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Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei
numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le
folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate
ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a
supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per
la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica”
sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8
dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono
magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una
metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo,
sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il
governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della
popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a
beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il
miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media
mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza
transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”).
La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino:
la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.
Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di
torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle
cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per
contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne
della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici:
«La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i
costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile
tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la
costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia
se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il
traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è
semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno,
secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane
che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il
Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir
dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».
Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i
voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle
lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del
Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di
minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri
costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia
la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa,
con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla
stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio
narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale
assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di
Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione
pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi,
Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare
perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura
dall’impatto sicuramente devastante.
Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e
irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne
piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del
nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio
sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più
grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi
Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli
stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non
poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti
ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso.
Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso
ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni
catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio
“Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista
di “Repubblica”,
spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia –
il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri
di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area
metropolitana di Torino.
Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra
all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti
italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano –
ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di
sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la
puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa,
i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti
piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle
Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le
ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il
futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è
la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a
cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a
sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal
lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico
delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e
progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola
virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli
circuiti industriali
della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a
Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante
della politica.
Dietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi
multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra
neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella
della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo,
potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica
nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente
rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la
loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora
spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così
devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non
hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai
chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il
sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi
vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della
maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti)
che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di
euro.
Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro
la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il
diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere
se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte
alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a
imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la
protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la
battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8
dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese
avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa:
da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia
di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di
Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei
cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.
Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente
istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle
valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena
solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno
sottolineato una vicinanza civile e politica
con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini
dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi
rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa,
intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini
liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo
meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di
casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte,
sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra,
che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.
(Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici
italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci
divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).
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giovedì 13 dicembre 2018
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