collettivo militant
Oggi proponiamo un gioco: prendete un qualsiasi motore di ricerca web, provate a cercare informazioni sulla condizione del mercato del lavoro post Jobs Act e cercate di capire come stanno le cose. Buona fortuna. Apparirà scritto in sequenza: aumentano gli occupati – aumentano i licenziamenti – si riduce il tasso di disoccupazione – si riducono le assunzioni – aumentano le ore lavorate – il Jobs Act fa flop – il Jobs Act funziona – la BCE approva il Jobs Act – l’OCSE boccia il Jobs Act – l’Istat dice bene – il Ministero del lavoro dice male – l’Inps dice un po’ bene e un po’ male – fino all’infinito. Tutte informazioni relative solo all’ultimo mese e mezzo, di cui quelle di carattere ottimista puntualmente a firma di alcuni giornali mainstream e filogovernativi (Corriere, Repubblica, Sole24Ore), quelle pessimiste da tutti gli altri. Effetto referendum costituzionale, probabilmente. Perché altrimenti non si spiegherebbe la rimozione di alcune considerazioni inevitabilmente legate agli indicatori ritenuti positivi, come quelli dell’Istat. Ad esempio:
DETTO: Aumento degli occupati (+189.000 tra il secondo e il primo trimestre 2016) – NON DETTO: oltre alla componente stagionale del secondo trimestre (un aumento dell’occupazione fisiologico legato a lavori tipicamente estivi), tra gli occupati rientrano tutti i lavoratori pagati tramite voucher, considerati occupati anche se hanno lavorato un’ora sola nella settimana precedente alla rilevazione Istat. Voucher che rappresentano una delle nuove frontiere della precarietà e dell’occultamento di lavoro nero, tramite il pagamento di un solo voucher per x ore di lavoro. E che, nonostante il governo continui a declinarne le responsabilità, hanno avuto nell’ultimo anno un boom - nel 2011 i voucher venduti sono stati 15 milioni, nel 2015 hanno raggiunto i 115 milioni – spiegabile dalla pressoché nulla volontà di assunzione stabile da parte delle imprese.
DETTO: Aumento delle ore lavorate (+0.5% rispetto al trimestre precedente, +2.1% rispetto al 2015) – NON DETTO: come noto, produzione e occupazione sono collegate. Quindi, se la produzione non cresce – come emerge anche dalla stima del PIL rivista al ribasso – più che ad un aumento dell’occupazione si sta assistendo a un deterioramento della qualità dell’occupazione, ossia che, per tagliare con l’accetta, si lavora più ore a parità di salario. E d’altronde, se si continua a tagliare la spesa pubblica e se si continua a pensare che l’economia si possa risollevare regalando soldi alla classe imprenditrice italiana che fa cassa invece di investire, non si sa in che modo potrebbe aumentare la produzione e, con essa, l’occupazione.
DETTO: Riduzione della disoccupazione (-0.1% rispetto al primo trimestre 2016, -0.6% rispetto all’anno precedente) - NON DETTO: sono usciti dallo status di disoccupazione tutti i giovani che hanno attivato percorsi come Garanzia Giovani ed altri strumenti simili di cosiddetta politica attiva, che si sono tradotti in lavoro a titolo gratuito o quasi. Dato che fa scopa con la riduzione del numero di “Neet”, i giovani che non studiano e non lavorano, e che adesso “lavorano” gratis.
DETTO: La BCE promuove il Jobs Act – NON DETTO: e grazie al cazzo. Ce lo chiedeva l’Europa e il PD ha solo fatto i compiti.
Di contro, i più pessimisti (realisti?) dati del Ministero del Lavoro, ripresi dalle opposizioni, fotografano una realtà diversa sottolineando il crollo delle assunzioni – in particolare dei contratti a tempo “indeterminato” – e l’aumento dei licenziamenti (+7.4% nell’ultimo anno), chiaro sintomo che gli imprenditori stanno imparando velocemente a sfruttare i regali economici che vengono dal governo e la comodità della flessibilità in uscita. Guardando ai dati, quello che emerge è questo:
- La dinamica occupazionale è tornata ai livelli del biennio 2013-14, né più né meno. Sia il livello di assunzioni sia il saldo tra assunzioni e cessazioni dei rapporti lavorativi sono tornati al livello del 2014: non solo il Jobs Act non ha avuto nessun effetto trainante sull’occupazione, ma quindi anche l’economia, come evidente anche dalle stime sul PIL, è ferma ai livelli di due anni fa, con buona pace di tutte le menate sulla ripresa economica che Renzi ci ripropone a giorni alterni;
- Nei primi due trimestri del 2016 le assunzioni con contratto a tempo indeterminato hanno visto una riduzione di circa il 30% rispetto all’anno precedente, che è andata a compensare quasi al millimetro l’aumento delle assunzioni avvenuto nel 2015 a causa della decontribuzione: come volevasi dimostrare, finiti gli incentivi, finite le assunzioni. E non solo, perché in realtà esiste ancora un certo grado di incentivazione per le imprese che assumono, ma che non sembra essere abbastanza per funzionare da stimolo per l’occupazione, guardando ai risultati. Questi incentivi sono attualmente quindi solo tagli al costo del lavoro per imprese che molto probabilmente avrebbero assunto comunque;
- Nel frattempo, dato forse ancora più significativo, la dinamica dei contratti a tempo determinato è rimasta invariata tra il 2013 e il 2016, mostrando perfino un aumento delle assunzioni con questa tipologia di contratto nei primi due trimestri del 2016. In altre parole, non c’è stato alcun tipo di disincentivazione dei contratti a termine e nessuna stabilizzazione o trasformazione consistente di questi contratti in quelli a tutele crescenti. Gli imprenditori preferiscono rapporti di lavoro a scadenza, continuando a non assumersi rischi e oneri di assunzioni più a lungo termine. E in maniera evidente. Infatti, i contratti a tempo determinato continuano ad essere la tipologia contrattuale maggiormente utilizzata dalle imprese, rappresentando circa il 70%(!) tra le tipologie contrattuali, mentre il contratto a tempo indeterminato rappresenta solo il 15-20%;
A questi dati si aggiunge poi un quadro “qualitativo” dell’occupazione in continuo peggioramento. Come rilevato dal rapporto annuale dell’Inps di luglio, nel 2015 il 70% dei dipendenti ha lavorato a part time, con contratti a termine, ha sperimentato discontinuità nel rapporto di lavoro o ha beneficiato di tutele integrative (CIG o mobilità); le retribuzioni medie giornaliere evidenziano differenze rilevanti con riguardo alle caratteristiche anagrafiche: donne/uomini, italiani/stranieri, giovani/adulti, nord/sud; infine, come anticipato, il numero dei voucher sembra continuare a crescere in maniera esponenziale.
Quello che emerge, in sostanza, è che in termini di indicatori occupazionali questo benedetto Jobs Act non è servito a nulla. Non ha fatto bene e non ha fatto male, non ha fatto semplicemente nulla, a parte l’ondata di assunzioni “drogate” del 2015. E di certo non ha avuto il ruolo di traino dell’occupazione e dell’economia atteso dal governo e adesso rivendicato senza fondamento. Il che, dal punto di vista di un governo riformista, potrebbe pure rientrare nel cassetto stracolmo dei tentativi falliti se solo non fosse costato tra una cosa e l’altra qualche decina di miliardi di euro, cioè UNO SPROPOSITO. E se non fosse, dal nostro punto di vista, che ha precarizzato definitivamente il mercato del lavoro a esclusivo vantaggio della classe imprenditoriale. Insomma, viene smentito per l’ennesima volta l’assunto per cui “meno tasse sul lavoro” e “meno garanzie contrattuali” portano direttamente all’aumento di posti di lavoro: baggianate. Non è vero, non funziona, non c’è alcuna relazione, la realtà smentisce come sempre le teorie austro-rettiliane tanto di moda nei migliori dipartimenti di economia del west.
Comunque, per dei risultati più chiari dovremo aspettare l’anno prossimo, o meglio anche tra tre anni, quando si vedrà che fine faranno gli occupati con il contratto a tutele crescenti. Magari allora, lontani dal referendum che pare aver reso Renzi il re Mida della situazione e magari con il PD in una fossa, capire qualcosa sul mercato del lavoro non sarà più uno sport olimpico…
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