In questi giorni si discute tanto della clausola sociale a tutela degli operatori di call center nei casi di successione di appalti: “In caso di successione di imprese nel contratto di appalto con il medesimo committente e per la medesima attività di call center, il rapporto di lavoro continua con l’appaltatore subentrante, secondo le modalità e le condizioni previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicati e vigenti alla data del trasferimento, stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. …” (ddl Appalti).
Lidia Undiemi Dottore di ricerca in diritto dell'economia
In termini di effettività della tutela, questa
formulazione fa acqua da tutte le parti, e probabilmente non sposterà
una virgola, a parte avere alimentato false speranze. La norma lascia
intendere che qualora l’appalto di servizi di call center venga
trasferito da una impresa ad un’altra, quella subentrante debba assumere
il personale precedentemente impiegato senza soluzione di continuità,
così come accade nei casi di trasferimento di ramo di azienda ex art.
2112 c.c., che prevede la prosecuzione del rapporto di lavoro – e non
dunque la stipulazione di un nuovo contratto – senza alcuna modifica
sostanziale delle condizioni economiche e normative, fra cui, ad
esempio, l’anzianità di servizio. La differenza è che
in caso di trasferimento il cessionario (poi spesso anche appaltatore)
decide di assorbire il personale addetto all’attività trasferita, mentre
la clausola stabilisce un obbligo.
Il tema delle clausole sociali e dei limiti dell’applicabilità dell’obbligo di mantenimento dei posti di lavoro
non è certo una novità. La posta in gioco è il bilanciamento di
interessi fra tutela del lavoro e libertà di iniziativa economica.
Nell’ambito di appalti pubblici, il Consiglio di Stato (sez.III sentenza
n.2533 del 10 maggio 2013) ha di recente chiarito come la previsione di
clausole sociali trova un limite nella libertà da parte
dell’imprenditore di potere organizzare la propria impresa, anche al
fine di raggiungere un livello di efficientamento tale da consentire un risparmio della spesa pubblica.
Più nello specifico, la clausola può essere derogata
se l’impresa fa ricorso a nuove strumentazioni tecniche e/o informatiche
che consentono la riduzione del fabbisogno di personale.
Spetterebbe
dunque al lavoratore, ovvero alle OO.SS., rivendicare la mancata
applicazione della clausola, con l’onere di dimostrare che il servizio
organizzato dall’impresa subentrante ha le stesse caratteristiche
organizzative del precedente appaltatore. Vertenze su vertenze
dunque, nella totale incertezza del risultato visto che si tratta di
entrare nel merito delle complesse dinamiche della riorganizzazione di
servizi tecnologicamente avanzati, così come già accade in materia di
trasferimento di ramo d’azienda e di appalto di manodopera, solo che
almeno in questi casi la giurisprudenza ha già sancito importanti principi che possono aiutare i lavoratori ad affrontare la causa.
Bisogna inoltre tenere conto che l’obbligo di farsi
carico del personale impiegato nell’appalto dipende anche da quanto
previsto dai Ccnl, alcuni dei quali già prevedono una specifica
regolamentazione, specialmente nel settore dei servizi, con la
precisazione che quelli più recenti non dispongono in modo rigido
l’obbligo della riassunzione, prevedendo in taluni casi un mero obbligo
di informazione e consultazione sindacale.
E l’Europa cosa ne pensa? Manco a dirlo, la Corte di Giustizia Europea (9 dicembre 2004, C-460/2002 e 14 luglio 2005, C-386/2003)
ha una posizione ancora più netta rispetto a quella nazionale nel dare
maggior rilievo alla tutela della libertà di accesso al mercato rispetto
a tale garanzia occupazionale, giudicata in contrasto con i principi
del mercato unico. Una certa apertura da parte del legislatore
comunitario si è avuta, tuttavia siamo ben distanti dal potere
considerare l’effettiva operatività dell’obbligo sancito dalla clausola.
Questo bene o male già si sapeva e se consideriamo il
testo adottato dal legislatore, non vengono meno per l’impresa una
serie di opportunità strategiche per non applicarla (di questo ho
discusso in occasione di un’audizione parlamentare in cui ho spiegato il perché una simile previsione era facilmente aggirabile).
Ecco qualche esempio. “In caso di successione di
imprese nel contratto di appalto con il medesimo committente …”.
Supponiamo che il committente, tipo una grande società di telecomunicazioni,
abbia dato in appalto i medesimi servizi a tre società di outsourcing, e
ad un certo punto decide di disdire il contratto con una di queste, e
di aumentare il flusso di chiamate nelle altre due, che per coprire il
fabbisogno assumono legittimamente il proprio personale. In tal caso non
vi è successione di imprese nel contratto di appalto (che non verrà più rinnovato). Potrebbe anche non sussistere più il medesimo committente
al rinnovo del contratto. Immaginiamo che una capogruppo decide di
affidare contemporaneamente i medesimi servizi (o alcune porzioni di
attività) ad una propria controllata (che magari ha molti lavoratori
sottopagati), e ad un certo punto decide che questa è in grado di
gestire tutto l’appalto, al punto che allo scadere del contratto
dell’altra società, questa si potrebbe poi ritrovare a dover contrattare
con un altro committente, ossia la controllata che ha assunto a nome
del gruppo la gestione dell’intero call center, salvo poi ricorrere al
sub-appalto.
Vi è un’altra questione, quella del prezzo dell’appalto,
che è il vero fattore determinante su cui si gioca la stabilità.
Generalmente il motivo per cui gli appalti vengono trasferiti da
un’azienda all’altra dipende dalla possibilità di poter pagare un prezzo
minore all’appaltatore, che per accaparrarsi la commessa deve pagare di
meno i propri dipendenti. Chi vieta al committente di pagare di meno il
nuovo appaltatore, tale per cui è impossibile che questo riesca a
mantenere i posti e le condizioni di lavoro? La clausola, inoltre, fa
riferimento alle medesime attività di call center. Il committente
potrebbe decidere di spezzettare le attività e realizzare più e diversi
appalti che snaturano il precedente contratto, oppure modificare in
parte l’organizzazione del lavoro o, ancora, la tipologia di servizi.
Bisogna riflettere, infine, sul fatto che se il nuovo
appaltatore ha già del personale impiegato in commesse in scadenza e
non rinnovate, e che quindi potrebbe utilizzare il nuovo contratto di
servizi per mantenere i posti di lavoro in essere. Possiamo parlare di tutela del lavoro
quando un imprenditore deve mandare a casa quelli già in servizio per
fare svolgere l’attività ai nuovi assunti perché costretto da una legge?
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