Avere a capo Hitler ed essere tedeschi felici. Anzi, orgogliosi.
Anzi, sentirsi eticamente corretti. Anzi, socialmente proficui.
rifondazione.it Maria Rosa Calderoni
Addirittura privilegiati (come, ad esempio, quell’indimenticabile
“professore di anatomia” Johann Paul Kremer che, comandato ad Auschwitz,
nel suo diario si compiace «dell’opportunità di prelevare materiale
freschissimo di fegato, milza e pancreas dai cadaveri dei deportati
uccisi con iniezioni di pilocarpina o di fenolo nel cuore»). O
semplicemente ritenersi fortunati, come quei giovani molto perbene che
«scelgono volontariamente di impiegarsi nelle guardie di Mauthausen
perché desiderano una vita confortevole». Persino sentirsi dediti a
«doverosa obbedienza anche uccidendo un bambino sparandogli alla nuca».
Calma. Non stiamo parlando di paranoici all’ultimo stadio di delirio
sadico o di quelli che a Sarsina chiamano gli “indemoniati”8, condotti
con al collo la catena di ferro davanti all’apposito prete esorcista
nella famosa basilica di San Vinicio. No.
Stiamo parlando di gente “normale”. Operai, impiegati, pubblici
funzionari, politici, sindacalisti, professionisti, intellettuali,
scienziati, studenti, e, sì, anche soldati. Uomini e donne. Forse i
volenterosi carnefici di Hitler? Anche ma non solo.
Stiamo parlando di
questo libro appena uscito – titolo “Orgoglio e genocidio“, sottotitolo “L’etica dello sterminio nella Germania nazista” (Derive Approdi, pag.350, € 20) – scritto da Alberto Burgio e Marina Lalatta
Costerbosa. L’etica dello sterminio”, proprio così: da sottolineare la
parola etica, no non è un refuso. Si tratta infatti di un libro che,
purtroppo, è totalmente fondato su precise documentazioni.
Il Terzo Reich, sì, fu amato dal popolo tedesco. È per questo che
«noi riteniamo necessario – scrivono gli autori – interrogare una
“normalita” capace di adattarsi al crimine, di routinizzarlo e di
convivere con esso». Su una partecipazione che fu “consapevole e
deliberata”. Un horror di massa.
Certo, quando si parla di nazismo e carnefici nazisti, si parla in
primo luogo del personale in uniforme, dalle SS ai soldati
dell’esercito, ma se lo sterminio poté realizzarsi fu soltanto perché i
ministeri, le istituzioni civili, le organizzazioni (banche, ferrovie,
poste comprese) collaborarono attivamente alla macchina genocida. Non
ci furono semplici spettatori. Né si trattò mai di mera “obbedienza
cadaverica”. La documentazione è trucida e terrificante, ma gli autori
non ne hanno colpa.
Punto primo. Il grosso della popolazione tedesca venne ben presto a
conoscenza del genocidio in corso. Il mondo accademico, le università,
gli intellettuali, i professionisti non si opposero mai, anzi
collaborarono sempre. «Tra le comunità più operose in tal senso si
segnalarono, accanto agli antropologi esperti di razze, agli etnologi e
ai genetisti, i medici, i giuristi, i demografi, gli economisti, gli
psicologi, i sociologi, i germanisti e i teologi, i geografi e gli
stessi matematici».
Lo sapevate? Corsi di lezione sulle “vite senza valore” vennero
tenuti nelle istituzioni psichiatriche già a partire dal 1934. E tra le
professioni, quella dei medici vantava la più alta percentuale di
iscritti al partito nazista (45%); ma anche gli insegnanti erano ai
primi posti; così come l’intero apparato burocratico, i privati, i
commercianti, il mondo delle imprese. Appunto, in prima fila gli
industriali, i quali tutti «furono ben lieti di cooperare con un regime
prodigo di commesse e di manodopera schiava a buon mercato». Dopotutto,
qualcuno li doveva pur costruire i forni crematori, le camere a gas, i
campi di concentramento; e anche le sostanze chimiche indispensabili per
l’avvelenamento delle vittime dovevano essere pronte all’uso…
Si deve aggiungere che la “spontanea” attività delatoria dei
cittadini comuni fu vasta e diligente (opera sua almeno il 60/70% delle
denunce contro ebrei e comunisti); che degli eccidi in territorio
sovietico tra i tedeschi se ne parlava già nel 1941; che la conquista di
territori nel corso della guerra rappresentò un’irripetibile
opportunità di fare carriera per decine e decine di migliaia di
tedeschi.
Fu “consenso totalitario”. E fu “consenso sociale”. Non solo
acconsentì la classe dirigente che si trovò avvantaggiata e ben
remunerata dal regime; non solo acconsentì il ceto medio; ma anche la
classe operaia e decine di milioni di donne e uomini comuni
accondiscesero volentieri. Anche perché «dopo l’umiliazione inflitta
dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale e dal Trattato di
Versailles, il nazismo riuscì a restituire a molti tedeschi il
sentimento di una ritrovata coscienza identitaria e l’orgoglio di
appartenenza al Wolk» (dopotutto, a migliaia di famiglie venne data la
possibilità di occupare le abitazioni degli ebrei “trasferiti”…). Quanto
ai giovani, loro passarono dai 2,3 milioni di iscritti al partito
nazista del 1933 ai 7,3 del 1939. E «dopo il 1941 il ghetto di Varsavia
diventò un’attrazione turistica per molti tedeschi». Vale a dire che nel
corso del dodicennio nazista, «la società tedesca non fu né assente né
ignara, né passiva né silente».
Ma, «perché vollero?». La risposta a tale domanda – anzi, lo sforzo
di avvicinarvisi – è il tema del libro. Impresa ardua, al limite del
possibile. Tanto più che «qualsiasi spiegazione monocausale – la
personalitá “autoritaria”; il nesso frustrazione-aggressione; il
bisogno di obbedire all’ordine legale; la “pedagogia nera”; il trionfo
della razionalità strategica tipico della “modernità”; l’antiebraismo
eliminazionista, ecc – risulta inadeguata proprio in ragione della
compresenza e della commistione di un variegato insieme di motivazioni».
Perché lo vollero? È la domanda che non cessò di tormentare anche
Primo Levi dopo il suo ritorno da Auschwitz. «Per quarant’anni si sforzò
di capire senza successo».
Dentro il dedalo oscuro e incommensurabile.
L’enigma del consenso al nazismo del popolo tedesco. Per il quale, in
quegli anni fatali che vanno dal 1933 al 1945, diventò fondamentale, ad
esempio, «il principio di prestazione, in base al quale non conta che
cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo,
soddisfacendo le aspettative dei superiori». Con coscienza e soprattutto
“coscienziosità”.
Vedi Auschwitz.
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domenica 25 settembre 2016
Libro. “Orgoglio e genocidio“, sottotitolo “L’etica dello sterminio nella Germania nazista” (Derive Approdi, pag.350, € 20) – scritto da Alberto Burgio e Marina Lalatta.
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