Dovrei rivedere la registrazione, leggere il sottopancia, sapere il nome del signore, operaio all’Ilva di Taranto intervistato in tivù, che commentando la morte di un giovane collega (Giacomo Campo, 25 anni) ha detto con le lacrime agli occhi: “Noi non ne possiamo più”.
ALESSANDRO ROBECCHI
Una frase vera, non televisiva. Quelle parole che ti escono da sole quando davvero ti cascano le braccia, quando “non ce la fai più”. Una sincerità così dolente e disarmante che nel tempo di dirla vaporizzava tutte le belle e edificanti narrazioni sul lavoro che ci beviamo ogni giorno. Poi ho deciso di non cercarlo, il nome. Non mi dispiace ricordare quel “Noi non ne possiamo più” come un sospiro sconfitto dell’Operaio Ignoto, che riguarda un po’ tutti.Nella stessa settimana, abbiamo visto un altro operaio (Abdesselem El Danaf, 53 anni) morto sotto un Tir a Piacenza. Lui faceva il picchetto, il camion l’ha tirato sotto, la procura ha chiuso velocemente l’inchiesta, la rabbia resta: altri che “non ne possono più”. Per un paio di giorni abbiamo letto le condizioni dei lavoratori della logistica, con le loro coop fantasma che appaiono e scompaiono fregandosi ad ogni curva qualche mese di stipendio di gente che già fatica parecchio a mettere insieme il pranzo con la cena. Poi basta, uh, che noia, che cosa poco glamour, vero?
Questo accade in un Paese che è la seconda manifattura d’Europa (dopo la Germania) e dove, nonostante questo, si ripete da anni che “gli operai non ci sono più”. Roba vecchia (il gettone del telefono, il rullino… Renzi il Moderno ci scherzò sopra, ovviamente).
Dove si rappresenta sempre il lavoro dipendente come una specie di palla al piede, una seccatura antica, dove si limano costantemente garanzie, diritti, tutele, dove l’emergenza di trovare un lavoro ha cancellato ogni discorso sulla sua qualità. La narrazione ventennale sulla “rigidità” del lavoro che andava reso più flessibile ha portato fin qui, e ora si può dire che da flessibili non si sta meglio di prima, anzi. E pure l’economia, a guiardare il Pil, non se n’è giovata granché. Le teorie confindustrial-leopolde che facevano passare un operaio con l’articolo 18 come una specie di privilegiato, manco fosse un banchiere, hanno fatto il loro corso, ma è solo l’ultima goccia nel vaso.
E quindi grazie ancora all’Operaio Ignoto che dice “Noi non ne possiamo più”, perché non parla “solo” dell’Ilva, ma di tutto il lavoro, e non solo di leggi e contratti, ma anche di quel clima che c’è intorno al lavoro, un po’ di emergenza (tienitelo stretto a qualunque condizione!), un po’ di ricatto, sempre di pressione e di compressione colpevole (devi lavorare domenica?, fare la notte?, dodici ore? Ringrazia Dio che hai un lavoro!). Un clima che si sente, palpabile, difficile da nascondere, perché più o meno tocca tutti: il mondo del lavoro è oggi il luogo della paura sociale, dello stringere i denti.
Eppure di lavoro si parla tanto. In genere per litigare sui numeri: come per tutte le riforme renziane si chiede l’atto di fede e bisogna dire “Il Jobs act ha funzionato”, anche se i numeri dicono il contrario. Oppure vengono mostrate le immagini delle eccellenze: la Ferrari, il cioccolato, il tapis roulant, e via così: gallery un po’ surreali e un po’ nord-coreane in cui il Grande Leader si complimenta per la bella fabbrica. L’operaio-slide al posto dell’operaio diffuso, reale, stanco. La mortificazione del lavoro è roba vecchia, non l’hanno certo inventata Renzi e Poletti, ma il distacco della narrazione ufficiale dalla vita reale non è mai stato così ampio e clamoroso, addirittura offensivo per chi abita la vita reale e non i fotogrammi della propaganda. Chissà se l’Operaio Ignoto gradisce questa girandola propagandistica che continua a ripetere che tutto è bello e luccicante e #italiariparte, mentre lui “non ne può più”.
Alessandro Robecchi
(21 settembre 2016)
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