Qualcuno doveva dirlo e se ne è incaricato il senatore Andrea Marcucci, voce di Renzi a palazzo Madama: «Tanto rumore per nulla. L’M5S vuole il ritorno alla prima Repubblica alla faccia del nuovo». Dieci anni fa sarebbe stato l’anatema più temuto, una condanna senza appello. Non è detto che le cose stiano ancora così però, e non sarebbe la prima volta che le volpi renziane brillano per incapacità di capire gli umori profondi del Paese e del Palazzo.
In realtà la proposta dei 5S non sarebbe un ritorno alla prima Repubblica.
All’epoca il proporzionale era sì puro, senza premio di maggioranza e con le preferenze come quello che indicano i pentastellati, ma con collegi molto grandi e dunque con una soglia di sbarramento molto bassa. I collegi medio-piccoli di cui parla di documento a 5 Stelle, al contrario, comporterebbero soglie altissime, attorno all’8%, e non è che si tratti di una piccola differenza. Però dopo oltre vent’anni di retorica maggioritaria è fuori dubbio che si tratti di un bel passo in quella direzione.
Tutto sta a vedere se la nostalgia a cui i pentastellati hanno dato corpo con la loro imprevista sortita sia condivisa o aborrita dagli italiani e dai loro attuali rappresentanti. Tra i politici, anche se nessuno aveva sinora osato dirlo apertamente, qualche segnale in questo senso, magari solo implicito, per la verità già c’era. Massimo D’Alema è stato uno dei principali leader della seconda Repubblica: cresciuto e formatosi nella prima però, e si vede. La sua battaglia per il No rinvia a una visione della politica che affonda le radici proprio in quell’esperienza durata quarant’anni, e non i peggiori della nostra vita: centralità del partito, che Renzi considera invece solo un trampolino per il governo, destinato poi a fungere da obbediente massa di manovra; esaltazione delle alleanze contrapposta alla mistica, un po’ da colpo di dadi, del «chi vince, anche con esiguo consenso, piglia tutto»; evocazione di una centralità del Parlamento che nel ventennio trascorso è stata smantellata in realtà da tutti, anche da lui, prima che il fiorentino tentasse di darle il colpo di grazia.
Silvio Berlusconi deve per intero la sua carriera politica alla fine della prima Repubblica. Eppure anche nel suo stato maggiore serpeggia una tentazione di “ritorno al futuro”, condivisa probabilmente dallo stesso ex Cavaliere. I tempi sono cambiati, la presa plebiscitaria dell’incantatore di Arcore non è più quella di una volta e soprattutto il gioco, portato alle estreme conseguenze come vorrebbe fare don Matteo, taglia fuori dalla gara proprio il centrodestra, che delle coalizioni ha bisogno come l’ossigeno.
La sinistra radicale e i centristi sono sempre stati, anche se non sempre confessandolo, nostalgici di una Repubblica che gli garantiva quel ruolo che oggi devono conquistarsi a spallate e spesso senza neppure riuscirci. In realtà la forza politica che meno dovrebbe rimpiangere i bei tempi è proprio l’M5S. Loro sì che sono nati come partito a vocazione maggioritaria, marchiati da un’idiosincrasia quasi superstiziosa per ogni fantasia d’alleanza.
Che c’azzeccano i pargoli di Beppe col proporzionale e con la Repubblica che su quel sistema elettorale si fondava? In parte la sorpresa pentastellata mira ad accreditare il Movimento come l’unica forza in campo tanto onesta da sponsorizzare una legge elettorale per questioni di principio invece che di mero calcolo utilitaristico. Siccome da vent’anni a questa parte nessuno lo aveva mai fatto, occorre dargliene comunque atto e complimentarsi. E’ anche possibile, pur se non probabile, che lo sganassone di Roma abbia instillato il dubbio che governare alleandosi, da una posizione di massima forza, con qualcuno più esperto sarà pure una contaminazione ma tante volte aiuta a evitare il fallimento.
Oppure, più semplicemente, l’M5S rivela in questa come in molte altre occasioni una sintonia empatica con gli umori della gente. Perché alzi la mano chi, tanto discorrendo con i dotti quanto chiacchierando nei bar, non ha raccolto negli ultimi anni mucchi di battute sulla superiorità dei partiti della vecchia Repubblica rispetto ai virgulti di quelle più recenti: prima scherzose, «si stava meglio quando si stava peggio», poi, col passare degli anni e col degenerare delle cose, sempre più sinceramente.
Nostalgie futili. I vecchi tempi non torneranno qualsiasi sia la legge elettorale. Però non è escluso che la prossima Repubblica somigli a quella della Dc e del Pci molto più che non a quelle di Berlusconi e Renzi.
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