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«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori
si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio
chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali
di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da
fare per far decollare lo sviluppo del nostro paese, la crescita del
nostro popolo e il suo benessere… Hanno fatto in modo che l’Africa, il
suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli
interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che
ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario». Questo
discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’“assemblea dei paesi
non allineati”, Oua. Fu assassinato due mesi dopo. Debbo la conoscenza
di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio
giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di
Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in
onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima
puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia.
Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il
Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio
degli sprechi
statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò
un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di
scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece
un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni
di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il paese dalle importazioni
forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu
questo rifiuto a perderlo, Francia
e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere
pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i paesi
occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di
Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il
Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati.
Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere.
Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in
banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era
cresciuto. Questo discorso di Sankara è più importante di quello che
Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe
costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente
laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a
denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del
Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista
definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista
Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra – nel 2000). Sankara, a differenza
di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le
devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione
in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello
di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole
pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni
fa durante un summit del G7 i sette paesi più poveri del mondo, con
alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono
un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva
una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su “Repubblica”).
Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa
loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi
paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in
buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a
nostro uso e consumo. Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi
ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle Onlus
come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano,
attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi
‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché – e almeno questo
dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo – sono facili
obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo
Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui
riscatti. E’ stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e
dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione
costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari.
In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto
legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire
la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina
che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.
(Massimo Fini, “Aiutiamo l’Africa andandocene via” dal “Fatto Quotidiano” del 29 novembre 2018; articolo ripreso sul blog di Fini).
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giovedì 6 dicembre 2018
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