Perotti, ex commissario alla spending review: «Tagliati 25 miliardi, ma sono state aumentate altre spese per la stessa cifra. E i costi della politica non sono scesi».
Perché ha scelto di lasciare il suo incarico a Palazzo Chigi?
«Perché
io ero andato lì, e vi ero stato chiamato, per ridurre la spesa
pubblica. Mi sono reso conto che, per decisioni politiche che rispetto, è
stato deciso di non ridurla seriamente. A quel punto a me non
interessava star lì a lavorare su come ridurre una detrazione da dieci
milioni e aumentarne un’altra. A quel punto mi sono reso conto che non
c’era la volontà di ridurre la spesa pubblica, e ho considerato il mio
mandato inutile»
Il presidente del Consiglio, il ministro
dell’Economia e il commissario alla “spending review” ripetono che la
spesa pubblica è stata ridotta dal 2014 di 25 miliardi. Non è una cifra
banale, è quasi 2% del Pil
«Questa non è un’affermazione
inesatta ma è altamente ingannevole, nel senso i capitoli che sono stati
ridotti, se si mettono insieme, lo sono stati per circa 25 miliardi.
Poi ce ne sono stati altri che sono stati aumentati in maniera
equivalente. Quindi, al netto, la spesa pubblica non è diminuita. Poi si
può discutere se la riduzione da 25 miliardi sia stata una buona cosa
per fare spazio a misure più utili. Su quello ognuno ha la sua
opinione».
La sua qual è? Pensa che la qualità della spesa almeno sia migliorata?
«Non
particolarmente. Anche perché è difficile migliorare la qualità della
spesa se non c’è un intervento un po’ pianificato e pensato bene
all’inizio. Sono stati dati interventi soprattutto nel campo del
welfare, piccoli e non strutturati, non coordinati. Che si sono
succeduti nel tempo per accumulazione. Non c’è stato dietro un disegno,
che non è facile fare. Ma appunto perché non è facile andava, pensato
sull’arco dei due o tre anni che questo governo aveva a disposizione»
Sta parlando di bonus di vario tipo, o degli sgravi contributivi sui contratti permanenti?
«È
inutile negarlo: nonostante la retorica politica, associare il bonus ai
18enni a un aumento della spesa per la difesa contro il terrorismo non
ha alcuna motivazione. Il fatto Le Monde abbia inneggiato a questo non
significa niente. Il bonus ai 18enni è una mossa non necessariamente
elettorale o demagogica, ma senza alcuna ratio economica sociale. Anzi.
Invece molti dei i programmi di cui si sta parlando attualmente, la
quattordicesima, l’aumento delle pensioni minime, il bonus fertilità, e
via elencando, sono tutte misure quantitativamente piccole, ma molto
spesso elettorali, e soprattutto pensate in modo estemporaneo:
disperdono risorse preziose che potrebbero essere usate meglio, in base a
un disegno organico, per raggiungere chi ha veramente bisogno»
Si riferisce anche al bonus per le forze di polizia?
«Non
voglio nascondermi dietro un dito, quello era una forma di adeguamento
salariale sotto altro nome, che ci può stare. In tutto il mondo i
governi sono sottoposti a queste pressioni. Ma quando si prendono queste
misure così piccole, una di qua, una di là, e non coordinate nel tempo,
be’, necessariamente poi la qualità della spesa peggiora. E sono tutti
programmi che lasciano eredità al futuro, perché poi una volta lanciati,
è molto difficile toglierli»
Invece i 25 miliardi di tagli vengono da razionalizzazioni di acquisti, centrali di acquisto aggregate?
«Quelle
per adesso non sono ancora apparse a bilancio, sono cose che nel
bilancio 2016 non si vedranno ancora perché è un processo un po’ lungo.
Si spera che alla fine porteranno altri 4 o 5 miliardi. Sul 2016 ne
appare appena una minima parte»
Allora quei 25 miliardi di tagli da dove vengono?
«Sono
stati tagliati trasferimenti alle regioni e agli enti locali, anche se
poi non è detto si manifestino come riduzioni di spesa: potrebbero anche
diventare aumenti delle tasse a livello decentrato. Poi ci sono due
miliardi di tagli ai ministeri, 5 di tagli al fondo per la riduzione del
cuneo fiscale, e altri interventi»
Sembra di capire che il governo stia
chiedendo nuovamente della flessibilità sul deficit. Gli equilibri di
finanza pubblica le sembrano stabilizzati?
«Una premessa:
secondo me c’è un punto di partenza di questo governo su cui si può
essere d’accordo, o in ogni caso si può capire: il governo chiaramente
pensa che ci sia stato un eccesso di tecnicismo a livello della
Commissione europea. Le regole, inutile negarlo, sono complicate e un
po’ cervellotiche. C’è un motivo perché siano cervellotiche: si voleva
evitare che qualcuno facesse il furbo»
Ma al netto della regole, anche se non
esistesse il Patto di stabilità, le pare che la finanza pubblica
italiana sia su un sentiero ragionevolmente stabile?
«La mia
impressione è che ci sia un elemento di discontinuità con il passato: la
riforma delle pensioni; ovviamente se ne può discutere quanto si vuole
in termini di equità, ma dal punto di vista puramente finanziario è
stato un elemento di discontinuità ed è stata una svolta nei rapporti
con il resto del mondo. È stato il fattore che ha permesso che
all’estero si cambiasse opinione sull’Italia. La correzione apportata
dal governo Renzi con l’APE, l’anticipo pensionistico, è a mio avviso
una soluzione intelligente a un problema reale, dopo oltre un anno di
false partenze e di annunci estemporanei e poco ponderati. Al netto di
questo però non vedo una grande differenza con il passato. Anzi ho
l’impressione che, come spesso succede in politica, ci si sia un po’
seduti sugli allori»
La preoccupa che il deficit rischi di aumentare?
«Devo
anche dire la decisione del governo di aumentare il disavanzo di circa
l’1% del Pil rispetto agli impegni presi con la Commissione poteva aver
senso. Personalmente penso che sarebbe stato importante rispettare gli
impegni di riduzione della spesa, perché da un punto di visto economico
era giusto farlo e simultaneamente ridurre le tasse ancora più di quanto
si riduceva la spesa. Non scordiamoci che si può aumentare il disavanzo
anche così, diminuendo le tasse anche più della spesa. Io lo avrei
fatto, perché bisognava dare un segnale che c’è la volontà di
controllare la spesa inutile e la capacità di tagliare le tasse. Ma per
tagliare le tasse permanentemente, bisogna tagliare anche la spesa
pubblica. Mentre annunciare un taglio di tasse è facilissimo - sapeva
farlo anche Berlusconi - tagliare la spesa pubblica è maledettamente
difficile, e non si fa in tre mesi»
Per voi esperti è facile dire cosa
fare. Poi però non siete voi a dovervi prendere la responsabilità
politica e sociale delle conseguenze. Qualunque taglio di spesa è un
taglio a commesse su imprese o a trasferimenti sociali. Questo vuol dire
distribuire oneri e sacrifici. Non trova?
«Assolutamente. È
proprio per questo che l’unico modo per affrontare questo problema è
farlo da un punto di vista complessivo. Non si può farlo in tre mesi,
non si può farlo in sei mesi, bisogna guardare a tutta la spesa e avere
un’idea di quali sono i propri fini ultimi»
Cioè farlo in maniera complessiva
perché tutti devono vedere che non tocca solo loro, ma è un impegno
complessivo che tocca tutti?
«Esatto. In questo modo puoi
dire di aver toccato questo, ma anche quello. Il nostro fine ultimo
dovrebbe essere la lotta alla povertà, la lotta alla disoccupazione
giovanile. Se hai qualcosa da mostrare, se fai vedere che stai tagliando
la spesa, ma stai liberando risorse per povertà e disoccupazione
giovanile non in modo frammentario e improvvisato, ma complessivo,
allora diventa più facile. Se lo fai in modo disorganizzato e diluito
nel tempo, è difficile. Devi farlo tutto insieme, nel tempo e su tutti
gli articoli di spesa non in linea con le priorità che ti sei dato.
Soprattutto è fondamentale far vedere che si interviene sui
privilegiati, sia da un punto di vista economico che politico. È per
questo che aggredire i costi della politica è fondamentale»
Cioè è politicamente accettabile fare
un programma di riduzione di spesa solo se si fa vedere che le élite,
l’establishment sono coinvolti?
«Sì»
Renzi dice che lo ha già fatto, perché
ha ridotto i costi della politica e ha limitato i compensi dei dirigenti
pubblici a 240 mila. Dunque non è che non è successo.
«Ha
ulteriormente esteso la limitazione ai compensi che era stata introdotta
da Monti e da Letta. Però non c’è stato quel programma organico di
lotta ai costi della politica che si sarebbe potuto fare, e che
presuppone a sua volta una ricognizione organica. Facile prendersela con
questo o quell’altro ente, magari sulla spinta di qualche dato
eclatante uscito recentemente sui giornali. Quello di cui hai bisogno è
una ricognizione organica di tutto. Tutti i comparti statali, la
giustizia, le regioni, gli enti locali. Tutti i livelli ministeriali. Se
non fai un confronto con gli altri Paesi, come fai a dire che questa o
quella figura guadagnano troppo o troppo poco?»
Sulla dirigenza pubblica qualcosa è stato fatto, anche con la riforma Madia.
«A
livello economico non mi risulta che sia stato fatto molto. Anzi, a mio
avviso c’è il rischio concreto che la riforma Madia addirittura porti a
un passo indietro. Con l’abolizione delle fasce retributive
dirigenziali, ci sarà una omogeneizzazione delle retribuzioni. Ma sarà
inevitabilmente verso l’alto. Quando mai si è vista una omogeneizzazione
delle retribuzioni verso il basso? Io aumento la tua retribuzione, tu
aumenti la mia…. Bisogna tenere presente un dato non molto noto: i
dirigenti pubblici italiani a tutti livelli, ma soprattutto a livelli
apicali, sono già molto ben pagati, più per esempio i degli omologhi
inglesi. Sia a livello ministeriale che a livello locale e anche nel
campo della giustizia. E lì non mi risulta che sia stato fatto niente.
Poi c’è la riforma Madia sugli incarichi a termine e i dirigenti che
possono essere valutati: però lì secondo me è stato un enorme
specchietto per le allodole. Intanto perché i criteri di valutazione
sono incredibilmente astratti, come è inevitabile che sia. E poi
nell’università pubblica è già stato introdotto questo sistema, i
docenti dovrebbero essere valutati ogni tre anni e lo sono. E in teoria è
previsto che alla fine potresti perdere il posto. Nella storia
dell’università italiana non è mai successo che una volta un ordinario o
associato o un ricercatore sia stato rimosso. È successo due o tre
volte che dei ricercatori non sono stati confermati, sono andati al Tar e
sono stati reintegrati. Cane non mangia cane. Ma questo non è colpa
necessariamente del governo, perché è molto difficile in un sistema
pubblico fare una valutazione. Anche in Gran Bretagna è da 30 anni che
ci stanno pensando ma non hanno trovato la soluzione. Ma questa idea che
cambierà tutto secondo me è un’illusione»
Sulle partecipate pubbliche si è molto legiferato. Che ne pensa?
«Lì
purtroppo c’è un’illusione collettiva ancora più forte che nel caso
della dirigenza pubblica. Quasi niente della riforma Madia è nuovo. Sono
tutti criteri formali, aggirabili e soprattutto non mordono»
Sta parlando del fatto che le partecipate devono occuparsi solo di attività proprie della funzione pubblica?
«Sì,
è un criterio talmente generale che qualunque partecipata potrà sempre
dire che lo sta facendo. La riforma Madia inizia dicendo che da ora in
poi le amministrazioni pubbliche non potranno partecipare in società
‘non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità
istituzionali’»
Ma questo non c’era già dalle riforme degli anni precedenti?
«Sì. Ed è una frase talmente ovvia e generica che qualunque partecipata potrà sempre dire che sta svolgendo quel tipo di funzioni»
«Sì. Ed è una frase talmente ovvia e generica che qualunque partecipata potrà sempre dire che sta svolgendo quel tipo di funzioni»
Dunque anche questa riforma rischia di creare esiti gattopardeschi?
«Sì,
anche perché è una riforma fatta con criteri amministrativistici, tutta
basata da un lato su pompose enunciazioni generali che non hanno alcun
mordente, dall’altro su un elenco infinito di casi e sottocasi, ognuno
ovviamente con la sua deroga. Per esempio, la riforma dice che l’ente
partecipante non possa ripianare le perdite di una partecipata, ‘a meno
che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione
aziendale’. Quindi tutto quello che si deve fare è assumere un
consulente e farsi fare un piano di ristrutturazione aziendale. Altri
soldi che partono. Oppure, la riforma prevede che ‘in caso di risultati
negativi attribuibili alla responsabilità dell’amministratore, la parte
variabile della sua remunerazione non può essere corrisposta’. Ma
qualcuno ha mai pensato come si fa a dimostrare che un risultato
negativo è attribuibile alla responsabilità di un amministratore?
Facciamo una causa che si chiuderà tra venti anni con un’assoluzione?
Oppure ancora, se la partecipata ha avuto un risultato economico
negativo per tre anni di fila, si procede alla riduzione del 30 per
cento del compenso degli amministratori; ed è persino una giusta causa
ai fini della revoca degli amministratori. A meno che, ovviamente, ‘il
risultato economico, benché negativo, sia coerente con un piano di
risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante’. Altri
piani di risanamento, altre consulenze. Invece di tutti questi
bizantinismi, c’era un modo semplicissimo per tagliare le poltrone:
eliminare l’organismo interno di vigilanza, che non serve a niente, e
attribuirne i compiti al collegio sindacale. Si sarebbero tagliate oltre
10.000 poltrone in un colpo solo. E legalmente non c’è nessun ostacolo a
farlo. L’impatto sul risparmio di spesa sarebbe stato limitato. Ma
ovviamente qualcuno non sarebbe stato contento»
Questi aspetti sono frutto di una volontà di cambiare tutto per non cambiare niente?
«No. In questo caso sono convinto che ci fosse buona fede e la volontà di fare»
E allora perché non ha funzionato?
«Perché
la riforma è stata scritta tutta da amministrativisti, che ragionano
solo in funzione di enunciazioni formali e di elenchi di cose permesse e
proibite, e pensano che basti scrivere che una cosa è proibita perché
non avvenga più»
Un po’ napoleonico, no?
«Molto
latino. Tutto questo l’ho visto in azione, ed è terribile. La
tradizione amministrativista in azione. L’illusione che da 8.000 si
passi a 1.000 partecipate, usando criteri che sono già in teoria attivi
da dieci anni, è destinata a rimanere tale. Il risveglio sarà amaro»
Serviva un manager?
«Non
necessariamente. Serviva il buon senso. Ogni volta che si scrive un
provvedimento, ci si dovrebbe fare quattro domande: In pratica, che
effetti avrà? Come può essere aggirato? Il gioco vale la candela? Si può
attuare senza dover fare ricorso a un contenzioso giuridico infinito
che si risolverà in un nulla di fatto tra quindici anni? Anzitutto si
sarebbe dovuto fare una ricognizione definitiva e fatta bene delle
partecipate: ci sono almeno quattro elenchi ufficiali, ma in gran parte
inutilizzabili per gli scopi della riforma. Ancora oggi il governo non
sa esattamente quante e dove sono, cosa fanno, quanto spendono per ogni
dipendente, e via dicendo. E poi ci sono aziende da prendere una per
una. Per gestire un cimitero non serve una partecipata, bisogna solo
scavare delle fosse. Si dica che se ne occupa una divisione del comune.
Ci sono Comuni di diecimila abitanti con holding finanziarie. Ci sono
regioni con decine di società di startup, anche a livello comunale: una
follia. Ci sono persino Comuni con partecipate che si occupano della
semplificazione dei rapporti con il pubblico! Si prendono una per una e
si dice: chiudetele. Hai il foglio excel con tutte le partecipate, metti
una X di fianco a quelle che in base a questi criteri verranno
eliminate. Il comune, la regione non le chiude? Gli taglio i
trasferimenti:: vediamo chi vince»
Anche sulla Rai ha lavorato molto. Cosa ne pensa?
«Sulla
Rai sono rimasto molto stupito dagli sviluppi. Il problema della Rai è
che ha troppi soldi. Se si compara alla Bbc, i costi unitari sono molto
più alti. Parlo di costo del lavoro unitario, il costo medio del lavoro
per ogni unità di valore aggiunto. E soprattutto come sempre in Italia
sono molto pagati i dirigenti. Perché l’Italia, che si vanta di essere
un Paese molto egualitario, nel settore pubblico sono molto pagati i
dirigenti, rispetto agli altri Paesi, e sono meno pagati invece quelli a
livello più basso»
Cioè ai livelli più bassi dell’amministrazione sono sotto le medie europee?
«Per
esempio un insegnante o un maestro guadagnano meno che nelle medie
europee. Già un dirigente scolastico guadagna più di un dirigente
scolastico in Gran Bretagna, per esempio. Però gli esempi più eclatanti
sono nella dirigenza ministeriale e regionale, riguardo a questa
disparità. La Rai incorpora tutti questi problemi, più il fatto che
rispetto alla Bbc ha un bilancio enormemente più alto, per ore di
produzione. Ha una percentuale altissima di dirigenti tra i giornalisti,
sono 600 su 1.600, una percentuale pazzesca. Quindi era ovvio che una
riforma dovesse affrontare questo problema»
Cosa vuol dire, mandarli via?
«No,
ma porre la basi per cambiare le cose poco a poco. Al limite con dei
prepensionamenti. Però qualcosa andava fatto, se non nell’immediato
almeno qualcosa che affrontasse il problema nel lungo periodo. Invece la
riforma che è passata nei mesi scorsi è esclusivamente
legalistico-formale e di corporate governance: tratta di chi nomina chi.
Però poi non è cambiato niente perché di fatto in maggioranza erano e
sono di nomina politica. Dal punto di visto dei costi non è cambiato
niente, anzi gli sono stati dati più soldi perché il canone in bolletta
ha aumentato enormemente le entrate della Rai»
Il canone in bolletta è una forma di
lotta capillare e efficace all’evasione. Si è sempre detto che i
proventi della lotta all’evasione dovevano finanziare un calo del
prelievo. Ma perché il canone è sceso così poco?
«È per
quello che sulla retorica della lotta all’evasione bisogna stare molto
attenti. Se tu recuperi un miliardo e ti serve per ridurre le tasse
sugli altri che prima pagavano un miliardo, è un’ottima cosa. Ma se
recuperi un miliardo e lo usi per dare un miliardo in più a dei
dirigenti statali o per rimpinguare la RAI, allora cosa serve recuperare
l’evasione? Il caso della Rai con il canone in bolletta è l’esempio
perfetto di questo: il canone è stato diminuito di soli dieci euro, in
compenso molti che prima lo evadevano adesso pagano, quindi in aggregato
le risorse che vanno alla Rai sono aumentate. Esattamente il contrario
di quello che bisognava fare, perché la Rai è già la più finanziata di
tutte le televisioni pubbliche. Quindi non capisco questa riforma,
esclusivamente di tipo formalistico e legalistico. Un esempio classico
di riforme del tipo di quelle delle partecipate: solo formali e legali»
Sta dicendo che Renzi è partito con
certe premesse di riforma di certi snodi che la vedevano molto convinto e
poi ha fatto un passo indietro verso una politica più tradizionale?
«Non
so se sia stato intenzionale. Non credo lo sia stato. È un esempio del
fatto che le riforme non basta farle scrivere in un pomeriggio a un
amministrativista, o a un funzionario con la stessa formazione. Le
riforme bisogna pensarle, fare confronti con gli altri Paesi, cercare di
capire la ratio dell’esistente. L’esistente non va giustificato
semplicemente perché c’è. Se la Rai ha il doppio del bilancio degli
altri Paesi, significa che o tutti gli altri Paesi sbagliano, oppure
siamo noi. Allora dobbiamo cercare di intervenire. Però queste cose non
si fanno in tre giorni. Non si fanno solo da un punto di vista legale e
formale. Io non credo ci fosse malafede, c’è stata semplicemente
superficialità. Per esempio, un caso eclatante di superficialità è che
il precedente direttore generale della Rai si era già ridotto il
compenso a 240 mila euro; ma insieme alla riforma della Rai, quando è
arrivato il nuovo direttore generale, se lo è ri-aumentato a 650 mila
euro. Negli ultimi anni il compenso del direttore generale della BBC,
che è molto più grande ed è vista in tutto il mondo, è stato ridotto da
750.000 a 500.000 euro. Quello che è successo alla Rai non credo fosse
intenzionale, ma mi sembra insensato anche se è una piccola cosa. Non
credo che sia stato fatto intenzionalmente da parte della politica, è
stato solo un approccio superficiale alle cose»
Queste sono tutte spese importanti e
non piccole, circa due o tre miliardi di spesa se ci mettiamo anche le
partecipate. Ma tre miliardi non cambiano niente alla pressione fiscale.
Qual è l’altra parte, quella
che colpisce una platea più ampia, su cui
lei interverrebbe?
«Qui entriamo ovviamente in un campo
minato e mi rendo conto che tutto quello che dirò è politicamente
difficile. Però per esempio ci sono tantissimi sussidi alle imprese, per
cui nessuno sa esattamente quanti siano. Molti sono fuori bilancio,
ricordiamocelo, molti»
Non sono nella famosa lista delle 814 deduzioni o detrazioni esistenti?
«No,
no. Molti trasferimenti diretti non lo sono. Adesso Enrico Bondi sta
facendo la ricognizione. Quindi lì, nessuno sa esattamente quanto ci sia
da tagliare. In termini di valore attualizzato di flussi futuri
(‘present discounted value terms’) sono miliardi e miliardi. A partire
per esempio dalle energie rinnovabili. Poi le pensioni sono un terreno
minato, ma sono ancora convinto della proposta di Tito Boeri - che è
stato sottoposto a una vera e propria character assassination appena
l’ha avanzata - fare cioè il ricalcolo contributivo sulle pensioni più
alte e tagliare non tutta la differenza ma anche solo il 30% o il 40%.
La gente ha completamente distorto, intenzionalmente, quello che
proponeva Boeri. Secondo me quella è ancora una via possibile che porta
due o tre miliardi, di cui alcuni si possono utilizzare per il welfare.
Ma è inutile illudersi, non c’è niente che ti dia 15 miliardi di
risparmi di colpo. È un lavoro da certosini. Prendiamo i sussidi al
cinema, che valgono ‘solo’ 500 milioni. Io continuo a sostenere che i
sussidi al cinema, che sono stati più che raddoppiati in gennaio, sono
uno scandalo. Il cinema italiano è il più sussidiato del mondo per euro
di valore aggiunto prodotto. Molto più dei francesi, che già ne fanno
una fissazione. Tutti dicono che i sussidi italiani sono meno di quelli
francesi o inglesi, ma dimenticano di dire che l’industria francese o
inglese è cinque volte quella italiana. E poi cerca di farglielo capire…
A gennaio i sussidi al cinema sono stati portati da 200 milioni o 500
milioni. Tutti contenti, strette di mano, giornali che inneggiano sai
nuovi finanziamenti per la cultura... Ma perché il povero disoccupato
del Sud deve sussidiare i cinepanettoni? Quando sollevavo il problema,
tutti mi parlavano dell’indotto. Ma l’indotto c’è dappertutto: se
parliamo di indotto, non si finisce più. Bisogna dimostrarmi che ha più
indotto quello di un’altra spesa»
In questo quadro si è aperto in Italia un dibattito accesissimo sulle Olimpiadi. Che ne pensa?
«Se
viene un marziano a Roma, vede una città allo sbando. Con periferie in
condizioni difficilissime. Ad amici che dovevano andare a Tor Bella
Monaca la polizia ha consigliato di non fermarsi ai semafori rossi con
il motorino, per sicurezza. Hai una città nell’occhio del ciclone da
anni per diecimila motivi. L’ultima cosa di cui hai bisogno sono le
Olimpiadi. Il problema è che i politici pensano sempre di risolvere i
problemi con il mattone, perché è la cosa più semplice. È molto più
difficile sedersi a tavolino e cercare di risolvere i problemi di un
quartiere deteriorato. La gente lì ha bisogno di verde, di scuole o di
chiudere le buche. Non ha bisogno di una nuova piscina olimpionica che
il giorno dopo non usa più nessuno. Ha bisogno di tante piscine per far
fare sport ai ragazzi. L’Italia è il paese con meno piscine per abitante
d’Europa e lo sport è importante. Hai bisogno di tante piscine non
faraoniche, semplici, per far fare sport ai ragazzi e toglierli dalla
strada. Le Olimpiadi sono l’esatto opposto di questa idea e distolgono
le energie non solo finanziarie, ma anche politiche, amministrative,
intellettuali. Per anni e anni si pensa a una sola cosa, che durerà due
settimane. Mentre Roma ha bisogno di tornare all’ordinaria
amministrazione, ma questa è molto meno redditizia per un politico,
nell’immediato. Perché un politico va alla cerimonia di inaugurazione
dell’Expo o delle Olimpiadi, non va all’inaugurazione di un campetto di
calcio di un quartiere disastrato. Anche se poi magari quello è
socialmente molto più redditizio nel lungo termine»
Al referendum costituzionale come voterà?
«Voterò
sì perché penso che abolire il bicameralismo sia importante. Il
bicameralismo perfetto è stato un disastro per l’Italia. Anche se era
meglio abolire del tutto il Senato. Ma c’è uno sviluppo degli ultimi
mesi che non mi è piaciuto. Ho l’impressione che Renzi abbia capito che
non riuscirà a vendere la riforma all’opinione pubblica perché è troppo
complessa, e quindi ha deciso di puntare sui suoi presunti effetti per i
costi della politica. Il marketing del governo è che si ridurranno di
un terzo le poltrone, e di 500 milioni i costi della politica. Sono
affermazioni un po’ birichine. La riforma riduce di un terzo le poltrone
dei parlamentari, che sono una minima parte delle poltrone della
politica. Nei 500 milioni, sono inclusi 350 milioni di risparmi
dall’abolizione definitiva delle provincie che il referendum
consentirebbe, che però sono già stati conteggiati nell’abolizione di
fatto che è già in gran parte avvenuta. Secondo i miei calcoli il
risparmio è dunque al massimo di 150 milioni, ma solo ammesso che il
Senato faccia molto downsizing. Purtroppo questo governo, per ragioni
che posso comprendere ma che non condivido, ha fatto pochissimo sui
costi della politica, e ora cerca di recuperare distorcendo il contenuto
del referendum, che non ha quasi niente a che fare con i costi della
politica»
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