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«Il sigillo di amore e potere tra Lucci e Salvini non è scandaloso dal punto di vista legalitario, ma politico. Non si tratta di un giovane daspato per aver scavalcato una barriera o acceso un fumogeno. Ma di un piccolo boss della criminalità che conta, che usa la curva per rafforzare questo potere e costruire relazioni con il suo specchio al Viminale»
Non
ricordo esattamente se era alla fine dei Novanta o nei primi anni Zero:
ero andato a trovare Valerio Marchi (studioso delle forme del conflitto
giovanile, prezioso amico e compagno scomparso nel 2006) nella sua
libreria di via dei Volsci, alle prese con gli ultimi arrivi, felpe e
sciarpe degli Ultrà Sankt Pauli. Come sempre, dai soliti sfottò
calcistici si passò in un attimo a parlare di curve, di San Lorenzo, dei
pischelli di periferia, del mondo. Valerio era particolarmente
amareggiato, passò in rassegna le contraddizioni del quartiere che
amava, la difficoltà di trovare una bussola tra una storia popolare e
antagonista e un presente spurio in cui convivevano sedi politiche e
ritrovi ultras di estrema destra, nuove esperienze sociali e forme
impolitiche di aggregazione giovanile. Il solito tarlo – coincidente –
dello storico, del sociologo e del militante: come riconoscere,
includere, valorizzare le forme anomale e “barbare” del conflitto,
dismettendo qualsiasi postura moralista o giudicante.
Provocazioni, paradossi o richiami espliciti alle responsabilità: non usava mezze misure Valerio quando doveva analizzare la realtà sociale, le sue contraddizioni, la sua aspra materialità. Ci aveva insegnato a guardare con altri occhi le esperienze contraddittorie e ambivalenti dello stadio. Ci invitava a leggere tendenze e forme di vita senza pregiudizi ideologici, sfidando la “sinistra di movimento” a entrare in rapporto, vivere e condizionare la direzione di quelle tendenze.
Sappiamo di navigare in territori complicati e striati, ma forse è giunto il tempo di provare a tracciare un bilancio storico di una vicenda che, arbitrariamente, potremmo far partire dal 1994, anno di uscita del saggio Ultrà, le culture giovanili negli stadi d’Europa, proprio di Valerio Marchi. Parliamo di questo paese, di una tendenza presente in molte curve, non tutte ovviamente, sicuramente nella maggior parte delle grandi città (Milano, Torino, Roma). Parliamo dei gruppi organizzati delle curve, non del tifo comune, fuori dai gruppi, che invece negli ultimi anni ha visto nascere iniziative interessanti e inaspettate.
Lo stesso ministro, sfacciatamente e spregiudicatamente, sorpassa con il solito balzo mediatico tutte le prudenze formali del ruolo, il galateo politico moderato e borghese, i doveri istituzionali, scrivendo un nuovo capitolo della violenza politica di governo. Una miscellanea di senso che si compie ben al di là del recinto della post-verità, che serve a costruire l’ennesimo popolo, l’ennesimo esercito di pretoriani del like, questa volta a partire dalla pancia dei 5 mila tifosi accorsi a celebrare la Curva Sud milanista. Un gioco che spariglia la razionalità politica pubblicamente accettata, mettendo al centro il proprio corpo, il proprio comando, come sintesi possibile e praticabile.
Sul primo, ha pesato la ferita aperta (in tutti i sensi) della trasferta francese – a tratti una vera e propria caccia all’uomo –, risposta violenta alla sfida lanciata dal gruppo della nord, capofila di una filiera neofascista europea che si affaccia all’Olimpico, e non solo, in occasione delle partite che contano. Sul secondo caso, nei giorni seguenti all’omicidio di Desirée, colpisce il fatto che la bandiera della guerra allo spaccio viene issata da un indagato per traffico internazionale di droga, accusato di essere legato al clan Senese, finito in diverse inchieste sul legame tra neofascismo, malavita e controllo violento del territorio.
Situazioni non molto diverse si trovano nella curva juventina, quella dell’inchiesta sul connubio tra società, gruppi organizzati e mafia. Quella curva Scirea in cui campeggia uno striscione dall’acronimo programmatico, Ducs – Drughi Ultrà Curva Sud – che suona così bene alle orecchie dei neofascisti bianconeri, gli stessi che negli anni Ottanta aggiungevano una fiamma tricolore ai simboli del casco e della chiave inglese di chiara, e scandalosa, matrice autonoma. Contesti e storie simili si trovano nella curva interista, vicende pesanti hanno attraversato quella romanista (a partire dall’assassinio di Ciro Esposito) e di tante altre squadre, ormai stritolate dalla tenaglia tra subalternità, chiusura identitaria e interessi “di impresa”.
L’antagonismo contro lo Stato e la polizia si è trasformato in recupero di identità escludenti, populiste, razziste, che mimano e praticano la costruzione del nemico interno, che chiedono diritti per i propri affiliati (diffidati o daspati) ma pena di morte per immigrati, pedofili o altri public enemy a buon mercato. Garantismo per la propria violenza di comando territoriale, giustizialismo e richieste di ordine e polizia per il resto del mondo.
La cartolina del calcio italiano stride plasticamente con le esperienza europee più avanzate, quella tedesca in particolare, in una sintesi dei fallimenti, dal basso e dall’alto: stadi obsoleti e inospitali, prezzi alle stelle, dominio incontrastato del mercato televisivo a pagamento, riduzione degli spettatori, gruppi ultras decimati dalle politiche repressive che reclamano un posticino al banchetto tutto legge e ordine (e profitti). Cosa ha combinato la “sinistra” in questi trent’anni, e soprattutto cosa fa e farà nei prossimi, lo racconteremo nelle prossime puntate. Ripartendo dalle domande non pacificate e ancora attuali di Valerio Marchi.
Provocazioni, paradossi o richiami espliciti alle responsabilità: non usava mezze misure Valerio quando doveva analizzare la realtà sociale, le sue contraddizioni, la sua aspra materialità. Ci aveva insegnato a guardare con altri occhi le esperienze contraddittorie e ambivalenti dello stadio. Ci invitava a leggere tendenze e forme di vita senza pregiudizi ideologici, sfidando la “sinistra di movimento” a entrare in rapporto, vivere e condizionare la direzione di quelle tendenze.
Attaccava senza remore l’accademia sociologica, disegnava le parole con quella smorfia da vecchio skinhead, le colorava con le sue inconfondibili note afone.Quella chiacchierata oggi riemerge nitida tra i ricordi, davanti agli abbracci tra capi di curva e ministro degli interni, subito rilanciati da altri gruppi fedeli alla retorica ultras antimoderna. Quelle parole tornano a valanga come nemesi di una sfida che sembra chiudersi (male) sul panorama ultras italiano.
Sappiamo di navigare in territori complicati e striati, ma forse è giunto il tempo di provare a tracciare un bilancio storico di una vicenda che, arbitrariamente, potremmo far partire dal 1994, anno di uscita del saggio Ultrà, le culture giovanili negli stadi d’Europa, proprio di Valerio Marchi. Parliamo di questo paese, di una tendenza presente in molte curve, non tutte ovviamente, sicuramente nella maggior parte delle grandi città (Milano, Torino, Roma). Parliamo dei gruppi organizzati delle curve, non del tifo comune, fuori dai gruppi, che invece negli ultimi anni ha visto nascere iniziative interessanti e inaspettate.
Il caso del sigillo di amore e potere tra Lucci e Salvini non è scandaloso dal punto di vista legalitario, ma da quello politico.Non si tratta di un giovane daspato per aver scavalcato una barriera, acceso un fumogeno, partecipato a una rissa tra tifosi. Ma di un piccolo boss interno al comando della criminalità che conta, che usa la curva per rafforzare questo potere e per costruire relazioni con il suo specchio al Viminale, il ministro spietato contro poveri e marginali, ossequioso e amico dei poteri forti e mafiosi. Un approdo, quello milanista, iniziato tanti anni fa con la cacciata e la messa all’angolo dei gruppi legati alla tradizione di sinistra e di movimento della curva.
Lo stesso ministro, sfacciatamente e spregiudicatamente, sorpassa con il solito balzo mediatico tutte le prudenze formali del ruolo, il galateo politico moderato e borghese, i doveri istituzionali, scrivendo un nuovo capitolo della violenza politica di governo. Una miscellanea di senso che si compie ben al di là del recinto della post-verità, che serve a costruire l’ennesimo popolo, l’ennesimo esercito di pretoriani del like, questa volta a partire dalla pancia dei 5 mila tifosi accorsi a celebrare la Curva Sud milanista. Un gioco che spariglia la razionalità politica pubblicamente accettata, mettendo al centro il proprio corpo, il proprio comando, come sintesi possibile e praticabile.
Nella capitale, sponda laziale, subito si è levato l’appello di Fabrizio Piscitelli, Diabolik per gli amici in fez delle prime dieci file della curva, che vorrebbe incontrare al più presto il ministro «per spiegare – dice – l’assurda repressione a cui siamo sottoposti».Negli ultimi mesi, gli Irriducibili hanno di nuovo spinto sull’acceleratore ideologico e di appartenenza, razzista, in una escalation senza freni. Lo striscione «marsigliese velocista, sporco arabo comunista», dopo la trasferta di Europa League; di seguito, «agli ultras diffide e carcere per tifare e agli immigrati luoghi sicuri per spacciare e violentare. Questa è la vostra Europa!». In mezzo, un siparietto omofobo e sessista a Sassuolo, contro due giocatori romanisti. Così, tanto per.
Sul primo, ha pesato la ferita aperta (in tutti i sensi) della trasferta francese – a tratti una vera e propria caccia all’uomo –, risposta violenta alla sfida lanciata dal gruppo della nord, capofila di una filiera neofascista europea che si affaccia all’Olimpico, e non solo, in occasione delle partite che contano. Sul secondo caso, nei giorni seguenti all’omicidio di Desirée, colpisce il fatto che la bandiera della guerra allo spaccio viene issata da un indagato per traffico internazionale di droga, accusato di essere legato al clan Senese, finito in diverse inchieste sul legame tra neofascismo, malavita e controllo violento del territorio.
Situazioni non molto diverse si trovano nella curva juventina, quella dell’inchiesta sul connubio tra società, gruppi organizzati e mafia. Quella curva Scirea in cui campeggia uno striscione dall’acronimo programmatico, Ducs – Drughi Ultrà Curva Sud – che suona così bene alle orecchie dei neofascisti bianconeri, gli stessi che negli anni Ottanta aggiungevano una fiamma tricolore ai simboli del casco e della chiave inglese di chiara, e scandalosa, matrice autonoma. Contesti e storie simili si trovano nella curva interista, vicende pesanti hanno attraversato quella romanista (a partire dall’assassinio di Ciro Esposito) e di tante altre squadre, ormai stritolate dalla tenaglia tra subalternità, chiusura identitaria e interessi “di impresa”.
A oggi, la battaglia “contro il calcio moderno” (espressione quanto mai retorica, ineffabile e spuntata) si è risolta, per l’ambito segnalato, con il recupero integrale delle istanze “antagoniste” da parte del potere politico e delle società, in termini di connivenza economica, delega di comando, lobby e gestione di attività illegali legate a pezzi di criminalità organizzata.La battaglia contro il caro biglietti, che affondava le radici nelle pratiche di autoriduzione degli anni Settanta, si è tramutata in controllo di pacchetti di biglietti e nei bonus riservati ai gruppi organizzati. L’autorganizzazione (anche) “produttiva” del tifo si è fatta lotta e competizione – di mercato – per la produzione e diffusione, a caro prezzo, di materiale ultras ma non solo. La curva come taz collettiva libera dal controllo dello Stato, è diventata spazio di sovranità per estendere il controllo di filiere mafiose dello spaccio o di altri affari neoliberali, filiere politico-elettorali legate alle destre di governo. La lotta contro la tessera del tifoso, la video sorveglianza, l’estensione del reato in flagranza sono rimaste questioni di bandiera e di testimonianza, incapaci di costruire relazioni larghe, spazio pubblico, contaminazioni sociali, nonostante siano diventate programma di governo, come ampiamente previsto e predetto.
L’antagonismo contro lo Stato e la polizia si è trasformato in recupero di identità escludenti, populiste, razziste, che mimano e praticano la costruzione del nemico interno, che chiedono diritti per i propri affiliati (diffidati o daspati) ma pena di morte per immigrati, pedofili o altri public enemy a buon mercato. Garantismo per la propria violenza di comando territoriale, giustizialismo e richieste di ordine e polizia per il resto del mondo.
La cartolina del calcio italiano stride plasticamente con le esperienza europee più avanzate, quella tedesca in particolare, in una sintesi dei fallimenti, dal basso e dall’alto: stadi obsoleti e inospitali, prezzi alle stelle, dominio incontrastato del mercato televisivo a pagamento, riduzione degli spettatori, gruppi ultras decimati dalle politiche repressive che reclamano un posticino al banchetto tutto legge e ordine (e profitti). Cosa ha combinato la “sinistra” in questi trent’anni, e soprattutto cosa fa e farà nei prossimi, lo racconteremo nelle prossime puntate. Ripartendo dalle domande non pacificate e ancora attuali di Valerio Marchi.
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