Esiste una crisi a livello globale. Il cambiamento radicale del Clima sempre di più mette in discussione l’attuale modello di sviluppo, e si rende palese coi disastri ambientali che attraversano il mondo da nord a sud, con l’emersione di nuovi fenomeni sociali, come le migrazioni climatiche, che rimettono in discussione le fondamenta dell’attuale sistema economico e sociale. È un’emergenza: occorre cambiare subito il modello di sviluppo in senso ecologico riducendo immediatamente il tendenziale aumento della temperatura del pianeta, pena il disastro climatico. La responsabilità è collettiva e si misura su scala globale. Laddove però occorrerebbero politiche di trasformazione ecologica ed energetica, le risposte dei Governi di tutto il mondo sembrano andare in tutt’altra direzione. Assumono sempre più rilevanza, paradossalmente, i negazionismi ambientali, che oggi trovano nel presidente Trump e nelle politiche del presidente brasiliano Bolsonaro i loro massimi sostenitori a livello di rappresentanza politica e istituzionale. A sostegno delle loro politiche neo-protezioniste, molte delle forze reazionarie e populiste di destra, che oggi crescono in tutto il mondo, utilizzano il negazionismo ambientale come leva per la riproduzione delle politiche di estrazione di valore dai territori a discapito della salute della cittadinanza e degli equilibri ambientali a livello globale, riproducendo e inasprendo le disuguaglianze.
Il nostro Governo, dal canto suo non sembra voler dare delle risposte all’altezza del nostro tempo. I disastri degli ultimi tempi che hanno attraversato il nostro paese, dal Veneto, alla Sicilia e alla Sardegna, non sembrano aver fatto cambiare la rotta delle politiche messe in campo. Il ministro dell’interno Salvini, leader di uno dei due partiti della maggioranza, ha attaccato duramente “gli ambientalisti da salotto” scaricando su chi si impegna quotidianamente a tutelare i propri territori tutte le colpe dei disastri e non riconoscendo le cause profonde che hanno permesso i drammi delle ultime settimane. Non c’è nulla di nuovo, eppure nulla di normale, che in Italia di fronte a piogge, nevicate e ordinari fenomeni climatici il nostro Paese da nord a sud si blocchi assistendo a frane, allagamenti, incendi, inondazioni, danni alle strutture con conseguente blocco dei trasporti e dei servizi con tanti, troppi morti. Non è causa solo del maltempo, ma della mancanza della volontà politica di gestire le risorse in funzione di investimenti orientati al miglioramento delle infrastrutture, di incentivare e indirizzare gli esborsi pubblici verso la manutenzione ordinaria e la prevenzione, verso politiche ecologiche, di sensibilizzazione culturale e di costruzione di opere utili a rendere sicuri i territori dai dissesti idrogeologici e ambientali in genere. Oggi più che mai i processi di impoverimento e sfruttamento dell’ambiente rappresentano per molti, imprese, multinazionali, lobby, partiti e criminalità organizzata un bacino d’interesse ampissimo per fare profitto sugli appalti pubblici, imponendo un modello di sviluppo artificialmente e insostenibilmente “infinito” in un contesto di risorse in via d’esaurimento. Questo comporta una gestione sempre più solo emergenziale e contingente delle conseguenze dei disastri ambientali. Tutto ciò è inevitabile se a cambiare non è l’intero sistema di sviluppo economico e sociale.
L’8 dicembre insieme a tante realtà, comitati, reti e movimenti ci mobiliteremo rispondendo all’appello lanciato dal movimento No Tav il 17 novembre e accolto dall’assemblea nazionale di Venaus per la costruzione di una data di protagonismo dei e sui territori in occasione della Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte. Ci mobiliteremo insieme a chi da anni lotta e resiste contro la costruzione di opere inutili, dannose e imposte, dal Tav in Val Susa, passando per il Tap in Salento, dal Muos a Niscemi, fino al comitato No Grandi Navi a Venezia, attraversando la Terra dei Fuochi e le tante esperienze di resistenza ai tentativi di sfruttamento dei territori tramite opere o processi invasivi e dannosi per l’ambiente, opere sempre più militarizzate tramite la repressione del dissenso verso chi legittimamente vi si oppone. Vogliamo prendere parola sul nostro futuro, vogliamo determinare i processi ambientali, economici, sociali e politici che lo comporranno.
L’8 dicembre sarà la giornata in cui ancora una volta ribadiremo che non vogliamo nessuna grande opera inutile. Al contrario, vogliamo che le risorse pubbliche servano per migliorare e implementare tutti quei servizi che da anni, dalle scuole alle università, passando per la sanità e i trasporti sono stati definanziati e ridotti, rendendoli sempre più inaccessibili ai più e limitati a chi ha la possibilità di accedere ai servizi privati. Ma il rifinanziamento è una condizione necessaria e non sufficiente. Insieme a esso, è necessario un cambiamento strutturale e un ripensamento complessivo della modalità di distribuzione e gestione condivisa delle risorse comuni, implementando in maniera altrettanto condivisa e partecipata modelli di sviluppo e gestione della cosa pubblica, senza che danneggino i territori e le comunità che li abitano: quello delle grandi opere è infatti un paradigma di sviluppo che vogliamo smontare dalla testa ai piedi perché ha insite le contraddizioni di un sistema che fa dello sfruttamento dei territori, delle vite e delle risorse un filo conduttore generale che riteniamo necessario spezzare. Gli strumenti per farlo -lo insegnano le lotte pluri-decennali sui nostri territori, e non solo- sono molteplici e cangianti a seconda delle situazioni: i nostri corpi, i nostri studi e la produzione di saperi critici in sede accademica e con le comunità che vivono direttamente sui territori coinvolti (si pensi ai controsservatori composti da accademici e professionisti di ogni sorta), la costruzione di larghi processi democratici dentro e fuori le scuole e le università, l’azione diretta contro i cantieri, i blocchi, i luoghi di sorveglianza militare, la produzione indipendente di informazione indipendente tramite piattaforme di comunicazione libere.
A partire di luoghi della formazione e dalle nostre città noi possiamo riprendere il controllo dei nostri territori. Abbiamo una responsabilità storica rispetto alle contraddizioni ambientali e climatiche, una responsabilità che è collettiva e che oggi deve esprimersi nell’impegno quotidiano di tutte e tutte noi per la promozione dell’autogoverno e del controllo democratico del modello di sviluppo, a partire da una necessaria lotta per la liberazione dei saperi in funzione della tutela consapevole dell’ambiente. Liberare le catene al sapere significa quindi poter prendere in mano il timone di un mondo che ormai va alla deriva, in balia delle onde di un sistema fondato sulla competizione e sulla crescita a tutti i costi. Un sistema che distrugge il mondo che conosciamo rispondendo ai bisogni di chi a di più e aggredisce le condizioni materiali di chi ha di meno. Dalle scuole e università l’8 dicembre attraverseremo le piazze di tutto il paese: non possiamo più aspettare perché il disastro è dietro l’angolo, ma la possibilità di costruire un mondo più giusto è ad un passo da noi.
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