Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che potrebbe preservare delle vite umane. (Simone Weil 1937)
lotta-continua.it enrica petrarulo
All’inizio del nuovo secolo, nel corso del
video-documentario “In viaggio con Vittorio Foa”, a cura di Paolo
Medioli, l’ormai anziano ex azionista poneva la questione nascente
dell’“irrilevanza della parola”: di una parola, cioè, destituita da
qualsivoglia univocità e conseguente obbligo di osservanza. Una parola
“liquida”, diremmo oggi, che non designa più i confini stessi della
“cosa” rendendosi intercambiabile ad altri orizzonti di senso.
Nel 2008, anno della sua morte, seguì, in
collaborazione con Federica Montevecchi, “Le parole della politica” che
si proponeva di analizzare, a partire dal degrado del linguaggio
politico di quegli anni berlusconiani, le ragioni per le quali le parole
non avessero più peso, non costituissero più alcun impegno per il
futuro.
Scriveva Vittorio Foa:
Una caratteristica dell'irrilevanza dei discorsi d' oggi è che l' interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa. Quando l' interlocutore non è considerato o non c' è, la parola è nel vento.
Una caratteristica dell'irrilevanza dei discorsi d' oggi è che l' interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa. Quando l' interlocutore non è considerato o non c' è, la parola è nel vento.
Il libro di Roberto Gramiccia e Simone Oggionni, Le parole rubate. Contro-dizionario per la sinistra,
Mimesis edizioni, 2018, si inserisce di diritto in questo solco di
riflessioni ad usum della sinistra, già introdotte una ventina di anni
fa.
E’ a partire dal titolo che siamo avvertiti sul progetto culturale e politico dei due autori: quel termine contro, oggi così desueto e alcuni decenni fa così praticato (contro informazione, contro cultura, contro storia, contro potere, contro psichiatria,
ecc.), intende ristabilire, attraverso la lettura critica delle parole
chiave che una volta designavano il pensiero della sinistra, e che oggi
non designano più, un possibile armamentario linguistico per una sinistra ancora capace di esercitare una sua egemonia culturale.
Certo, lo stravolgimento, o l’espropriazione, di
alcuni termini che appartenevano al vocabolario della sinistra parte da
lontano e ne accompagna la trasformazione. In un antico Almanacco del
PCI( pubblicazione annuale che molto aveva contribuito alla formazione e
informazione politica dei militanti del Partito) degli anni Settanta
del secolo scorso, Luciano Gruppi già rifletteva sul senso comune cui
era approdata l’espressione datore di lavoro: ma non era l’operaio, il lavoratore, il vero datore di lavoro,
in quanto colui che eroga forza-lavoro, anziché il capitalista, o
l’imprenditore, che retribuisce la sua forza-lavoro? Potenza delle
parole.
Pure, non è che non si abbia contezza dello stato
delle cose: l’impossibilità di costruire un progetto politico, seppure
di breve gittata, in un tempo storico percepito irrevocabilmente come
istantaneo e simultaneo; un soggetto sociale disperso e abbandonato al
suo isolamento e alla sua solitudine; l’assenza di una capacità
desiderante dove immaginare un futuro, per sé e per gli altri,
costituirebbe già una trascendenza; la dismissione, se non la
fine, del lavoro umano che, per oltre due secoli a partire dalla
Rivoluzione Industriale, aveva forgiato la vita di generazioni di
lavoratori con il loro carico di rivendicazioni e di conflittualità,
mai disgiunto, però, dall’azione di difesa dello stato democratico, così
determinante e così poco riconosciuta, per la nostra nazione.
Sono questi i temi che presiedono alle indagini critiche degli autori de Le parole rubate,
insieme alla consapevolezza del ribaltamento della valenza comunicativa
della parola quando legata ai nuovi media dell’informazione; una
funzione comunicativa che si esaurisce in se stessa, nella sua sola
nominazione-enunciazione: qui, in assenza di un reale e riconosciuto
interlocutore, proprio come ci ricordava Vittorio Foa, nessuno si sente
impegnato a dare un seguito attraverso l’agire politico. Oppure, come
Alberto Olivetti evidenzia nella sua prefazione, nella comunicazione
digitale si è prodotta una superfetazione tale che l’immagine e la
parola risultano depotenziate del loro senso originario: meri
nominalismi sulle cui intensità sono misurabili anche le nuove relazioni
sociali.
Valga, tra i tanti lemmi che il libro affronta, l’analisi di quello di Meritocrazia,
forse il più mistificante ma nel nostro caso paradigmatico, in quanto
contiene la pretesa di legittimare una divisione sociale attraverso la
nozione di natura. Si “è” meritevoli come una qualità dello
spirito, come un attributo che ci caratterizza alla nascita. Tanto basta
a pacificare la supposta eticità della selezione, a destra come a
sinistra, della classe dirigente. E nessuno che si interroghi se, al di
là della dismisura tra le opportunità occorse secondo le diverse classi
sociali di appartenenza, quell’attributo di meritevole non valga come quieto conformismo e allineamento utile alla perpetuazione dell’esistente.
Oppure quello di Sindacato che, da
strumento di avanzamento sociale, sarà individuato come strumento di
conservazione. Ed è proprio qui che si annida il vulnus del nuovo
linguaggio introdotto da un inedito ceto politico estraneo ai partiti
tradizionali che, fino agli inizi degli anni Ottanta, avevano governato
le conflittualità anche mediante la repressione più feroce, ma, pur
sempre, nel riconoscimento della legittimità delle diverse parti
sociali. Attraverso un ribaltamento di senso si designa oggi come conservatrice qualsiasi
azione sia di impedimento alla costruzione di un “pensiero” finalmente
liberato dalla categoria storica delle classi sociali. Potenza delle
parole.
Due termini, quello della conflittualità e quello della classe, che Le parole rubate esplora alla luce delle trasformazioni intervenute, attraverso la rivoluzione tecnologico-informatica, nei modi di produzione.
Un’interpretazione, però, che non si affida
soltanto all’analisi sociologica, ma guarda anche all’economia dei
sentimenti, come è quello della perdita. A questo proposito,
nell’elaborazione della nozione di classe, così scrivono Roberto
Gramiccia e Simone Oggionni: Sono bastate poche decine d’anni per
seppellire sotto una montagna di detriti il senso di una parola per la
quale un tempo si poteva anche morire.
Perdita, dunque, anche di una capacità del fare
inchiesta, attraverso le indagini sul campo, dei gangli dove più si
evidenzia l’esercizio del capitale. Valgano per tutte ciò che, a partire
dagli anni del cosiddetto “autunno caldo” (1969), rappresentarono le
inchieste di Giulio Maccacaro sulla salute degli operai della Montedison
presso la quale teneva corsi sulle malattie del lavoro e informava gli
operai sul diritto alla “non – delega” della salute. Oppure, quelle sul
tema della fabbrica diffusa già introdotto, nei “Quaderni rossi”, da Raniero Panzieri.
Si evidenzia, attraverso la lettura de Le parole rubate,
un patrimonio di conoscenza e di consapevolezza che non può andare
disperso. Una delle motivazioni alla stesura di un vocabolario teso alla
ridefinizione di parole oggi compromesse può essere, allora, quella di
rivolgersi a un lettore disorientato e deprivato delle chiavi di
interpretazione del presente, nel tentativo di accompagnarlo verso la
riappropriazione di un proprio lessico di appartenenza.
Oppure, in ragione di una scrittura
programmaticamente chiara e agevole, i due autori hanno inteso
consegnare a un ipotetico giovane lettore il senso originario delle
parole che più hanno informato e attraversato la storia del Novecento,
proprio perché ne intenda lo svilimento attraverso il pensiero critico
fondativo di quel vocabolario.
(enrica petrarulo)
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