentita della teoria neoclassica sulla quale si basano le previsioni di cui sopra. Non bastò, il dibattito e i suoi esiti rimasero, nel migliore dei casi, circoscritti al mondo accademico che non riuscì a riconquistare egemonia nella società e nel suo governo. Era un tentativo di andare oltre l’impostazione keynesiana, affermando la necessità di riconquistare non tanto e non solo il controllo del ciclo economico per salvare il capitalismo, ma il governo dei processi economici: il cosa come e quanto si produce in una società intrinsecamente conflittuale.
Così nel 1994, l’Ocse in un copioso rapporto, il Job Study, suggerisce ai paesi europei di mettere mano al diritto del lavoro e alle relazioni industriali in questa direzione, l’unica in grado di colmare il divario di disoccupazione tra Europa e Stati Uniti, dove è strutturalmente più basso, incarnando i precetti neoliberali.
La stessa istituzione cominciò allora a usare un indicatore per esprimere il grado di rigidità del mercato del lavoro, l’Employment Protection Legislation (Epl), e quindi sue variazioni in base alle riforme via via adottate dai paesi. Non convinti, a buona ragione, di questa teoria e tendenza politica, molti ricercatori hanno studiato negli anni il legame tra questo indice e i livelli di disoccupazione, prodigandosi anche a replicare gli esperimenti condotti da chi invece ne sosteneva una forte correlazione positiva: maggiore rigidità è associata a maggiore disoccupazione. In Disoccupazione e istituzioni del mercato del lavoro: Il fallimento del caso empirico per la deregolamentazione, Dean Baker, Andrew Glyn, David Howell, and John Schmitt concludono «i risultati empirici sono in gran parte inconcludenti, mostrando spesso stime di segno opposto», soprattutto – aggiungono «le relazioni più solide che si trovano in questa letteratura suggeriscono che istituzioni del mercato del lavoro più forti sono associate a livelli più bassi disoccupazione».
Game, set, match si potrebbe dire.
E invece no, per tutto il periodo prima durante e dopo la crisi, le istituzioni sovranazionali e internazionali hanno imposto agli stati misure di liberalizzazione sempre più pervasive.
La catastrofe sociale
A dieci anni dalla crisi e dalle raccomandazioni della Troika, i dati del disagio sociale, disoccupazione compresa, rimangono allarmanti. Il tasso di disoccupazione europeo è ancora al 10% con picchi del 25% in Grecia, 22 in Spagna, 11 in Italia. Inoltre, guardando ai paesi europei che maggiormente sono intervenuti in materia a fine 2017 ci si ritrova ancora con un tasso di disoccupazione giovanile (under 25) che va dal 22 della Francia al 40% della Grecia, nel mezzo troviamo Italia, Spagna e Portogallo. A questi si aggiungono i dati dei Neet, giovani che non studiano e non lavorano, sono ancora 12,4 milioni nel 2016, circa 6 milioni di questi sono completamente inattivi, cioè disoccupati che non cercano lavoro.Si dirà che sì l’occupazione è aumentata, ma di nuovo quanto pesa? Tutto il paternalismo insito nelle riforme volte a liberalizzare i contratti per dare un’opportunità ai giovani non ha fatto altro che costringerli a vivere in uno stato di precarietà permanente, peggiorando notevolmente le loro condizioni occupazionali. Più della metà dei giovani under 25 francesi, spagnoli, portoghesi, tedeschi e italiani hanno un’occupazione a termine, un’incidenza che in alcuni casi è addirittura raddoppiata dal 2000 a oggi. È il caso dell’Italia dove la quota passa dal 26 al 62%, ma non solo. Precarizzazione che non coinvolge soltanto i giovani ma tutti i lavoratori. Da quelli che subiscono le esternalizzazioni del settore pubblico e del settore privato, costretti a regimi salariali al di sotto dei minimi contrattuali e/o del salario minimo: sono uomini e donne, facchini e lavoratrici delle pulizie, della grande distribuzione. Sono tutti quei lavoratori a cui è stato posticipato il diritto alla pensione e che si ritrovano oltre i sessant’anni o i sessantacinque nei luoghi di lavoro o alle prese con un mini-job perché non più produttivi abbastanza per ricevere un salario dignitoso. Sono tutte quelle donne che dovevano essere avvicinate e incluse in questo mondo del lavoro ma a cui è stato offerto solo un lavoro part-time, spesso involontario.
E ancora coloro a cui è stato eliminato il diritto al lavoro potendo essere licenziati anche soltanto perché i profitti diminuiscono (pur in assenza di una crisi aziendale). Eccolo spiegato l’obiettivo di fondo sancito nell’introduzione del Jobs Act, la summa riforma approvata dal governo Renzi, «allo scopo […] di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Da qui bisogna ripartire per rimettere insieme i pezzi e aggiungere seppure sinteticamente quelli mancanti.
Il dominio del capitale
È tempo di abbandonare l’idea tutta inconsistente che le leggi e il ruolo delle istituzioni siano solo “olio negli ingranaggi”, automatici e neutrali di un presunto terreno di libertà, il mercato. Al contrario, come scriveva il sociologo politico Nicos Poulantzas in Classes in Contemporary Capitalism, «le istituzioni e gli apparati non posseggono un loro potere, ma semplicemente esprimono e cristallizzano i poteri di classe». Sono espressioni di un rapporto sociale in conflitto e dominato da chi in quel preciso contesto storico governa quel conflitto. Oggi, ma potremmo dire negli ultimi decenni il potere è dalla parte del capitale, degli interessi dei capitalisti i quali hanno necessità di riaffermarsi con maggiore forza al fine di concretizzare la ristrutturazione che il sistema capitalistico necessita per non soccombere all’ennesima crisi che, forse è il caso di ricordarlo, è un prodotto del capitalismo stesso e non una calamità naturale imprevedibile. L’esplodere del lavoro a termine, sempre più usa e getta, dell’esternalizzazione delle relazioni industriali mediate non più all’interno delle aziende ma delegate alle agenzie di somministrazioni, vanno lette come il tentativo delle imprese di rendere perfettamente variabile il costo del lavoro così da adattarlo al ciclo economico. Nelle fasi in cui la domanda di beni prodotti aumenta, le aziende assumeranno ma potranno licenziare in qualsiasi momento quando le commesse diminuiscono. A ritroso però, bisogna tenere presente che l’obiettivo dell’impresa rimane la massimizzazione dei propri redditi, i profitti, quindi pur in una gestione ciclica della forza lavoro proverà a competere sul prezzo schiacciando il costo del lavoro. Questo è allora reso possibile dall’accresciuta vulnerabilità dei lavoratori, resi ricattabili dal permanente rischio disoccupazione. Tra gli obiettivi politici delle riforme del lavoro va inclusa la possibilità di accrescere quello che Karl Marx definiva il terzo tipo di esercito industriale di riserva di cui fa parte la popolazione “stagnante”, cioè tutti quelli attivi ma con occupazioni estremamente irregolari. Non solo e non tanto nell’accezione di informale, ma proprio “precaria”, come sottolineò già nel lontano 1964 l’economista Paolo Sylos Labini nell’articolo Precarious Employment in Sicily, composta da tutti coloro che «impegnati in diverse attività non hanno garanzia di stabilità della loro occupazione o del loro reddito e quindi non hanno prospettive definite di miglioramento», ma anche «coloro che non hanno uno stabile contratto di lavoro o non lo hanno affatto». La possibilità di infliggere un tale ricatto risiede in un altro meccanismo favorevole al comando del capitale: la perfetta mobilità dei capitali che si concretizza nella possibilità a delocalizzare la produzione ogni qualvolta si presenti l’opportunità di sfruttare di più il lavoro ed estrarre maggiori profitti. Di fronte al rischio disoccupazione ma più generale di impoverimento industriale – che riduce anche le possibilità di occupazione futura – i lavoratori sono stretti in una morsa micidiale: accettare tagli ai salari, alle condizioni di lavoro ma mantenere il posto oppure rifiutare e perdere l’occupazione. Una storia vista e rivista in questi decenni, ma mai irreversibile.Povertà e diseguaglianza
La materialità delle riforme del lavoro si presenta sotto forma di povertà dei lavoratori e aumento delle diseguaglianze.Come raccomandò l’Ocse, per ridurre la disoccupazione strutturale e far convergere il mercato del lavoro dei diversi paesi Ocse verso livelli simili a quelli degli Stati Uniti, bisognava rendere flessibili i salari adeguandoli alle esigenze del mercato. In quelle pagine non poteva ancora emergere quanto il Bureau of Labor Statistics (Bls) avrebbe dichiarato due anni dopo: delle persone attive nel mercato del lavoro per almeno 27 settimane, disoccupate o con un’occupazione, il 5,8% era povero. In particolare, «la maggioranza dei working poor (58%) lavoravano a tempo pieno». Erano i lontani anni Novanta, poi arrivò la crisi e di nuovo la piena occupazione d’Oltreoceano apparve un miraggio per i tanti che contano gli occupati invece di pesarli.
Infatti, a guardare i dati del censimento sulla popolazione del 2016 si nota come il 6,3% dei lavoratori risulta povero, sono 9,4 milioni in valore assoluto, ma sono soprattutto lavoratori atipici e part-time, per non parlare dei part-time involontari per cui l’incidenza della povertà arriva al 22%.
Un modello che restituisce flessibilità e povertà sulla pelle dei lavoratori non poteva non essere esportato. Così anche al di qua dell’Atlantico, dopo due decenni di riforme, la situazione pare deteriorarsi di anno in anno. In paesi del Sud Europa come Italia e Spagna il tasso di lavoratori a rischio povertà passa dal 9% del 2008 al 12,3% del 2017, in Spagna dal 12,8 al 19%. Si ricorderà il monito dell’ex-rettore dell’Università Bocconi di Milano, l’economista Guido Tabellini, per cui l’Italia avrebbe dovuto seguire come “modello” le riforme del lavoro spagnole che avevano permesso di recuperare occupazione riducendo i salari. A qual fine? Permettere anche alle imprese meno produttive di stare sul mercato e fare profitti, non ai lavoratori, che letteralmente potevano pure morire di fame. E così fu anche in Italia. Non fa eccezione la Germania, locomotiva d’Europa dove la svalutazione interna rimane uno dei pilastri del suo successo: il tasso di povertà nel lavoro è aumentato del 178% 1989-2013, secondo uno studio del The German Socio-Economic Panel study. Nel 2017, i working poor sono il 9% della forza lavoro, erano il 4,8% nel 2005, quando la riforma Hartz – di cui i tratti più salienti possono essere riassunti nella liberalizzazione del lavoro in somministrazione e l’introduzione dei mini jobs – fu completata.
C’entra o no la precarietà lavorativa (chiamata flessibilità dai suoi promotori) con questi risultati? Sì eccome e a dirlo sono istituzionali come l’Eurofound, un’agenzia indipendente della Commissione Europea: «l’aumento dell’occupazione atipica [precaria nda] ha contribuito alla crescita della povertà lavorativa». Parole scritte nel 2017, che confermano quanto detto già nel 2010, a crisi già avviata e prima che la Commissione raccomandasse – si legga imponesse – le riforme volte a precarizzare ulteriormente il mondo del lavoro di praticamente tutta Europa.
Va inoltre aggiunto che data la crisi e l’impoverimento generalizzato della maggioranza della popolazione, i redditi mediani – relativi al 50% più povero della popolazione – su cui si basano le misure di povertà lavorativa sono diminuiti a loro volta. Ciò implica che se valutassimo i redditi da lavoro di oggi rispetto alla soglia di povertà relativa a valori pre-crisi, avremmo dinamiche ben peggiori. Quanto appena detto non è un vezzo tecnico ma apre forse il punto più dirimente, quello relativo alle diseguaglianze dei redditi, esacerbate proprio da questo lungo processo di riforma. Precarizzare i contratti di lavoro, disinnescare legalmente il potere dei sindacati aumenta le diseguaglianze, parole dei ricercatori del Fondo Monetario Internazionale. Al contrario, introdurre meccanismi di protezione per i salari come il salario minimo riducono le disuguaglianze, perché aiutano proprio le fasce più vulnerabili a sfuggire alla morsa del lavoro sottopagato quando non addirittura gratuito. Un esempio è proprio il caso tedesco: aver introdotto nel 2015 il salario minimo ha ridotto i divari di reddito di mercato tra i lavoratori. Alfred Garloff in un recente lavoro dimostra, nonostante il suo stesso stupore, che l’introduzione del salario minimo migliora l’occupazione regolare e riduce il ricorso ai maledetti mini-jobs! Proprio nell’anno di implementazione, era stato il centro studi del Fondo Monetario Internazionale a sostenere che «l’erosione dei salari minimi aumenta i livelli di disuguaglianza». Diseguaglianza che esplode non solo e non tanto nei salari individuali e/o di questo o quel settore, ma che abbraccia l’intero sistema di produzione. Sul totale del reddito nazionale, la quota spettante alla classe lavoratrice cede il passo ai redditi da capitale e ciò comporta maggiore diseguaglianza economica, sociale e politica. E se è vero com’è vero quanto scrisse Tony Atkinson nel 2009 e cioè che la distribuzione del reddito tra fattori di produzione (capitale e lavoro) «dovrebbe essere il tema principale della politica economica», è altrettanto vero che la dinamica in atto altro non è che l’esempio plastico delle tensioni interne ai processi di produzione. Infatti i famigerati aumenti di produttività non vengono distribuiti equamente tra salari e profitti, privilegiando di gran lunga i secondi. Lo riporta chiaramente uno studio dell’Ocse sui paesi del G20 secondo cui tra il 2000 e il 2013 mentre l’indice della produttività passa da 102 a 117, quello relativo ai salari passa appena da 101 a 105. In particolare, nel 2014, in tutti questi paesi i profitti si sono accaparrati circa il 10% in più del reddito totale rispetto al 1970, in termini meramente quantitativi il furto operato dal capitale sul lavoro. Qualcuno potrebbe ancora obiettare che tutto ciò dipende dai cambiamenti tecnologici in atto e che questa distribuzione sia giusta, dove però l’assunto di fondo rimane sempre lo stesso: i meritevoli sono sempre gli altri, non la classe lavoratrice.
La politica e il conflitto: il problema è sempre il capitalismo
L’uso politico dei dettami neoliberisti, la cui consistenza è stata ampiamente confutata a livello teorico ed empirico, rimane lo strumento privilegiato dalle classi dominanti per imporre un’agenda politica a loro vantaggio. La presunta scientificità alla base di queste politiche non è che uno strumento funzionale da utilizzare se e quando conviene. L’unico vero obiettivo è il mantenimento di una posizione dominante rispetto al conflitto sociale, modificando le istituzioni a loro vantaggio per governare le crisi prodotte dallo stesso capitalismo. Il controllo del capitale sul lavoro oggi parte dal riconfigurarsi della produzione e della sua governance, reti di imprese controllate in un assetto monopolistico in cui la produzione viene frammentata, esternalizzata e terziarizzata, al fine di garantire una maggiore estrazione di valore con minori vincoli “sociali”. Sempre più inoltre la variabilità del lavoro è imposta da forme di auto-imprenditorialità, lavoratori autonomi contrattualmente ma diretti dalle aziende per cui lavorano e producono valore. Rovesciare queste rinnovate forme di dominio e controllo implica un ragionamento in cui il diritto del lavoro è funzionale a obiettivi economici più generali. Obiettivi che hanno il proprio terreno di scontro nella produzione e quindi anche nelle istituzioni che la governano, negli assetti delle relazioni industriali, nella centralità dei parlamenti e quindi nell’estensione degli spazi di potere e democrazia dentro e fuori i luoghi di lavoro. Lottare per la dignità del lavoro rimane una battaglia politica da condurre a tutto spiano dentro le nuove forme del capitalismo e le sue ristrutturazioni, anche istituzionali.*Teresa Battista, giacobina.
Nessun commento:
Posta un commento