E’ una volata. Per ratificare il protocollo di Kyoto del 1997 (che
impegnava sul clima solo i paesi industrializzati) ci sono voluti più di
7 anni.
repubblica.it a.cianciullo
Per ratificare l’accordo di Parigi del dicembre 2015 (che impegna sul clima tutti i paesi) ci vorrà, con buona probabilità, meno di un anno. Una delle due condizioni necessarie perché l’intesa entri in vigore (la ratifica di almeno 55 paesi) è stata già soddisfatta. Per l’altra (che i paesi che hanno ratificato siano responsabili di almeno il 55% delle emissioni serra) manca pochissimo e l’India ha già annunciato la ratifica il 2 ottobre (si arriverà così a un soffio dalla soglia richiesta).
Dunque la prima, significativa differenza tra i due processi è la rapidità. Nel 1997 il passaggio da un’economia dominata dai combustibili fossili a un’economia trainata dall’efficienza, dalle fonti rinnovabili e dal recupero dei materiali sembrava desiderabile sul pianto etico ma pieno di difficoltà e di resistenze su quello pratico. Oggi i paesi leader stanno facendo della questione ambientale un’arma di competizione e nessuno vuole restare indietro.
Lo scenario di politiche climatiche – sia pure con il non trascurabile problema di un obiettivo di taglio delle emissioni ancora largamente insufficiente – ha un’evoluzione positiva. Con un neo: l’Unione europea, leader della battaglia a favore del protocollo di Kyoto, non ha ancora ratificato l’accordo (lo hanno fatto pochi paesi e l’Italia non è tra questi). Se continuerà a tardare verrà esclusa dal gruppo di paesi che stabiliranno in fase di avvio le regole delle prossime mosse di ristrutturazione industriale in settori strategici. Una situazione che certo non favorirà l’uscita dalla crisi economica.
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