Con la mano sinistra mima il gesto di colpire, e dice: «Tranquilli, tanto qui la “cosa” andrà a finire con una cantonata». La “cosa”, come la chiama Massimo Carminati, nella malavita conosciuto come “er Cecato” o “er Pirata”, è il processo a “mafia Capitale”. In cui Carminati è accusato di essere il capo della nuova organizzazione criminale romana che fino a pochi anni fa è andata a braccetto con politici di destra e di sinistra. In carcere l’ex terrorista dei Nar si comporta da padrone, pur usando modi felpati come i grandi capimafia sanno fare. E lo stato di detenzione non influisce sul suo potere anche all’esterno. Parla di politica e dei politici, di come si “aggiusterà” il suo processo. Dei costruttori romani. E si confida con un boss palermitano di Cosa nostra vicino al latitante Matteo Messina Denaro. Misteri dell’organizzazione carceraria che mette insieme due elementi pericolosi di mafie contigue.
Questa è la storia di “mafia Capitale” dopo mafia Capitale. Ovvero, dopo gli arresti che fecero tanto clamore. Ed è il racconto di come “er Cecato” ancora riesca a impartire ordini e si comporti esattamente come quando a Roma era lui la legge.
Pur di accaparrarsi commesse milionarie dalla pubblica amministrazione capitolina, ha messo insieme fascisti e comunisti, legati solo dal colore dei soldi e dalla corruzione. Le intercettazioni svelano i piani politici e giudiziari di Carminati. “Er Cecato” è tanto sicuro che riuscirà a togliersi dai guai da mostrarsi sereno e pacato. Guardarlo attraverso i monitor che proiettano la sua immagine nella grande aula bunker di Rebibbia durante le udienze è come rivedere le sembianze e i movimenti di importanti capimafia di Cosa nostra: Pippo Calò o Michele Greco. Sarà una coincidenza o forse una volontaria imitazione.
Sta di fatto che con questa calma apparente Carminati ha seguito dalla sua cella anche la campagna elettorale che ha portato ad eleggere il nuovo sindaco di Roma Virginia Raggi e i consiglieri comunali. La televisione gli ha mostrato le azioni e le dichiarazioni dei candidati, i loro programmi elettorali, ma anche gli scontri e le accuse politiche che si sono scambiati. E non ha fatto una piega quando qualcuno di loro ha parlato di “mafia Capitale”. Anzi, è apparso perfino deluso che non siano stati fatti affondi precisi, da parte dei politici, su questa realtà criminale infiltrata nella pubblica amministrazione. «La “cosa” scema, perché ormai i commenti so’ finiti...», dice “er Cecato” ad uno dei familiari che lo va a trovare in carcere.La conversazione è regolarmente intercettata e depositata agli atti del processo. Carminati ascolta i commenti dei politici su “mafia Capitale” e non riesce a darsi pace fino a quando sbotta: «La vera cupola a Roma sono i costruttori». La bomba “er Cecato” la sgancia così. Senza aggiungere nulla. Senza dare una spiegazione all’interlocutore che però comprende il messaggio.
Il modo con il quale «è stato cacciato il sindaco» viene rimarcato nei discorsi fatti in carcere da Massimo Carminati, che però non usa per l’ex primo cittadino Ignazio Marino parole di elogio. Si comprende che non stima questo medico prestato alla politica. I retroscena li apprende dalla lettura di due quotidiani che acquista ogni giorno. Sono due giornali che hanno solo la cronaca nazionale, perché quella locale è vietata dal regolamento penitenziario per i detenuti al 41 bis. «Appena esco (dal carcere, ndr) voglio scrivere un libro su tutta questa storia», dice Carminati parlando con i familiari, e aggiunge: «Voglio raccontare i veri re di Roma», perché «i giornali hanno creato il mostro». È felice se lo si definisce terrorista nero, neo fascista, e quindi essere accusato di banda armata, ma non sopporta l’accusa di associazione mafiosa.
Dalla sua cella osserva Roma, la studia, e vuole tornare a “governarla” presto. Si intuisce quando Massimo Carminati parla con uno dei familiari e critica l’azione dei magistrati: «All’inizio avevano preso una direzione, e invece adesso la “cosa” gli sta anda’ più da un’altra parte. Mo stanno impicciati». Per questo motivo ipotizza che potrebbe essere assolto, «e una volta libero vado avanti per st’autostrada». L’autostrada alla quale si riferisce non è certo quella della riabilitazione.
Le intercettazioni in carcere riescono a catturare ciò che il capo di “mafia Capitale” vorrebbe tentare di nascondere agli inquirenti. Capita spesso a Carminati durante lo svolgimento dell’inchiesta giudiziaria di volere sfuggire alle microspie. Quando però pensa di esserne al riparo ecco che invece le sue conversazioni sono sotto tiro e catturate dagli investigatori. E così che vengono registrate le sue migliori affermazioni che hanno aiutato gli inquirenti, e quindi l’accusa. Affermazioni che ci riportano alla realtà criminale romana e a misurare l’ego di questo ex neofascista che si vanta spesso delle sue azioni nella malavita romana, dei suoi trascorsi accanto alla Banda della Magliana che era collegata con i boss palermitani di Cosa nostra. Ed ecco come la mafia siciliana ritorna prepotente e silenziosa in questa storia.
La scena registrata dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria si svolge fra le mura del super carcere di Parma. Carminati parla con uno dei suoi tre “coinquilini”, come chiama i componenti del gruppo di socialità con i quali trascorre la giornata. Appartato in un angolo, si confida con il detenuto più importante del gruppo, si tratta di Giulio Caporrimo, è un boss di Cosa nostra a Palermo, capo della famiglia mafiosa di San Lorenzo, fedelissimo dei Lo Piccolo, ma soprattutto del latitante Matteo Messina Denaro. Indagini dei carabinieri di Palermo, che hanno portato cinque anni fa all’arresto di Caporrimo, lo indicano come il referente a Palermo del ricercato trapanese. Uno dei pochi con il quale lo stragista avrebbe avuto contatti fino al 2011.
Adesso Caporrimo trascorre le ore di socialità con Carminati, entrambi sono al 41 bis, e “er Cecato” intuendo il peso mafioso del palermitano - e non pensando di essere intercettato - gli confessa il suo passato e il suo presente: «Quando avevo 16 anni andavo in giro armato di pistola, quando poi i miei amici sono tutti morti ammazzati, io mi sono specializzato in quello che loro (i pm della procura di Roma, ndr) dicono e mi accusano, ma non hanno capito che gli piscio in testa se voglio». Caporrimo, come sottolineano gli investigatori nella relazione depositata agli atti del processo, non commenta quanto detto dal suo compagno di cella. Rimane in silenzio. Per dirla con una massima siciliana «la migliore parola è quella che non si dice».
Questa “dichiarazione” che Carminati consegna al boss palermitano confermerebbe il capo di imputazione formulato dalla procura di Roma in cui si legge che è accusato di «avere fatto parte di un’associazione di stampo mafioso operante su Roma e nel Lazio, che si avvale della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti di estorsione, di usura, di riciclaggio, di corruzione di pubblici ufficiali e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici». Con il ruolo di «capo e organizzatore, che sovrintende e coordina tutte le attività dell’associazione, impartisce direttive agli altri partecipi, fornisce loro schede dedicate per le comunicazioni riservate, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma, nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti».
Il metodo di Carminati è molto vicino a quello del latitante Messina Denaro. Entrambi creano consenso sociale sul territorio grazie al potere economico e intimidatorio che possiedono, e grazie a questo atteggiamento ricevono copertura e favoreggiamento. Il trapanese e il romano hanno compreso che devono portare avanti gli affari del proprio clan senza sparare. È ciò che afferma lo stesso Carminati nella confessione a Caporrimo quando rivela di aver abbandonato la pistola quando aveva 16 anni, e di aver proseguito nella malavita in modo diverso. A Trapani continua a comandare Messina Denaro e non c’è alcuna vittima di mafia. A Roma come a Trapani c’è una mafia silente, l’unica differenza è il dialetto: quello siciliano è mediaticamente etichettato come lingua dei mafiosi, il romanesco invece, si fa fatica a collegarlo ai clan criminali. Le vittime, però, hanno paura in entrambi i territori.
La violenza e il silenzio sono i due volti della paura, i due volti del potere costruito a Roma da Massimo Carminati. Basta scorrere gli episodi raccapriccianti di cui è accusato. C’è una ragnatela di intimidazioni che serviva a terrorizzare imprenditori e commercianti caduti nella morsa del clan di mafia Capitale. E ora che c’è il processo è bastata la presenza di Carminati in video collegamento per mettere paura, anzi per terrorizzare i super testimoni dell’inchiesta. L’immagine del “Cecato” è ferma nel monitor, e nell’aula bunker a Rebibbia le vittime che devono deporre iniziano a tremare, e di conseguenza a ritrattare, a non ricordare, ad accampare scuse pur di non rispondere alle domande dei pm. Pur di non rendere testimonianza qualcuno si è sentito male ed ha vomitato per la forte tensione accumulata. Paura e nervosismo come nei processi di mafia che si svolgono in Sicilia o in Calabria.
La presidente del tribunale in una occasione, vedendo le esitazioni di un teste e il nervosismo che lo avvolgeva, ha dovuto disporre che lo schermo su cui apparivano in video collegamento dal carcere Carminati e gli altri coimputati venisse girato contro la parete. Un modo per evitare che il teste incontrasse lo sguardo degli imputati e ne fosse intimorito. E di questa potenza intimidatoria “er Cecato” ne è consapevole. Come è consapevole del fatto che in giro a Roma c’è ancora tanta gente che gli è “fedele”. Per questo motivo Carminati si raccomanda ai familiari che lo vanno a trovare in carcere di «non accettare favori o regali da nessuno». Tenta di dare un’immagine diversa del suo “peso” reale a Roma.
Come Totò Riina spiegava a suo figlio in carcere che lui stava benissimo nonostante tutti questi anni di detenzione, che era forte e non lo avrebbe piegato nessuno, anche Carminati tenta di fare lo stesso con i suoi familiari. Vuole dimostrare quanto il suo carattere è forte nonostante il 41 bis: «Qui se non sei attrezzato, una persona normale dura venti minuti. Poi prende lo straccio e il secchio, si mette lì, e si asciuga le lacrime». Carminati spiega che lui è forte: «Ho una concezione di me stesso talmente alta che più vanno avanti e mi trattano così, più alta diventa». Un’alta concezione di se stesso che non gli fa perdere l’obiettivo che si è fissato. E non gli fanno perdere la testa nemmeno le centinaia di lettere che riceve mensilmente in carcere dai suoi fans. Perché uno come Carminati ha pure gli ammiratori. Ma lui si fa consegnare solo le missive di cui conosce il mittente, le altre le rifiuta. In testa ha un solo un obiettivo: tornare libero.
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