(Cinzia Guaita, Efisio Murcia, Marina Muscas, Teresa Piras e Arnaldo Scarpa),
Incontro con Goffredo Fofi e Nicola Villa
Chi siamo
Il Comitato Riconversione Rwm per la pace ed il lavoro sostenibile si è costituito il 15 maggio scorso ad Iglesias ed è attualmente composto da oltre venti aggregazioni locali, nazionali e internazionali accomunate dallo scopo di promuovere la riconversione al civile di tutti i posti di lavoro dello stabilimento Rwm che si trova tra i territori di Iglesias e Domusnovas, nell’ottica di uno sviluppo del territorio che sia pacifico e sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e come segno di volontà di pace dal basso, che possa costituire uno stimolo alla cittadinanza attiva e alla politica nei vari territori nazionali e internazionali, necessario in questo clima di “guerra mondiale a pezzi”.
Come più volte riportato dalla stampa e documentato da numerose indagini, nello stabilimento, a pochi chilometri dai due centri abitati, vengono prodotte bombe come la Mk82, tristemente nota per essere usata dall’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, che ha provocato quella che è stata definita dall’Onu “la più grave catastrofe umanitaria mondiale dal 1946 ad oggi”.
La produzione di armi in Italia è regolata dalla legge 185/90 che vieta la vendita di armi a paesi in conflitto e prevede che ogni partita di armamenti che parta o transiti dal nostro Paese debba essere autorizzata dal Ministro degli esteri ma, a fronte di norme così restrittive, si registra dal 2015 al 2016 un aumento di ordinativi pari al 85%, perlopiù diretti a paesi del cosiddetto Mena (Medio Oriente e Nord Africa).
Sono degli ultimi mesi le richieste della Rwm al Comune di Iglesias per l’autorizzazione alla realizzazione di un Campo Prove per testate di scoppio e l’allestimento di un capannone nella zona industriale di Sa Stoia per lo stoccaggio di materiali infiammabili.
I due terzi dello stabilimento, così come l’area relativa alla richiesta di ampliamento, si trovano nell’isola amministrativa iglesiente detta “San Marco” che, a fronte della sua importanza naturalistica, archeologica (tempio nuragico-fenicio-punico di Matzanni) e turistica, incuneata come è tra i comuni di Domusnovas, Siliqua, Musei e Vallermosa, alle porte del Parco regionale del Marganai-Linas-Oridda, non è stata classificata nell’ultimo Piano Regolatore Generale e dunque risulta zona “bianca”.
Il 19 luglio 2017, su proposta del comitato, il Consiglio comunale di Iglesias ha votato all’unanimità un ordine del giorno che dichiara Iglesias città della Pace e della Solidarietà ed esprime la contrarietà della città alla produzione di ordigni di guerra nel suo territorio con la contemporanea ferma volontà di salvaguardare in ogni modo sostenibile la piena occupazione di tutti i lavoratori dello stabilimento RWM Italia s.p.a.
Uno yemenita vale quanto un sardo
Il coordinamento del Comitato è nato molto velocemente, basandosi su relazioni umane, sociali, associative, politiche che hanno delle radici lontane: c’è la storia di chi è stato sul pezzo già da tempo, seguiva questi temi dagli anni novanta con la vicenda della Sei (Sarda esplosivi industriali) una fabbrica fondata a Ghedi in provincia di Brescia; oppure l’esperienza anarchica che si è impegnata con il blocco dei carrarmati al porto di S’Antioco o le proteste alle base di Teulada e Decimo; o ancora il Movimento dei Focolari, un’esperienza di ricerca di radicalità rispetto ai principi del Vangelo, nato nel Sessantotto che è riuscito a organizzare il 7 maggio del 2017 una Run for Unity a Iglesias, una iniziativa che si fa una volta all’anno in un giorno ben preciso in tutto il mondo, organizzata in maniera tale nella stessa ora locale nei vari fusi orari e quindi si svolge in 24 ore.
Forse la cosa decisiva è stata la scoperta che le bombe prodotte in Sardegna sono a oggi usate nella guerra in Yemen, una guerra che già conta 10mila morti. L’idea che noi sardi potessimo far del male indirettamente alla popolazione dello Yemen era qualcosa che non riuscivamo a concepire, soprattutto in contraddizione con lo spirito di molti religiosi o meno, per i quali uno yemenita vale quanto un sardo. Il paragone può sembrare esagerato ma ci siamo sentiti come quei bravi tedeschi negli anni quaranta che vedevano fumare i camini, sapevano di cosa si trattava, però continuavano a far una vita normale, magari trasmettendo dei valori ai propri figli.
Noi non vediamo il fumo, ma lo sappiamo che nello Yemen scoppiano le nostre bombe, sono stati trovati numeri di matricola, l’ha denunciato l’Onu, Roberto Cotti, un ex senatore del Movimento cinque stelle, ha prodotto un dossier con dovizia di particolari. Era perciò innegabile che le bombe prodotte in Sardegna stavano ammazzando la gente e abbiamo iniziato a cercare, a scrivere lettere, a telefonare a conoscenti a dire “dobbiamo fare qualcosa”.
Il primo incontro l’abbiamo deciso nella piazza municipale della città, c’era la piccola fiera del libro locale, con questo microfono in mezzo alla città. Le persone si avvicinavano, si interessavano, l’abbiamo fatta partire da lì perché è un luogo simbolico dell’incontro, è stata una manifestazione interessante perché usciva dagli schemi: c’erano bambini delle scuole con le maestre, gli adolescenti che erano tra gli organizzatori, gli adulti impegnati da tempo che avevano speso anni della loro vita in questa cosa, molte varietà politiche, nessuna sigla, nessuna bandiera era una cosa plurale. Ci siamo anche detti che non potevamo fare una marcia della pace folkloristica, ma dovevamo trarne delle conseguenze, e proprio in quell’occasione abbiamo scritto ai lavoratori, perché non volevamo mettere in contrasto la pace con il lavoro, due diritti umani fondamentali.
Il giorno dopo ci siamo incontrati con tutte quelle associazioni che avevano partecipato all’organizzazione, e assieme anche ad altri gruppi e singoli che si erano avvicinati all’argomento, abbiamo avuto la possibilità di fare questa riunione all’interno degli uffici del Municipio, perché diversi rappresentanti del Comune, tra cui il sindaco, il vicesindaco e alcuni assessori, avevano partecipato alla marcia; risultava urgente costituire un comitato perché proprio in quei giorni l’Rwm aveva presentato un progetto di ampliamento per la realizzazione di un campo prove per esplosivi e il modo per poter intervenire è stato quelli di partecipare alle riunioni della commissione tecnica. Con la nostra presenza, con i documenti che avevamo portato, abbiamo sollevato la necessità di studi a livello ambientale, e la cosa è ancora sotto studio da parte dell’ufficio dell’ambiente.
Anche grazie al fatto che essendo il comitato composto da soggetti molto diversi, più di venti, ha delle risorse interne, come l’esperto di urbanistica o quello ambientale, che hanno messo subito a disposizione le proprie conoscenze.
Come convertire una fabbrica di morte
C’è stata un’azione da parte nostra verso il consiglio comunale, in questo luogo ci siamo incontrati con i consiglieri comunali di tutti gli schieramenti e abbiamo chiesto loro un’approvazione dell’ordine del giorno in cui si diceva non fosse possibile che producessimo bombe e le vendessimo illegalmente e che il comune prendesse posizione. L’ordine del giorno è stato votato all’unanimità dal consiglio comunale e ha definito, come già detto, Iglesias città della pace. Il sindaco è stato persuaso a prendere iniziative per la riconversione di questa fabbrica, ed è stato subito chiaro che i lavoratori non dovessero perdere il posto di lavoro. In poco tempo siamo riusciti a incidere sulla modalità di procedere degli atti che prima si basavano sul silenzio-assenso che ha permesso alla fabbrica di presentare i progetti in maniera frammentaria. La fabbrica è un colosso e ha anche delle strategie intelligenti di azione che abbiamo oggettivamente rallentato, rompendo il silenzio anche a livello internazionale.
L’amministratore delegato dell’Rwm non ha mai parlato o concesso interviste, ma a un certo punto è dovuto uscire allo scoperto su questo tema facendo dichiarazioni del tipo: “noi non riconvertiamo, o ci fate ampliare o ce ne andiamo, e poi agiamo legalmente”. Da un punto di vista legale ha ragione perché la fabbrica ha ottenuto, negli anni, le sue autorizzazioni, ma il tutto nasce da un’illegalità governativa: il governo autorizza un’esportazione che una legge italiana chiede di non autorizzare.
Secondo la Costituzione, che ripudia la guerra, l’Italia non deve neanche vendere armi a paesi in guerra. Ci siamo fatti aiutare anche dagli esperti giuristi che analizzando ancora più a fondo la legge dicono che anche mettendolo insieme al trattato internazionale sulle armi, l’autorizzazione non si può dare a questi paesi. Si può dare solo dopo aver interpellato il parlamento, cosa che non è stata fatta, e si può rivedere l’autorizzazione solo se il governo possedesse nuovi elementi. Nel frattempo si è creata una rete di referenti internazionali, come la Rete del disarmo, il Movimento del Focolaio, Banca Etica, Lega Ambiente, Oxfam, Amnesty International, Medici senza frontiere e ultimamente, la grande novità, anche con una ong yemenita e una tedesca (la fabbrica ha la sede legale in Germania), con la quale si è fatta una denuncia proprio mettendo in evidenza questa contraddizione italiana.
Il 21 giugno scorso abbiamo partecipato a una conferenza stampa alla Camera per presentare una mozione di un embargo della vendita degli armamenti agli stati del Mena. La mozione è stata votata in una forma blanda che noi definiamo “light”, nella quale si dice di stanziare un aiuto umanitario per lo Yemen. Però 130 deputati di diversi schieramenti, la maggior parte Cinque stelle e Sinistra italiana hanno votato la mozione forte, cioè più o meno quella che avevamo proposto, nella quale si propone l’embargo all’Arabia Saudita, nella si facevano proprie le risoluzioni del Parlamento europeo che nell’ultimo anno per quattro volte ha chiesto agli Stati membri di imporre l’embargo all’Arabia Saudita. Questo avrebbe avuto una ripercussione immediata sulla fabbrica perché il 90 percento della produzione viene venduta all’Arabia Saudita.
Tra l’altro il trattato europeo dice che se un paese mette al bando la rendita di un altro paese in stato di conflitto tutti gli altri paesi europei si dovrebbero adeguare. Si è creata questa situazione per cui metà dell’Europa non vende all’Arabia Saudita e l’altra metà invece sì.
La cosa interessante è che in Germania, con l’accordo Schultz-Merkel, si è messo nel contratto di governo l’embargo all’Arabia Saudita, proprio per la grave situazione sanitaria dello Yemen. È una ipocrisia perché l’impresa tedesca continua a produrre e a vendere in Italia.
Nel nostro comitato c’è anche Finanza Etica che fa azionariato critico, ha comprato un’azione, il minimo indispensabile per poter avere voce in capitolo in assemblea e già dall’anno scorso, il 9 maggio, hanno fatto una serie di domande all’assemblea dei soci dell’azienda molto molto precise sulla destinazione della Fabbrica di Domusnovas, sugli investimenti e su altro. Rwm è obbligata a rispondere però non lo devo fare per scritto. Hanno riposto in maniera molto generica, però agli atti c’è una richiesta. Il nostro lavoro, la nostra azione è solo all’inizio.
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