Ed effettivamente una certa retorica da “quelli dell'ultimo banco” vede nella cultura”classica” in senso lato semplicemente una insana passione per l'erudizione, “inutile” ai fini pratici. Una tendenza all'abbassamento della qualità del pensiero che è ottimamente rappresentata dall'attuale classe politica, che appare presa direttamente dal bar dello sport (non certo quello di Benni…).
Nessun rivoluzionario ha mai pensato che il livello di preparazione intellettuale formato sugli studi classici fosse un “limite”. Anzi, hano sempre coltivato con passione studi filosofici, storici, letterari, filologici, raccomandando ovviamente altrettanta attenzione per le “scienze dure”, quelle che dovevano contribuire alla costruzione di un mondo migliore, riducendo la fatica dell'uomo. Perché imparare a pensare significa misurarsi con altri modi di pensare, a mettere in dubbio quel che si sta studiando, a interrogarsi di continuo su quel che si ha davanti ("perché è così?", "siamo sicuri che le cose stiano in questo modo?", ecc). A sviluppare, insomma una critica costante verso gli stessi risultati che si sono raggiunti o che ci vengono proposti come "lo stato dell'arte".
La barbarie intellettuale del presente è in ogni caso una tendenza globale (“Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che impiega la persona”), dunque non è distintiva della pesudoclasse dirigente italica.
Ma c'è un qualcosa di specificamente “italiano” – nel senso più deteriore del termine, come potrebbe pronunciarlo un tedesco – in questo assalto alle scienze umane e in primo luogo al liceo classico. Solo qui, infatti, è esistita una linea di pensiero elaborata da un latifondista (espressione della proprietà agraria, la più arretrata) diventato però leader del liberalismo nazionale; solo qui si poteva insignire a torto della qualifica di “filosofo” qualcuno che definiva le conquiste del pensiero scientifico come “pseudo-concetti”. Minutaglia, insomma, fatta a immagine distorta del “vero pensiero”.
Una linea di pensiero – il “crocianesimo”, con la sua separazione valoriale tra scienze umane e scienze “dure” – in larga misura adottata da una sinistra diffidente nei confronti della scienza nonostante moltissimi scienziati di primo livello militassero nella fila dell'antifascismo e del comunismo. Come se la certezza garantita dalla ricerca scientifica fosse d'ostacolo alla “duttilità tattica” necessaria a far politica barcamenandosi tra la “prospettiva” della Rivoluzione e la quotidianità della concertazione subalterna.
Quella subcultura è morta trascinando con sé anche il prestigio e l'utilità delle scienze umane insegnate nelle università della penisola. E ciò che ora emerge è appunto una subcultura ancora inferiore, ma perfettamente funzionale a una ristrutturazione globale degli istituti della formazione, che dovranno produrre soltanto “esecutori di procedure per problemi già risolti” e non più “inventori di soluzioni per problemi irrisolti”.
È con tutta evidenza un salto all'indietro, un ritorno nel baratro dell'ignoranza mal nascosta da una sovrabbondanza di “procedure” mandate a memoria, da applicare in automatico.
È il populismo dall'alto che dice ai sottoposti “non studiate, divertivi; e se proprio dovete imparare qualcosa, che sia utile a noi e non a voi”. Perché chi impara a pensare la complessità è un potenziale nemico del potere esistente.
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Scuola modello per l’occidente
Nicola Gardini
Il liceo classico è sotto accusa, anzi, sotto assedio. Il problema è squisitamente italiano, e non solo perché una scuola del genere è tutta italiana. Gli attacchi al liceo classico, infatti, non vanno presi – se non come concomitanza storica – per parte della diffusa crisi delle humanities che caratterizza le accademie anglo-americane; e non solo quelle. In India, per citare un grande democrazia, il sapere umanistico è stato smantellato. Lì trionfa la matematica. Ecco una delle ragioni per cui i migliori matematici sono indiani. Non parliamo della Cina. La corsa precipitosa alla monetizzazione del sapere, insomma, sta facendo piazza pulita degli insegnamenti letterari e linguistici un po’ dovunque. Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che impiega la persona. La cosa si commenta da sola. In poche parole: i soldi diminuiscono (ne sono spariti tanti con gli ultimi disastri finanziari) e i dipartimenti di studi umanistici si contraggono, si sciolgono, spariscono. La carriera umanistica per moltissimi ormai è solo un’illusione distruttiva.
L’Italia tutto questo, in pratica, non lo subisce. L’Italia ha il liceo classico. Avendo una certa familiarità sia con l’istruzione italiana sia con quella di vari paesi stranieri, non esito a dire che il liceo classico è l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che governo occidentale abbia mai messo in piedi: una scuola che fonda principalmente la formazione dell’individuo sullo studio delle lingue antiche, il greco e il latino. Chi esce dal liceo classico – se circostanze slegate dal tipo di studio non si frappongono – conosce la Grecia e Roma e quello che queste civiltà hanno inventano e tramandato e grazie a tale conoscenza sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere, riconoscere il duraturo e l’effimero, dare un nome a fatti diversi, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia.
Ma il liceo classico per alcuni non serve più. Questi alcuni sono persone che del liceo classico non hanno un’idea. E se l’hanno, pretendono che venga negato ai giovani in nome di un falso concetto di modernità, che dovrebbe promuovere esclusivamente le scienze. Una simile visione delle cose è limitata da un grave errore: la convinzione che lo studio del greco e del latino non sia cosa scientifica; e che scienza siano solo la fisica, la matematica e la biologia.
Lo studio delle lingue classiche, invece, è scienza tanto quanto lo studio delle leggi della materia o della gravitazione universale. La stessa fisica è un sapere storico, perché analizza campioni di realtà che viaggiano e si trasformano nel tempo. Scienza, indipendentemente dall’oggetto esaminato, è tutto ciò che richiede osservazione, comparazione, sistematizzazione, speculazione là dove i dati mancano, proiezione in avanti. In termini assiologici o gnoseologici non esiste differenza tra lo studio di un frammento di papiro e quello di un neutrino. E questo è così vero che sul latino e sul greco si sono addestrati e si possono ancora addestrare informatici, fisici, ingegneri, medici ed economisti. Solo una lesiva e grottesca riduzione della realtà e della vita umana può negare importanza ai reperti dell’antichità e all’apprendimento di due miracolosi sistemi cognitivi, arrivati fino a noi grazie a un’amorosa e raffinatissima opera di trasmissione, come il greco e il latino. In particolare, eliminare la traduzione (sulla centralità della quale in questo giornale già si è pronunciata Paola Mastrocola) sarebbe un gesto di irresponsabile, gravissimo immiserimento: come sostituire tutti gli originali degli Uffizi con riproduzioni formato poster.
I sostenitori del liceo classico, per fortuna, non mancano. Sono i giovani stessi, e sono persone dei più vari tipi, compresi gli scienziati. Una petizione di un gruppo di professoresse fiorentine dello storico liceo Michelangiolo (http://taskforceperilclassico.it/t/) ha già raccolto circa cinquemila firme, tra cui riconosciamo un Salvatore Settis, una Eva Cantarella e un Luciano Canfora, per citare solo alcuni celebri rappresentanti del sapere umanistico, ma anche due insigni fisici come Guido Tonelli e Carlo Rovelli.
Basta con proposte di riforma boomerang. Basta con questa cecità. Un paese che vuole vivere ha il dovere di sapere prima di tutto dove già eccelle.
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