sabato 2 giugno 2018

Quei trattati immodificabili che creano squilibri. Un “piano B” serve a tutti

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Non è facile capire come funziona il nostro angolo di mondo ascoltando i telegiornali o dando retta alla triade Repubblica-Corriere-Stampa. Da queste fonti, infatti, “l’Europa” viene descritta come il paradiso delle virtù e il nostro paese come la sentina di tutti i vizi; solo dosi a salire di austerità e sacrifici potrebbero correggere un “carattere nazionale” davvero scadente.
Sui vizi italiani si può facilmente concordare – e qui cascano di solito molti asini “di sinistra” – ma l’Unione Europea (una costruzione tecnoburocratica strutturata da trattati non modificabili, se non all’unanimità) è ben lontana dall’essere una casa di vetro.
Per capirne di più bisogna provare a leggere fonti diverse, che diano conto di quel che matura dentro l’establishment tedesco (il vero e unico “motore” della Ue) e soprattutto di quale sia la situazione economica complessiva, con tutte le distorsioni che da qui non si vedono e che i media mainstream si guardano bene dall’illuminare.

Il formarsi di un governo grillin-leghista, con un programma teoricamente “indipendentista” rispetto alla Ue, è stato accompagnato da alti allarmi (registrati anche dai “mercati”), ma con una serie di considerazioni che qui vengono considerate pura follia, mentre altrove sono normale dibattito su cosa può avvenire a seconda dell’evoluzione di alcune variabili.
Per esempio, riferisce il corrispondente dalla Germania di Italia Oggi, sulla prestigiosa rivista Manager Magazine, uno degli opinionisti più influenti, Daniel Stelter, spara a zero sulla Bce di Mario Draghi: «Solo gli osservatori più creduloni e quelli che si lasciano cullare dalle dichiarazioni ufficiali dei dirigenti della Bce sono rimasti sorpresi. L’euro resta una costruzione che ha aumentato le differenze economiche, invece di promuovere le convergenze dei paesi coinvolti, come ci era stato promesso. E non può essere stabilizzato con maggiori trasferimenti tra i paesi».
Ahia… I difensori acritici della moneta unica – un trattato come gli altri, “irreversibile” – avrebbero già qui materia per chiedersi se è proprio così intelligente escludere che si possa fare a meno di uno strumento “che ha aumentato le differenze economiche” (tra paesi, aree regionali, classi sociali, ecc) e che “non può essere stabilizzato”.
Ma Stelter è un liberale tedesco senza paraocchi o illusioni, che si cura solo degli interessi del capitale teutonico. E dunque per lui «Paesi come l’Italia, il Portogallo e la Grecia non hanno alcuna possibilità di restare nell’euro. Sebbene Mario Draghi sottolinei che un paese, se esce dall’euro, deve ‘naturalmente’ rimborsare i suoi debiti Target 2, sarebbe più o meno come cercare di mettere le mani nelle tasche di un uomo nudo. L’Italia dichiarerebbe semplicemente bancarotta. Problema risolto».
Era il consiglio che Mélénchon e la sinistra francese avevano dato a Tsipras e Varoufakis, prima del referendum sul Memorandum della Troika. Dichiarare default è ovviamente un problema immediato piuttosto serio, ma in confronto a quello che i greci stanno subendo da tre anni a questa parte comincia ad apparire un male decisamente minore. Sorprende che sia un membro dell’establishment tedesco a scriverlo, ma in fondo sta descrivendo un timore per qualcosa che si può fare e che, se fatto, sarebbe un problema anche per la Germania.
L’analisi di Stelter sulla crisi economica italiana è più realistica di quella che vediamo sui media di casa nostra: «La recessione è durata più a lungo di quella degli anni Trenta. La performance economica è ben al di sotto del livello già non  brillante del 2008. La disoccupazione è elevata, il debito pubblico fuori controllo. Il recupero del 30% di svantaggio in termini di costo del lavoro per unità di prodotto nei confronti della Germania tramite una svalutazione interna, vale a dire una riduzione dei salari, è del tutto illusorio. L’Italia potrebbe salvare una parte della sua base industriale uscendo dall’eurozona. Con una lira svalutata, il paese tornerebbe competitivo da un giorno all’altro».
Molta carne al fuoco, come si vede; con soluzioni che possono essere gestite “da destra” (da un governo che intende dare fiato soltanto alle imprese e alle classi più agiate, proseguendo l’opera di riduzione del salario medio mentre si sperimenta la flat tax) oppure “da sinistra” (da un governo che intende ridar vita al mercato interno, magari nazionalizzando banche e imprese strategiche per salvaguardare-creare occupazione, ecc). Soltanto qui ci viene raccontato che si tratta di cose “impensabili”. Ci deve essere un perché.
Anche l’idea della “moneta parallela” (dai mini-bot leghisti ad altre ipotesi di segno diverso) appare a Stelter qualcosa di fattibile: «I politici italiani hanno imparato dagli errori della Grecia. La semplice minaccia di uscire dall’euro non funziona più. È meglio prepararla con una valuta parallela, contro la cui introduzione né Bruxelles, né la Bce potranno fare molto».
Persino la cancellazione di parte del debito pubblico non sembra così delirante, anzi la rivista Manager Magazine suggerisce di approfittarne nell’interesse della Germania: «La cancellazione del debito dovremmo farla in maniera complessiva: comprendere anche il debito di tutti gli altri paesi, e al tempo stesso l’eccesso di debito privato che si nasconde dietro gli oltre mille miliardi di crediti deteriorati nei bilanci delle banche europee. Parliamo di una somma complessiva di oltre 3 trilioni. Gli italiani possono essere accusati solo di non avere pensato in grande. Cosa sono 250 miliardi per l’Italia? Se vuoi davvero farlo, fallo per il bene di tutti».
Resta la domanda: perché in Germania di queste cose si può discutere tranquillamente? Probabilmente perché sanno benissimo quale condizione di squilibrio strutturale hanno creato negli ultimi decenni; e nessuno squilibrio può durare in eterno, nemmeno se volge – come nel caso del surplus commerciale tedesco – a tuo vantaggio.
Il secondo contributo arriva perciò da Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza (non proprio un organo bolscevico…). “Il modello economico tedesco si fonda sullo squilibrio strutturale dei conti con l’estero, commerciali e finanziari, entrambi a suo favore. L’attivo commerciale, in prospettiva, è sempre più a rischio: zavorrato dalla stagnazione interna all’Eurozona; minacciato dal nuovo approccio americano in materia di commercio internazionale e dalla prospettiva di indipendenza tecnologica da parte della Cina; reso critico dalla insostenibilità di debiti crescenti, statali o privati che siano, e dai rischi che ne conseguono per la stabilità finanziaria globale.” E’ tutto un sistema che sta andando in pezzi, con lo sfarinamento dei pilastri su cui era fondato.

Non è difficile vedere che ciò che è buono per un’economia, in un sistema chiuso da trattati immodificabili, è pessimo per tutte le altre; o almeno per quelle parti che non sono strettamente integrate con quella avvantaggiata. Tanto più se anche la struttura finanziaria è tutt’altro che priva di problemi: “nel corso del tempo, Francoforte si è assunto i rischi esternalizzati dagli altri sistemi economici: è successo così con i mutui subprime americani, che venivano cartolarizzati, ed ancora oggi accade che i prodotti derivati originati dall’estero siano il suo core business; commercia e finanzia rischi valutari, sugli interessi, sul default.”
Una condizione che spiega perché la Germania, pur vantando i fondamentali economici migliori della zona euro, è così preoccupata: “Ecco perché la Germania vive con una duplice paura: da una parte, la sua stabilità economica dipende dall’export strutturalmente attivo e quindi dal deficit produttivo altrui; dall’altra, la sua ricchezza dipende dalla stabilità dei suoi debitori, che è insostenibile se rimangono strutturalmente deficitari.”
La contraddizione è palese: il tuo successo ha rovinato i tuoi partner, che ora sono debitori nei tuoi confronti, ma ogni giorno di più si avvicinano ad essere insolventi. Quando decideranno di (o saranno costretti a) non pagare quei debiti tutti i problemi altrui – da te creati – diventeranno tuoi. La retorica nazionale tedesca si è abituata allo stilema razzista dei “mediterranei cicale”, guardandosi bene dallo spiegare alla propria popolazione le responsabilità tedesche nella creazione di questo squilibrio. Basti pensare che contrariamente a quel che spiegavano i governi mpegnati a demolire le tutele del lavoro “per favorire gli investimenti stranieri”, “ a fine 2016, lo stock di investimenti diretti netti italiani in Germania ammontava a 46.8 miliardi di euro, mentre quello dei tedeschi in Germania arrivava a soli 33,8 miliardi”.
Ma almeno nei circoli più svegli dell’establishment e dei media specializzati, ogni tanto, qualche ammissione viene fatta. La costruzione della Unione Europea è un edificio mal pensato, peggio realizzato, e tenuto insieme con vincoli che diventano più stretti – e dunque dannosi – man mano che gli squilibri si accentuano. L’”Europa a due velocità”, messa in campo dall’asse franco-tedesco, è l’ennesima stretta nella stessa direzione.
Gli scricchiolii, economici e politici, aumentano. Un “piano B”, ora, serve a tutti. Anche a chi si dice “di sinistra”.

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