"Lettera a un Giudice" di Paolo Saggese, è un romanzo
breve (o racconto lungo) incentrato sul tema della corruzione.
pane-rose.it Lucio Garofalo
L'autore
definisce il suo libro un "racconto fantastico", ma temo che non sia
affatto immaginario, né surreale. È proprio questo il limite principale
del libro, che tenta di discostarsi dalla realtà, senza riuscire ad
intaccarla minimamente. Per mettere in discussione un ordinamento
politico-istituzionale che è profondamente ed organicamente marcio e
corrotto, temo che occorra una presa di posizione assai più coraggiosa
intellettualmente, una critica serrata e radicale che provi a mettere in
discussione le radici stesse del sistema e dei rapporti di forza
vigenti. Tali radici affondano nel dominio di classe del capitale,
dell'alta borghesia che detiene il controllo dei mezzi di produzione e
di distribuzione economica, nonché il potere politico incarnato in
organi istituzionali ed amministrativi nazionali e sovranazionali, che
sono "mega-comitati di affari". Se non si coglie tale complessità e non
si prende atto di un fenomeno assai più vasto, articolato e controverso
di quanto si creda, la piaga sociale della corruzione non sarà mai
compresa nella sua entità reale, nella sua essenza connaturata agli
assetti capitalistici dominanti, per cui non potrà mai essere estirpata
in modo radicale e definitivo dalla nostra esistenza quotidiana.
Il
romanzo racconta, attraverso una serie di epistole, l'amara vicenda, non
autobiografica (almeno così sottolinea l'autore), di un "secchione"
(inteso in un'accezione simpatica) che, non essendo raccomandato,
fallisce la prova di un concorso per dirigenti pubblici, per cui decide
di rivolgersi ad un magistrato per offrire libero sfogo al suo sdegno
contro la corruzione. La trama narrativa si ambienta in un paese
immaginario chiamato Repubblica dei Pomodori. L'idioma nazionale è il
pomodorese, i gendarmi sono pomodoresi, tutto è pomodorese. L'autore non
sembra essersi arrovellato troppo l'immaginazione per inventare nomi di
fantasia. Non mi pare originale l'idea che ispira la vicenda narrata.
La passione per il grande scrittore siciliano (Leonardo Sciascia) si
evince dai richiami alle opere e ai soggetti sciasciani: Candido, A
ciascuno il suo, Il giorno della civetta ed altri. Il tratto forse meno
originale, risiede in uno spunto ideologico moralistico o, come si usa
dire oggi, giustizialista. Questa valutazione non vuol essere affatto
una stroncatura nei confronti della prima fatica letteraria di questo
autore mio conterraneo. Il quale è un intellettuale esperto in lettere
classiche, un umanista e un critico letterario, per cui non potrei
competere con l'autorità e l'erudizione dello studioso. Non possiedo la
perizia che serve ad esprimere un giudizio pertinente a livello
tecnico-letterario. Mi limito a notare che il registro stilistico del
romanzo, per quanto lieve, scorrevole, per niente volgare o stucchevole
(ed è già tanto di questi tempi) non risponde al mio gusto estetico.
Trattasi di un giudizio soggettivo. Il romanzo si legge tutto d'un
fiato, non è mai tedioso, ma non sono riuscito ad intravedere il fuoco
che infiamma il genio, l'inquietudine che assale lo "spirito guerriero"
dello scrittore. Per me la letteratura e l'arte non sono uno "specchio"
che riflette il mondo reale, bensì una sorta di "martello" che picchia
sull'incudine con furia e sofferenza per modificare lo stato di cose
presenti. Scrivere, dipingere, scolpire, creare, suonare, esigono un
ardore militante, una tensione rivoluzionaria. È una battaglia in cui
l'artista si cimenta in modo indiretto. Ciò esalta il valore più
autentico dell'arte, che altrimenti non potrebbe esternare nulla.
Lucio Garofalo
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